Era tutti i mestieri. Antonino sarebbe piaciuto ad un architetto medievale. Un corpo ad uso di ogni ideatore di macchine ed opere. Amava il ritratto, le foto di amici, in prove di forza. Talvolta si faceva immortalare con tre uomini sulle spalle. Altre volte esibiva nervi e muscoli durante il lavoro, mettendo un palo di legno del telegrafo su una spalla, ed un altro sull’altra. Aveva la sgradevole ed irruenta vigoria del giovane affamato, che morde l’aria e beve fino al risibile deliquio. Si beffava dell’azzardo. Solo una cosa temeva: la morte, il suo pensiero, i suoi oggetti, il suo sopraggiungere. Perso nel suo limbo tra religione e superstizione, si allenava a scacciarne il disegno inevitabile, come un Sisifo in vista del suo masso da spingere. Fu per questo irrequieto vivere che si trovò a lavorare, adolescente, con un compassato falegname del Torrione. C’era scarsità di legno ed il falegname, si era offerto per la riesumazione di salme, al cimitero e per recuperare, legni ancora buoni, di bare. Antonino lo seguiva. Entrarono nella parte vecchia del cimitero. C’erano delle salme, nella cripta più vecchia, inumate da pochi anni. Avrebbero potuto trovare legno non troppo rovinato. La cripta era illuminata da lumini fiochi. Un forte odore di salnitro e fiori marci aggredì le sue narici, scendendo la scala di ferro che portava ai sotterranei. Quell’odore, svegliò la sua paura. Trovarono il primo loculo, indicato dal custode. Antonino non sentiva più i piedi. Era di spalle al falegname, che stava staccando la lapide dal muro. La tomba apparteneva ad una suora, morta di tisi, dieci anni prima. Fecero cadere il sottile velo di mattoni. La bara era intatta, coperta di polvere e di calce. Insieme al falegname tirarono giù la cassa. Antonino iniziava a sudare un sudore, freddo, reso ancora più freddo dalla malsana aria dell’ambiente. Il falegname, avvezzo e cinico, fischiettava, mentre iniziava a far leva sul coperchio, con il piede di porco. Arrivarono al coperchio di zinco. Antonino tremava, di nascosto, ma tremava fottutamente. Iniziò a far leva sul bordo del coperchio ben saldato. Il coperchio saltò, di colpo rovesciandosi sul pavimento, con il rumore di sottovuoto vetusto. Una zaffata muffosa investì i brividi di Antonino, che si era scansato dopo la caduta del coperchio, quando si affacciò sulla bara, il teschio non ancora del tutto scarnificato della suora, ricoperto dal velo dell’abito monacale, ebbe un sussulto. L’entrata dell’aria nella cassa, provocò lo scatto della mandibola del cadavere, che aprì la bocca in un urlò muto di morte meccanica. Antonino ebbe solo il tempo di mettere una mano sul passamano della scalinata, scappando a gambe levate da quell’antro. Gridava con il fiato della corsa. Riusciva solo a sentire l’eco della risata del falegname dal profondo della cripta. Alla morte pensava Antonino, soprattutto durante il suo grande capolavoro, la guerra, in fuga perenne dalla sirena, accompagnato dalla paura. Gli stringeva le caviglie quella paura, la fottuta paura di morire non si sa come. Come un topo, come uno scarafaggio, lasciato per terra pieno di schegge. Un soldato dall’esercito temporaneo, sanamente vigliacco, deciso a sopravvivere ad ogni costo. Ricordava ancora il terrore della sua infanzia, il terremoto di Avezzano. Un boato nella notte, si era svegliato, nella grande stanza dove dormiva con i fratelli e le sorelle. In quel momento capì che la sua paura sarebbe stata la sua salvezza. Riuscì a rifugiarsi nell’unico angolo della casa che sarebbe rimasto in piedi. Così, ogni notte, al rombo degli aerei, gli ritornava quel brivido dietro i reni, un brivido come un calcio, una spallata, che lo spostava verso un posto sicuro. Era il fetore attraente della paura che lo guidava verso vie d’uscita invisibili agli altri.Si trovava a Verona, con la truppa. C’erano delle caverne, poco fuori la città, dove, la notte, cittadini e soldati, si rifugiavano, durante i bombardamenti. Era disteso per la prima volta, sotto quegli