martedì 24 febbraio 2009

La pianta di Limone


Aveva questa pianta di limone, Zi’Nicola. La pianta stava nell’orto di casa a Pennadomo. La casa si sviluppava a terrazzoni, ogni piano due vani: prima c’era l’entrata dell’osteria , poi, scese le scale, si arrivava alla dispensa, ancora piu’ giu’ la cantina e la stalla, per finire il fondaco e l’orto, tenuto sulla strada da un muretto di pietre a secco. Un orto piccolo, dove nonn’Anna tentava invano di coltivare qualche odore per la cucina oppure teneva due piante di insalata. L’unica cosa che dominava in un angolo a sud, questo fazzoletto di terra, era la pianta di limone. Un tronco contorto, tormentato,, che producev frutti bitorzoluti, aspri come un dispiacere, che ti bruciavano le labbra e ti facevano fare saliva fino a strozzarti al solo tagliarli in due. Quella pianta era cme la famiglia Di Renzo, dura, greve. Molti in paese sostenevano che quella gente riusciva da sola a far rimanere la Penna indietro di un secolo. Zi’ Nicola se ne fregava, gli bastava ficcarsi nella stalla la sera, a suonare il suo bombardino sotto l’occhio paziente dell’asina Rosina, che sopportava qualche “variazione” sul tema. Zi’ Nicola suonava nella banda del paese, ed era l ‘unico modo per far capire che non era uno zotico come molti pensavano, ma sotto la scorza taciturna e ruvida si nascondeva un curioso osservatre ed un poeta a modo suo. Così soffiava maledettamente forte in quel bombardino, per vendicarsi dei “dottori” e filosofi del paese” tanto da lui venivano, quando avevan bisogno di soldi. Li segnava tutti con bella calligrafia sul registro che teneva nell’armadio della camera matrimoniale. Zi’ nicola era l’oste, baffetti e giacca, una leggera incurvatura della schiena. Saliva dalla rua con l’asina Rosina a portare i ceppi secchi per il fuoco dell’osteria, a riscaldare i quattro avventori seduti davanti al quartino e la gazzosa. Zi’ Nicola faceva scarpe, quelle per lavorare, per andare alla festa del paese e mangiarsi due lupini mentre si ascolta la banda nella cassa armonica, le scarpe per le comunioni, le scarpe per zappare, le scarpe per chi muore, e non deve camminare. Segnava le scarpe che faceva sul registro e ci metteva pure i soldi che dava al figlio Carminino per l’Universita’ a Modena. Aveva iniziato gli studi, nel periodo confuso della guerra Carminino. Aveva un animo gentile, dotato di forte intelligenza matematica. Per questo Zi’ Nicla aveva sognato un grande futuro per il figlio, mentre l’altro figlio Camillo era al fronte. Ma ora non riusciva a capire, come avesse potuto fare a trovarsi in quella situazione. Era nascosto in un cespuglio, in mezzo alla nebbia della bassa padana. I tedeschi li avevano rastrellati, perchè giovani e buoni per scavare le trincee. Dalle lenti a culo di bottiglia, appannate, a causa del respiro pesante e della nebbia, Nino, riusciva a vedere il cespuglio vicino, dove si erano nascosti i suoi due compagni di fuga. Li stavano cercando da ore. Non era stato semplice scappare. Erano immersi nel fango, con le pale in mano, quando, il tedesco di guardia si eran distratto a a causa di un ragazzo, svenuto per la fatica, che lavorava a poichi metri da loro. Nino aveva approfittato, per tramortire il soldato con la pala ed era saltato fuori dalla buca, correndo verso l’ombra di una cascina lontana. Capì dopo di essere seguito dai suoi due amici. Ora stavano lì, in attesa di qualsiasi cosa. Da lontano, il rumore di un moto. Era la pattuglia tedesca. Nel sidecar, un tedesco teneva stretta in mano la machinepistole. Passò davanti al loro nascondiglio affondando in una pozzanghera e riprendendo la corsa. Nino era intenzionato a stare fermo, ma gli altri due, nel panico più totale iniziarono stupidamente a darsela a gamba, non considerandom il pericolo scampato. Il tedesco nel sidecar, si girò. Iniziarono i primi colpì di mitraglia nella loro direzione. Nino fuggiva, aveva sentito gli altri due urlare per le ferite. Stranamente, non era stato colpito. Il tedesco, prese una bomba a mano e la tirò nella sua direzione. Nino sentì una sensazione di calore dietro la schiena, poi il buio. Si svegliò, dopo due giorni, nell’ospedale da campo tedesco. Era stato colpito ai reni