sabato 31 gennaio 2009

La strada della memoria

Dedicato alla mia Guzzi


Sono steso accanto a lei. La paglia, sotto il mio corpo, scricchiola a riempire il rotondo silenzo dell'ambiente. È il mio respiro regolare si nutre a stento dell'aria di legna da ardere, residui di stallatico ed odore di cuoio antico ed un altro, penetrante, afrore, decifrabile tra tanti, della testata di un V7 appena spento.. È odore acido di benzina ed olio esausto, è odore di pneumatico e polvere di ciglio stradale, è odore di vecchie guarnizioni e grasso. Un`entità calda , nel buio, chiusi io e lei tra le mura di pietra di questa stalla, in un paese del basso chietino.Ma dalla feritoia di una grata polverosa, il taglio di una luna benevola e pigra, illumina il vecchio vascone, un tempo protagonista di mosti e bolliture.Allora, come a ricordare di non essere solo, un leggero cono luminoso, nel pulviscolo, schiarisce il serbatoio della mia compagna. Sembra stanca, come me, nella inanimata calma del metallo, mi sembra di scorgere la linea flessuosa di una schiena animale, a riposare dopo il giogo diurno. In questa stalla la mia moto è l`animale che qui fu sessant`anni fa a riposare dalle fatiche nei campi a seguito del mio bisnonnno Nicola.Nel tramonto, sulla strada della frana, da Villa Santa Maria a Pennadomo, andavano l`asina Rosina e lui a riportare il frutto del lavoro, a casa all`osteria, dove nonn`Anna aspettava, senza la pazienza , perché non c`è bisogno di pazienza, quando devi ricordare di caricare l`orologio a molla. I querceti regolari, dalle chiome leggermente inclinate a valle, verso il nuovo lago, che aveva rubato a Nicola la campagna e la masseria, per pochi soldi. La bruna luce, della linee dei monti Pizi colorava I tronchi, le fronde, di ocra secchi, di rossi carichi, di gialli austeri. Ora, la mia V7, bagnata dalle linee sincere del sole d`autunno , riflette piccoli abbagli rotondi, sul cromo dei paramotori, dei parafanghi, appena ammaccati, sulle molle a vista, sui cerchi lucidi...A girare lo sguardo a destra, mentre nonno teneva la cavezza dell`asina, senza il pensiero all`animale, che ormai sapeva la strada verso la biada, la mia divide con l`anteriore le due rette nuvole di polvere dalla massicciata ghiaiosa di pietre bianche di montagna. Nonno, tra le labbra un sigaretto Cavour, a ciucciarlo come preziosa reliquia, lo aveva acceso al mattino per dargli due tiri dopo la colazione a base di pane , peperoncino, ventricina e due sorsi di quello buono, non di aceto che rifilava agli avventori dell`osteria insieme ai finocchi per camuffargli il sapore.L`asina lo guardava seduto sotto la grande quercia secolare a consumare il pasto. Gli stava di fronte con I grandi occhi silenziosi, cerchiati, ad aspettare un pezzetto di pane, una carezza, un brontolio del vecchio. Nonno la osservava, domandandosi da dove venisse tanto cieco e devoto affetto dell`animale per lui, che la trattava come un mezzo di trasporto. Mi fermo anch`io sul ciglio della strada dove il posto della quercia è segnato da un cartello stradale ed un paracarro coperto di ruggine e corbezzoli. Mi fermo. il motore gira in cerca della presa al terreno sconnesso, ma nulla può contro la mia frizione tirata. Mi siedo, come faceva nonno, verso il lago, ormai nota visione. L`occhio ebete della mia V7 mi guarda senza emozione, ma devozione fredda, il colore delle fiancatine sembra cercare la stretta morsa delle mie gambe. Il fantasma della grande quercia, fatta saltare con la dinamite , sembra protendere la sua ombra sulle nostre teste e testate. Nonno Nicola piangeva quel giorno. Prima di mettere le cariche, si stesse sul cerchio del tronco ormai abbattuto dai cantonieri e allungo` il braccio a contare e ricontare I cerchi della vita per due ore filate.La quercia aveva più di cinquecento anni. Nonno penso che l`albero era più vecchio di Cristoforo Colombo, dei quadri di Leonardo. E la quercia era stata sua, quell`albero era un pezzo di storia nella sua terra, un pezzo di storia dell`Abruzzo, a cui non a aveva mai