archi di calcare e sabbia, ammassato con un’umanità fiatante e tremula. Si addormentò cinque minuti. Quella sera si era lasciato convincere dai commilitoni a stare insieme. La paura materializzò il suo sogno. Era una chiesa. Una di quelle che si trovano nelle rasate campagne inglesi. Lunghe nervature sorreggevano arditi archi e contrafforti. Entrò tra le navate, ma non camminava, era sospeso in aria. Passava sotto questi oscuri ornamenti gotici, filtrati da una polverosa luce, che proveniva da enormi vetrate istoriate. Era sorpreso dalla natura del materiale di cui era fatta la chiesa, non pietra ma legno. Un legno simile alle barche in rovina sulle spiagge, annerito dal marciume e dalla salsedine impietosa. Procedeva sospeso quando, dall’enorme navata centrale, si era staccato un crocifisso dal Cristo medievale, sofferente ed inumano, precipitandogli addosso. Si svegliò ci soprassalto. Non disse nulla. Tra il russare ed il lamentarsi di quell’antro, prese le sue cose e scappò nella campagna notturna. Era arrivato sotto dei filari bassi di vigna, quando il rombo arrivò. Si rannicchiò per terra, tappandosi le orecchie, per tutto il tempo del bombardamento. Quando si rialzò, dal luogo della sua fuga, proveniva un fumo denso e continuo. Ritornò ,verso il suo rifugio. Le caverne era state bombardate. Dai resti sabbiosi, si alzavano flebili lamenti, strozzati dal fumo acre di carne bruciata. Svenne, dopo aver accennato un sorriso. Antonino comprese presto, che doveva scappare, ogni volta il suo naso avesse fiutato l’odore acre della morte. Non lo capì subito, quando, per una strana sorte, di quelle degli antieroi, la sua domanda di partire volontario, in Africa, non venne accettata. La considerava un’onta anche se il suo battaglione era arrivato in Sicilia,in attesa degli alleati. Lì, certamente, avrebbe potuto fare il suo dovere, combattendo per la patria fascista. Fu lì che incontro la morte ed il suo acre odore. Era come l’odore del primo sesso, pungente, forte, stordente, ingenuo. L’esercito sbandò subito. Quei fucili, dapprima lucidi, oliati, poco usati in quella guerra, da imberbi contadini e manovali, diventavano ologrammi di armi nelle loro mani, ogni volta che un rombo nemico ronzava sulle teste di quei ragazzi. Pianse Antonino, la prima volta che dovette girare la manovella della sirena meccanica, per avvisare, l’arrivo del primo bombardamento. L’urlo crescente, aumentava con la velocità del suo braccio e camuffava il primo lamento di paura di quel giovane spaurito. Nel gesto della mano, la rabbia del capire. Ad ogni giro una confessione a se stessi: di avere una paura fottuta. Cadeva la faccia finta di Antonino, contro le immagini indolore, della Domenica del Corriere, dove eroici soldati perdevano sangue d’inchiostro. Giurò alla sua paura, di volerla accontentare. Iniziò le prime assenze, in un esercito senza più disertori. Immaginava che gli alleati, conoscessero le posizioni del nemico e non voleva farsi trovare, dalle bombe degli aerei. Per questo, la sera, all’appello prima del riposo, Antonino non c’era mai. Ricompariva la mattina dopo, occhi cisposi di sonno, qualche filo di paglia sulla divisa, buttatosi in chissà quale fienile, assieme alle bestie. Il Capitano, non badava. Assediato dalla popolazione, stufa del vecchio padrone, di qualsiasi padrone, come potevano esserlo i Siciliani, non badava più a nulla, se non alle bombe che continuavano a cadere tra le macerie arabo normanne. Dopo anni, sentì ritornargli quel groppo di terrore alla gola, di nuovo, come una malattia inattesa: era la fifa. Avevano comprato tutto il paese. Erano arrivati la mattina, con due camioncini, di quelli ricomprati alle aste dell’esercito. Un’armata silenziosa di individui baffuti, dalle coppole sugli occhi e la lupara sulla spalla. Non c’era stato bisogno di convincere i paesani. Bastavano i cenni. Poi era arrivata l’auto del mammasantissima. Aveva radunato i capifamiglia in comune, davanti ad un sindaco tremolante e sudaticcio. Tutti