e una scheggia si era conficcata in quello destro. Quest incidente aveva cndizonato la salute di Nino, anche ora che, a guerra finita, aveva ripreso gli studi. I sui mal di testa erano terribili, non riusciva a contenersi, doveva mettere la testa sotto le fontane anche in pieno centro, vestito di tutto punto. Ritornava da Modena per le feste comandate ed ogni volta riusciva amascherare bene il peggiorare della sua malattie. Lo rallegrava il nipotino Nicola e la sorella minore Laurina che era la sua prediletta. Amava ritrnare cn il treno nella citta dei suoi studi dove ormai lontananza e solitudine si erano fatte più pesanti, amava i paesaggi del treno sull’Adriatico. Come quella volta tornando da casa dopo Natale C’erano ombre veloci, sugli scenari, ostacolati dalla luce dello scompartimento. Una regione era di passaggio. Forse le Marche. Portava un vestito elegante ,scuro, l’unico vestito buono dell’armadio. La cravatta viola, di seta, indurita da lunghe permanenze in cassetti bui. La cravatta di Gian Maria Volontè. Carminino era Volontè, un cittadino oltre ogni sospetto di viaggiare per inutili convegni, senza delitti nascosti, con mediocri appunti di università su fogli intestati a fornaci di mattoni. Uno spiraglio dal finestrino difettoso, odorava di porcilaia e pianure emiliane. Il treno lasciava una luna cattiva. Lei era bruna. Si accostò al finestrino. Aveva i seni larghi ed una sottile linea del mento. Dalla fronte, di pendii di sole, scendevano i capelli neri, ricci e lenti. Si illuminò con il primo chiaro della mattina. Faceva finta di dormire o dormiva, Nino non lo sapeva. Una colazione mancata, attirò il pensiero di Carminino verso la stazione ed un caffè. Però aveva i fianchi generosi, siculi. Nino avrebbe preferito una calabrese o una pugliese, senza centro, regioni assolute. Il chiarore incerto dal vetro, i pendolari assonnati alle stazioni, mentre lei sorrideva, denti regolari. La Romagna. Un taglio si sopracciglia austero, orientale, si perdeva sulle tempie vivaci. Avrebbe potuto avere il sesso. Era giovane, piena di insana predisposizione ed ingenua confidenza. Tanti avrebbero posseduto il suo corpo, lasciando segni come solchi ed un posacenere pieno sul comodino. C’era fretta. Le donne non volevano fretta. Non le distrazioni. Non volevano leggerezze. Amavano il tessitore lento di racconti e desideri. Amavano il tono del sussurratore dei mondi, dell’ammaliatore di nubi. Il corpo poteva aspettare. Perchè dopo, sarebbe stato tutto corpo. La banda del finestrino, restiuiva sequenze di paese, una striscia di mare vicino alla spiaggia di lampioni distanti. L’attenzione discreta. A questo lei sorrise. Si fece, di colpo, più accorta. Accesa dal sole di taglio sull’acqua. Attendeva. Era attesa. Forse un uomo alla stazione. Il suo uomo. La stazione era l’uomo. L’arrivo era il volto di chi l’attendeva. Un altro sorriso. Carminino avrebbe continuato. Un cimitero annullò le pagine. Di nuovo la luna. Diversa. rassegnata al mattino di nebbia. Il treno si fermò. Rimase di lei solo il profumo. Carminino proseguì il suo pensiero fin dentro l’Emilia. Modena la mattina presto. Novembre, per i pendolari stretti dentro le prime spinte del freddo umido. Scese insieme a questa comunione di aliti assonnati, impastati di caffè e solitudine. La stazione odorava di disinfettante e carbone. Questo viale, in mano la sua valigetta, schiudeva due larghi marciapiedi, che costeggiavano vecchi giardini di ville silenziose. File di alberi tratteggiavano un muretto coperto di muschio. Non era come il nostro muschio. Sembrava una regolare decorazione delle pietre, un ornamento che stava bene con le nebbie e l’alba cittadina. Le biciclette legate intorno a questi pioppi, le biciclette sulla strada di basole, sotto il sedere degli operai, ammucchiate e sequestrate come sul piazzale della stazione di Ferrara. A sera, Carminino, avrebbe sognato di quella donna e di quella che sapeva, non sarebbe mai avvenuto, nel poco che sentiva rimanergli da vivere. Un pensiero alla quercia, nuda per l’inverno, ai venti del lago.
Zi’ Nicola dovette comunicare a Nonn’Anna l’arrivo di Carminino in paese con l’ambulanza. Anna comprese. Lo accolsero come un cristo morente. La nefrite lo stava consumando, Fu messo subito a letto.