badato fino a quel giorno. Quel dito puntato e ripuntato su quel cerchio sembrava il cardano sulla ruota della mia V7 a girare su questa strada. Maledisse la strada nonno, la strada che gli aveva tolto la quercia, l`ombra ed il ristoro dei suoi giorni di calura, nel vigneto, nell`oliveto, nel pratone a fare l`erba.Quella strada doveva andare a valle, nel lago. Gli dettero ventimila lire a nonno e lui ci si comprò un bombardino nuovo, per suonare nella banda del paese. Si iniziò a dire che la strada fosse piena di demoni, da quando non c`era più la grande quercia proteggere I viandanti , la notte, tanto che zio Nino, era andato a finire, sotto ad un fosso con il carretto ed il mulo, perché gli erano apparsi all`improvviso. Gli stessi demoni si attaccno al vetro dei miei occhialoni, mi tirano il manubrio, mi fanno tremare le mani, mentre corro consumando le pedane contro I sassi. È il manto stradale, un demone bianco che consuma le ruote, ti trattiene fino alla terza, fa rantolare il motore, fa cigolare I vecchi ammortizzatori. spacca le ossa. e` la stessa spina dorsale di mio nonno che zappava, maldicendo quella strada, quel lago che gli aveva portato l`umido fino al collo e le nebbioline spossanti dellla mattina. Sterzo di colpo. La moto si imbarca e dà di sedere sulla ghiaia.Dall`alto della rupe scoscesa in venature giallo rossastre, le capre tirano I sassi sul ciglio dello strapiombo. La fontana in coro col minimo del motore. Non si passa. Davanti al muso dell V7, la lingua di detriti ed immondizia, continua lenta, a scendere a valle, ogni ora diversa, ogni ora piu` in basso.Sembra che la montagna vomiti sassi, da un profondo infinito. Pennadomo è di fronte. Le rocce grigie di scolatura, come lastre di porfido schiarite si incastrano alle case arroccate come molluschi allo scoglio. sono pochi metri, ma non c`è guado. Torno indietro. Dalla finestra del Palazzo più grande, si sveglia nonno, di notte.Quel dolore alle ossa lo tiene in piedi. Apre la finestra, La luna, gli illumina la grande parete che sovrasta il paese.Brilla la croce sulla cima. La pietra gli nasconde le acque del lago, cerca con lo sguardo cieco della notte , l`enorme fronda del grande albero invano. Si alza la civetta in volo a leggere I suoi pensieri. Domani andrà a Torricella dal dottore. Rosina non ha bisogno di fruste, conosce la spalla del passo cadenzato di Nonno Nicola e sale per la strada di Torricella. Non ha bisogno di spinte tranne quella volta che ci andarono a vendergli l`unico suo nato. Fu dato ad un tizio che si rimetteva Fante di cognome e si diceva che avesse un parente diventato un famoso scrittore nelle lontane Americhe. Al ritorno Rosina continuava a voltarsi, come sperasse vedere quel suo unico puledro ritornare da lei. Ora il lago è a sinistra.Arrivo con leggera discesa a Villa Santa Maria.. Una lunga striscia di cemento taglia lo spettro d`aria sul paese. Ero ragazzo. Andai un giorno sotto I plinti del mostro a vedere l`opera. Pensai alla dolce strada da Borrello, dove Nonno Nicola correva fino ad Agnone con il postale a trovare I parenti. Si aprono tra I boschi bassi e le colture, ampii spazi di fattorie e casati di calce scrostata. Le querce spandono un manto terroso sul bordo della strada e friggono al passaggio della ruota della V7. L`odore di muschio ed arbusti bagnati , un orizzonte senza vedute, come a serrare la gola, in attesa dell`aperto, costringe alla guide di gambe. Ogni tanto qualche auto di contro, ti stringe la curva, poi l`autista si gira a vedere quell`antico prodigio meccanico, ancora sula strada, dopo quaranta anni. Vorrei entrare, nel cuore dell tranquilla montagna molisana, ma devo tornare indietro. Nonno lo faceva. Avvolto nel vecchio cappotto, leggermente più grande di spalle, una borsa di cuoio, di quelle che faceva lui, con il collo della bottiglia, turato da un turacciolo di sughero, che spuntava da un lato. Il basco calato fino alle sopracciglia ed il mezzo sigaro pestato in bocca. Non si poteva fare la strada insieme all`asina, l`inverno. Rosina