avevano ricevuti i loro soldi, in cambio delle loro case, degli orti e della masserie. Nei giorni, successivi, c’era stato il trasferimento degli abitanti, chi nel paese vicino, chi al nord, chi in America. Fu il mese dopo che in paese, arrivarono acqua, luce e telefono. Aveva studiato bene, a Roma, il commendator Garau, quando gli si presentò davanti Antonino. Era stato appena inviato in quel paese B., dove tutto era in mano dei mafiosi. - Qui, lavoro, per i borghesi, non ce n’e- Gli aveva detto un picciotto, che ora risiedeva, nell’unico ufficio postale. Antonino, era arrivato con l’incarico del Ministero, di attivare la linea del telegrafo. - Se vuoi sapere qualcosa, devi andare dal commendator Garau- gli aveva detto il tipo. Antonino e la sua paura, avevano realizzato che non c’era posto e quindi era corso a Reggio per sapere se poteva andarsene al più presto, da quella terra infestata da fichi d’India e mafiosi. Entrò al cospetto di un funzionario, grassoccio, con i cappelli impomatati e il doppio mento, stretto sopra una cravatta, piccola e unta. -Commendatore, tengo famiglia e io a B. non ci sto, neanche se mi sparate!- Aveva detto Antonino. Il Commendatore, uomo d’onore, aveva fatto un breve cenno con il capo, al ragioniere, che gli sedeva in una piccola scrivania a fianco. Questi per tutta risposta, aveva battuto una lettera, leggendola ad alta voce, dove si consentiva al guardiafili Antonino P. di avere residenza a Roccella, pur lavorando lungo la linea ionica. Antonino uscì ringraziando e tirò il fiato, asciugandosi la fronte con il fazzoletto. Ma il giorno seguente non ebbe paura. Si svegliò nella baracca già calda, vicino agli scogli di quella mattina calabra. Antonino aveva ancora il sudore notturno, come un velo freddo sulla pelle. Si tirò indietro i capelli, due dita per aggiustare i baffi. C’era un po' di caffè freddo di cicoria, nel pentolino sulla stufa, lo ingoio come una medicina necessaria. La portà si spalancò sul taglio di mare illuminato, davanti alla baracca. Osvalda, ancora addormentata, si girò infastidita dalla luce violenta. Quella notte ,Antonino l’aveva sentita lamentarsi. Il tempo era finito,avrebbe potuto partorire da un giorno all’altro. In quell’istante, Antonino, pensò a l’Aquila. Il bambino avrebbe dovuto nascere al paese suo, ma il Ministero lo aveva mandato in Calabria, per la nuova linea del telegrafo. Il pensiero si lavò con il primo tuffo. Non era difficile procurarsi il pranzo. Antonino aveva lasciato qualche nassa e la notte era stata di quelle buone per le aragoste. Mangiare aragoste con le scarpe bucate. Per Antonino valevano come quei gamberi, pescati nel torrente, a Pile. Pile. Sembravano dei giorni persi, quei giorni, ora che Antonino risaliva gli scogli, sotto i suoi piedi nudi. Le aragoste, aggredite dall’acqua bollente, si contorcevano nella pentola. Ma Antonino non avrebbe pranzato quel giorno. Un grido lo fece girare di scatto verso il letto, dove Osvalda iniziava ad avere le doglie. Le acque si erano rotte velocemente e scorrevano a bagnare la stuoia. Era il torrente di Pile. Antonino si aspettava di veder uscire i suoi gamberi. Mise la mano sotto la veste della moglie, voleva tappare quella falla. Non c’era tempo per chiamare la mammina. Osvalda era l’aragosta nell’acqua bollente. Le Aragoste si arricciavano nella pentola, diventavano rosse, sulla stufa, nella baracca di Osvalda che si arricciava sulla stuoia... Si trovò quella bambina nelle mani. Era il suo gambero, uscito dal torrente.
..Preferivo il "Nero" da leggere a rischio dell'ipermetropia vascolare..Cotanto "Bianco" nitido e chiaro, spiazza le interiora del mio crasso organismo..sarà un mio problema, ma la Veste è l'Arte di quanti hanno la Capacità di Vestire; la maschera la si indossa all'occorenza. Tu, di questa occorrenza, puoi farne sicuramente a meno. Il Carnevale della vita lasciamolo a quelli che, di Maschere ne hanno di che Produrre.....Best Regards. paolo
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