Carminino era ormai giunto alla fine del suo viaggio. I reni, distrutti dalla mina, non funzionavano più. Lentamente si stava spegnendo. Stava perdendo la coscienza di quello che accadeva intorno, anche se accennava a momenti di estrema razionalità. Si gonfiava, come uno di quei cadaveri che vengono ritrovati in acqua dopo alcuni giorni. Se ne stava a letto accudito da Nonn’Anna. Nicolino spesso lo andava a trovare. Fu quel giorno che il nipote era andato in campagna con l’asina Rosina, che Carminino prese il vecchio rasoio del padre e si recise le vene dei polsi. Nonn’Anna rientrò dall’orto appena in tempo. Non disse nulla. Strinse le ferite con degli stracci, con precisione e velocità e solo dopo chiamò aiuto. Servì solo a ritardare la morte di qualche giorno. Era lì quel pomeriggio, rantolava. Troppo giovane per morire. Gli stava accanto la madre. Sul comodino c’erano i limoni della pianta nell’orto. Era al compimento degli ultimi respiri. Di fronte a lui, sulla parte c’era un quadro con l’immagine della Madonna. Prese un limone, lo tirò contro il quadro centrandolo in pieno. Fu l’ultima cosa che fece...
Zi’ Nicola non caccio’ una lacrima. Molti andarono in visita al morto. Poi gli venne un’idea. Aveva visto, in un giornale, un funerale di quelli che facevano le persone di colore in America a New Orleans,. Tutti andavano dietro al morto con una banda che suonava canzoni alla sua memoria. Ed i cavalli con i pennacchi che trascinavano il carro funebre. “Quante me piacesse che lu fije ‘me’ tenesse la bbande a lu funerele!” Ando fiducioso dal suo capobanda, sicuro che questo favore non glielo avrebbe negato. Il maestro però, un rigido violinista di mezz’età, troppo mediocre per suonare al di fuori da un paese, ma abbastanza borioso per darsi le arie tra i cafoni del un borgo, addusse mille motivazioni per rifiutare la richiesta del vecchi suonatore di bombardino, anzi fece capire a Zi’ Nicola che forse era arrivato il tempo del pensionamento per lui come bandista, approfittando del fatto che il dolore per la morte del figlio avrebbe prevalso sulla perdita del posto come musicista. Zi’ Nicola, stretta la coppoletta in mano, se ne andò senza dire nulla. Durante i funerali oltremodo silenziosi, non un sospiro uscì dalla sua bocca. Tornato a casa, prese il bombardino e lo ando’ a vendere ad Agnone, per comprare un campanaccio da vacca. Arrivò il suo giorno. La banda del paese fu scelta per andare a suonare ad una manifestazione a Roma dovre avrebbe presenziato anche il presidente Gronchi, all’Eur. Al paese si organizzo un postale per andare ad applaudire la propria banda. Anche Zi’ Nicola ci ando’. Portava con se la mappatella delle vivande per passare la giornata. Prima di partire passò nell’orto. Rimase in disparte tutto il giorno, aspettando il turn della sua ex banda. Verso le quindici toccò alla banda di Pennadomo. Nel clou dell’esecuzione, Zi’Nicola si piazzò davanti alla fila dei tromboni, quindi estrasse dalla sua sporta uno dei limoni dell’orto, quello più luccicante e bitorzoluto, lo taglio’ in due sotto il naso dei trombonisti e inizio’ a succhiarlo con perfida voluttà. Se lo levò di bocca solo per dire: ”E mò sunete stukazze!”. Dai tromboni ormai strozzati dalla saliva straripante uscì, tra il clamore generale, una lunga e agonizzante pernacchia.

4 commenti:

  1. Dicevo ... Finalmente Gianluca ha pubblicato il racconto di cui parlavo post fa: La Pianta di Limone. Sarà mia cura farlo leggere a persone fidate! ..... Se neanche stavolta il commento si "posta" credo che userò la blasfemìa!

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  2. ho aspettato il silenzio della notte per leggerti, incantevole come al solito. Non so chi siano le persone fidate delle quale Giovanni parla, tu continua a scrivere, ne ho bisogno

    frutti bitorzoluti, aspri come un dispiacere,...

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  3. Uhm, uhm, in verità mi riferivo ad amici che sanno apprezzare :-(

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  4. porcaccia io pensavo a qualche editore... merita urka se merita

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