era vecchia, ormai serviva solo a portare qualche fascina per il fuoco dalla vigna. Nonno non l`avrebbe mai lasciata da sola alla stalla, preferiva portarla con lui in campagna, era l`unico essere che poteva dargli compagnia senza chiedere nulla in cambio.La mia chiede compagnia, ma in cambio vuole benzina. Ora la strada scende in curve , a sinistra il fiume che si allarga, lungo, fino al bacino artificiale, a serrarsi contro la diga curva. Una riva giallastra e fangosa, tappezzata di mucchi di rami portati dalla piena, accompagna un leggera increspatura, verde bottiglia dell`acqua. Rallento sotto Bomba, da lontano un vecchio cartello slavato, mi indica la stazione del paese e la direzione Pennnadomo. Mentre scendo sulle nodose curve fino alla stazione si erge come un fantasma di antiche vestigia, l`enorme cavalcavia, interrrotto dal pilone centrale crollato. è lì decenni. Arrivarono gli ingegneri da Roma. Volevano costruire il ponte che velocizzasse la strada. Si misero a misurare, a studiare e I pastori dicevano di non costruire , perche` il posto era chiamato dagli abitanti “la sorgente”, c`era l`acqua sotto. Nonno Nicola una volta ci aveva fatto finire Rosina, con le zampe fino ai garretti, per poco, non bisognava tirarla fuori a forza. Nessuno ascoltò I pastori, ed il ponte, appena costruito crollò .La moto si inclina sulla curva cinta da rovi di more, salta sulle rotaie sconnesse della vecchia stazioncina. Passo oltre fino al ponte sul Sangro. La strada a a destra verso Pennadomo.Da questo versante il lago si fa meno oscuro, quasi amicale. I toni del verde tenebroso, lasciano il passo ai canneti sulle rive, dove I pescatori si appostano per le carpe ed I cavedani. Un`aria sottile ti invita alla sosta, mentre a destra, campi a fienagione, sparuti filari di vigne basse, si alternano agli anonimi caseggiati di contadini moderni. Improvvisamente, qualcosa incombe abrunire le chiare sagome della mia V7. Il rumore si fa cupo, quasi un muro ritornasse il polmone d`acciaio che pompa sotto le mie ginocchia. Alzo lo sguardo. Una lama di roccia , sottile come una sfoglia, si erge da una bassa sterpaglia spinosa. Un`altra lastra di roccia, altissima la contrasta , a formare una stretta gola, nella quale scorre, tranquillo un rivo tra I sassi. Nonno Nicola ci è passato di notte.Dal buio del greto ghiaioso, si odono gli echi delle civette sulle cuspidi nelle tenebre. Nonno sente l`asina inquieta. Lo sa che il paese , di notte , è un covo di streghe, Pennadomo è Pena d`uomo, il posto dove si assiste al martiro dei viandanti sospetti. Il tizzone del sigaro lo guida sull`erta di fronte alle rocce. Non vede l`ora di scollinare alle luci delle strade. Nonno, sente il fiato delle streghe sulla nuca. Nonno ha paura che gli entrino in casa per portargli via I figli e passarli sul fuoco. Così dorme con le gambe incrociate, perché le maliarde non lo possano tormentare nel sonno, e tiene l`accetta sotto al letto. Bisnonno incrociava le gambe , nonno incrociava le gambe anche quando stava a Dachau, papà incrociava le gambe quando riposava a Milano, io incrociò le gambe quando dormo, tranne che sulla mia V7, perché qui le gambe bisogna tenerle strette contro il serbatoio, con le streghe nel motore. La salita e` da seconda. fino alla frana. Vedo l`altra sponda che mi aveva costretto al giro chilometrico. Sono in paese. Alla fontana della piazza. Nonno Nicola si ferma sempre qui con Rosina per darle da bere.Sul belvedere, le panchine coi vecchi che si appoggiano al bastone sentono arrivare nonno dal lago, per gli zoccoli dell`asina. Ma quel giorno, arriva solo Nonno. Ha la testa bassa. Ha seppellito Rosina vicino alla vigna, sotto un ulivo che stende I rami a valle. Nulla ha più importanza, adesso. La frana porta via la strada, porta via gli orti, coltivati a fatica, porta via anche I vecchi, morti di vecchiaia a forza di stare lì a vederla scorrere. Qui, sulla piazza del paese, davanti la fontana, si sente solo un rumore: quello del mio bicilindrico di una vecchia V7.
Gianluca Di Renzo

L'amante russa


La mia amante russa. Nella veglia del grumo di pensieri, odo, leggero, il lieve trombettio delle sue nari. Le amanti non dovrebbero russare. Le immagini perfette, anche di notte, ti accolgono nei desideri del proibito. Dopo l'amore, si addormentano senza rumori, fruscii. La mia amante è diversa. Lei russa, si muove, fa rumore, si attacca ai miei piedi, con i suoi, ha freddo. La mia amante odora di amante, non profuma di non detto. La mia amante invecchia insieme a me, non è statua o idolo infrangibile. Non è diamante senza graffio. La mia amante russa, è di questa terra, è di mare, sa di pane e olio. La terrei questa amante, nell'armadio, a cacciarla di nascosto, a sera, quando mia moglie dorme, tanto non si accorgerebbe di nulla, perchè russa.

venerdì 30 gennaio 2009

L'avvocato


L’avvocato è alla porta e bussa dopo essersi sfregato le mani, rosee e sudaticce.Un rantolo mi basta, per dargli permesso di entrare. Sto tentando una naufragante esperienza sulla pala. La pala è un assaggio della vecchiaia che temo, dove figlie indaffarate, mi lasciano a marcire, in un ospizio di provincia, pieno di suore violente. L’avvocato ride. E’ sempre all’erta. Siede comodo sulla poltrona e legge la mia cartella clinica. Ha la finzione del distratto e l’attenzione del macchinatore d’intrighi. E’ magnanimo con i fedeli e sgradevole con coloro che scoprono la nefandezza incipriata del suo sepolcro. Ha la simpatia filmica del consigliere fraudolento ed il candore tepore del demone in attesa di affondare i denti nelle carni molli dei neonati. L’avvocato concepisce l’unico diritto: il suo. E’ giustamente sprezzante con i sottomessi,pronti a pugnalarlo non appena si sia voltato e arrogante con i questuanti, perchè la vittima, talvolta, è peggio del carnefice. Eli viene tradito, perchè ogni cosa la fa, solo per il bene degli altri. Nelle penombra di una chiesa o sotto l’ala di carta di un libro di salmi, prega, l’avvocato. pensa a Dio, come Dio, per Dio, per il Dio se stesso con ii dito creatore puntato su se stesso. Un Dio pensatore dei difetti, perchè il difetto è del Dio perfetto che crea il suo contrario. Ma l’avvocato sa, che essere alquanto imperfetti,, rende umani agli occhi del profano. Parlano male dell’avvocato gli altri, perchè hanno la sua natura dentro, ma non hanno il coraggio di sbucciarla ed offrirla agli altri come fa lui. Se il Dio è in lui, è lui la sua e la chiesa. Ogni colpa, egli lava in casa sua, con la mano nell’acquasantiera...quella mano messa con il terrore che quell’acqua si trasformi in acido o bocca della verità. Infatti l’avvocato ci bagna appena le dita. La maschera dell’avvocato passa per l’ostia ed una pettinatura ordinata di fresco. Ha l’ulcera. Il suo alito, annebbiato dai furori del dopopranzo, tracima sui nemici, annega colleghi, confonde dubbiosi,. L’avvocato sa tutto. Non legge. Come una spugna, attira liquidi cerebrali altrui e li gioca a carte sul tavolo dei mediocri, come pepite a rinfocolare speranze di erranti cercatori. Nulla esiste di scritto sulla carta, se non può essere versato sul suo conto corrente. Si può guadagnare proporzionalmente al numero di pagine della cartella clinica. L’avvocatura è il più bieco esercizio della cattiveria umana. Per legge, si riescono a trasformare aliti di bugia. L’investitore è giovane. Non è fuggito. Ha la patente fresca, ma soprattutto ha pochi soldi per comprare uno di loro. Se è la vittima ad avere pochi soldi, allora l’avvocato, presenta il menù delle possibilità.: il prezzo stabilisce le soluzioni, indirizza sentenze. L'avvocato è mio amico. L'avvocato non risolverà i miei problemi perchè non si farà pagare, in quanto amico. E un avvocato che non si fa pagare, non vince

Death of a tree

Morte di un albero
Avete mai provato ad essere un albero? Nessuno, oggi, riesce a sentirsi un albero. A percorrere le strade del mondo, delle storie, si finisce in posti dove, un albero, è al centro delle vite. Il legnatico. Il diritto di disporre di alberi per sopravvivere. La certezza di sapere che la morte di un albero sarà la nascita di uno nuovo. Ricordavo l’immenso, secolare Gelso (perché l’albero si scrive con la Maiuscola), al centro dell’aia del casolare, di uno dei tanto nonni che ho avuto ed ai quali devo gratitudine perché hanno creato la mia storia. Sotto questo Gelso, ho visto le stagioni della campagna, della natura. Intorno all’albero, si sviluppava una vita di lavoro, emozioni, giochi. Lì ho imparato a lavorare il tabacco, a fare i pomodori, a fare i canestri. Appeso a quell’albero c’era il maiale da ammazzare. Sopra quell’albero passavamo i giorni ad essere i cavalieri rampanti. Seduti sotto l’albero ascoltavamo le foglie ed il silenzio dei venti che venivano dal mare a farle vibrare. Sotto l’albero le feste dell’estate, con una tavola lunga ed i sorrisi dei contadini, per il buon raccolto e per il vino. L’albero guardava. Ho sempre capito che l’albero assisteva in silenzio. Ora sono in un altro giardino. Il vecchio Ciliegio, dritto, mi guarda, mentre gioco sul muretto con dei robot di latta a molla. Mi aspetta il Ciliegio. A Maggio mi regala, io bambino, i lunghi momenti dei suoi frutti. Sotto il ciliegio c’è il calderone, dove nonno mette a bollire le conserve per l’inverno. All’imbrunire, il Ciliegio è una guardia, ci aiuta nel lavoro, è un uomo dalle spalle larghe, presente in silenzio. Il Ciliegio guarda la nostra famiglia, la benedice. Un bambino, al tramonto, non è stanco. La nonna lo chiama dalla finestra. Passano gli alpini con i muli, tornano in caserma. Sono di nuovo nell’orto di un nonno. Il Limone, contorto sotto l’oscuro muro di pietre non ha pietà dei vivi. La vecchia bisnonna, passo lento, distende le braccia per cogliere un aspro frutto al figlio morente. L’albero è duro come una pietra della Majella. L’albero è uguale ad un sasso lucano. L’asino docile volge lo sguardo a Nicola. Nicola è bambino e guarda la luce alla finestra di chi lo ha accudito. Ora non più. Ancora bambino. Lungo la strada, in autunno, la struggente voce dell’Ippocastano, cadute le foglie ai primi umidi aliti di nebbia, accompagna il traffico distratto dei milanesi. Giochiamo sotto l’albero, vicino il fiume gonfio, sul prato ordinato, una palla. L’albero è in file, regolari, settentrionali, si concede di rado ai raggi del sole opaco, respira muto le grida dei bimbi. E’ solido l’Ippocastano, immenso agli occhi di un bambino, ha memorie del secolo di carri coi sacchi di riso dalle pianure inondate. Sono di nuovo nel bosco di Querce, sul lago a meridione. La vecchia capanna di pietre, il forno di nonna. Ma un’ombra lo copre, come una nuvola. L’immensa chioma ricciuta, regolare, della Quercia madre. E’ l’albero degli alberi. Ha fondato il paese delle grigie rocce a picco sul torrente, come uno Stige per vivi. E’ l’albero che esiste prima dei tempi, non ha da raccontare, la Quercia è da cinque secoli. Ma l’uomo non è un albero. Non è mai stato un albero. Non ha paura della Quercia madre. Nel mattino di un inverno senza neve, la Quercia esplode sotto le cariche, in un funerale di polvere e scintille. Ora sono un ragazzo. Un ragazzo che corre lungo il viale di questa marina. Il piccolo Pino , apre le braccia alla vita dei venti di maestro. E’ dritto, ma presto si piegherà ai voleri del mare e delle stagioni. Evito i suoi rami chinandomi, al passaggio. Ora sono un uomo. L’albero una volta virgulto, ora mi guarda dall’alto del suo tronco contorto. Ha vissuto i miei passi, continui, lungo questa strada. Abbiamo visto i tramonti, i caldi dal fosso, i miraggi sulla strada d’estate. Ha visto le mie figlie che tenevo per mano. L’albero è felice, mi saluta come un amico. Lo guardo con distratta riconoscenza. Mi ricorda chi sono stato, nascosto in uno dei suoi anelli. Seguo ancora il tramonto. E’ scomparsa la grande Palma che rinfrescava le nostre serate al giardino, dopo il mare. L’uomo non è un albero. Come un giardino arabo, di racconti, la Palma si stende a proteggere la statua di bronzo che guarda il passante. E’ triste ora il passaggio, senza la grande palma. Passo senza guardare. I compagni in fila, sipari per la città senza bellezza, maschere contro la mediocre visuale di cemento senza forma, cadono perché l’uomo non è un albero. Non ha mai provato ad essere un albero. Un albero morente, non avrà più un nuovo se stesso, per vivere questa vita insieme, per raccontare chi siamo, e quando saremo, chi siamo stati prima.
Gianluca

Sul concetto di pulizia



La camera a gas è disinfettante.

Il forno crematorio è igienico.

Il macete è rassicurante.

La mitraglia guarisce.

La bomba atomica sterilizza a fondo.

La religione elimina il dolore.

Ovunque.

giovedì 29 gennaio 2009


Sono un vecchio Scapolo del paese. Cercherei, nei bar che sappiamo, una giovane adolescente da concupire, imbottendola di chiacchiere su avventure nelle quali giammai mi avventurai, per ignavia e cattivi vini bianchi solfitati. La palpeggerei nel retrobottega, prospettando sicuri legami con un maschio maturo. Sono il corruttore di giovani sognatrici, carenti di padri, in cerca di guide per vivere la vita. Lascerò cadaveri al mio passaggio, donne amareggiate e illuse, incapaci di conoscere il vero che passerà loro davanti bruciando. Correranno a cercarmi, disperate, in amore, dentro un altro bar, mentre mi abbrutisco sui semi di una macchina farlocca, sui seni della barista ucraina, posta all'uopo. Sono un maturo ortonese, fidatevi di me. Vi sveglierete tardi la domenica, col mal di testa, ed un vecchio dentro al letto.

mercoledì 28 gennaio 2009

La luce


La vedi la luce in fondo?

Suonano rotondi i passi

sotto la volta.


Ti tocco le mani la notte

le braccia intorno alla vita


La vedi la luce in fondo?


Ancora mio padre, mi chiama

tra le colonne

La vedi la luce in fondo?


Mi giro

Non vieni anche tu ?

Eppure la vedi la luce in fondo.

A sera, giravo per la curva ad Oriente.

Un mare avverso respingeva le chiglie

fredde d'acciaio e copertoni.

Pensavo ai vecchi, soliti d'estate

chini sul bastone, seduti ad asciugar

le schiene al vento teso

dalla torre
Ora nuvole ostili,
drappi stesi
lungo l'orizzonte tetro
mi spingono al riparo
e un'altra meta...

Quello che succederà


L'ho visto quello che succederà. Il nostro teatro darà i suoi frutti ai politici locali. Nuovi orizzonti si apriranno agli amici sfaccendati. Posti da occupare e nei quali occupare il tempo ad attaccare caccole sotto la scrivania di uffici pubblici, sottratti a più onorevoli iniziative di cittadini volenterosi. L'orda mediocre degli uomini acculturati solo grazie alle prefazioni dei "Nuovi temi svolti per l'esame di maturità", marzullerà le folle, grazie a pessimi manifesti di vacui eventi. Si cambia nome, si cambia la casacca, a forza di non voler dire quello che si voleva dire, si finisce per avere ragione sempre e comunque. La verità è che nessuno è all'altezza dei compiti assegnati. Questo non esiste nella barra opzioni. Negare sempre, mostrare limiti mai. Così, scialbi individui entrano in teatro con le pantofole, come fossero nell'antibagno di casa propria. Essi comandano, organizzano hanno "idee", anche se le hanno carpite agli altri. La non memoria collettiva sfumerà le loro nullità, storicizzerà la superficie delle loro creature. Così il mediocre, tra mezzo secolo, sarà "quello che fatto tanto per la nostra città", non sapendo che, in verità, mezzo secolo prima, non aveva fatto proprio niente, ma lo aveva fatto così bene...
Technorati Profile

martedì 27 gennaio 2009

Senza un Euro vai alla Neuro


Scoperto

mi allerti

di introiti incerti.

Presto il telefono suonava

era la banca che chiamava...

Maudits!

Dovrei rientrare

di alcuni euro...

La voce rauca del bancario

trasforma la mia tuta

in un sudario.

Avevo staccato un assegno

al fornitore

e lo richiamo lesto

con timore...

Postino con bollette

e lunghe buste

son RiBa dalle quote

assai robuste.

Basta!Basta!

Mi chiudo in ripostiglio.

"Papà, è cotta la pasta!"

grida un figlio...

Ancora su questa spiaggia





Eva guardava le onde, annusando attenta l'aria del mare, pungente. La guardavo e pensavo alla caccia, ad un bosco in autunno. Le mancava, avrebbe voluto e cercava nel vento gli odori di muschio e coniglio selvatico. Mi puntava con l'occhio triste, sperando nel gioco, in un sasso, un pezzetto di legno lanciato sulla riva. Speravo in un'altra domenica al sole ed al vento. Ora la trovo sotto quel nocciolo, per sempre, tra i boschi...

Una grigia riva come d'asfalto e fango

Altra voce

Fine della comunità reale.
Entità staccate, distanti,
no suoni, no voci, no odori.
Rete.
Cosa succede a questo paese? Dove siamo andati?
Cerchiamo le risposte nelle parole, servirebbero azioni.
Proviamo a raccontare quello che è stato in questi anni, così pieni,
cosi "degni di essere scordati".

Proviamo a ragionare oggi, su quello che potrà essere.
Ascoltando tutte le voci. Rispettando le opinioni.
Non sarà facile, non deve essere facile.
Ortona assiste, aspetta da troppo tempo, la nuova stagione.
Rimangono ancora, i colpi di proiettile sui muri,
a guardarli bene,
non sono così brutti...