venerdì 29 novembre 2013

L'ultimo bicchiere



L’uomo tirò fuori dalla sacca sgualcita, un cartoccio dalla forma allungata. Il terrazzo che si affacciava sulla grande piazza era illuminato dal sole filtrato dalle nubi grigie dei palazzi in fiamme. Una nebbia giallastra sul lastrico sottostante, avvolgeva le carcasse delle auto e le carlinghe degli aerei anneriti dalle esplosioni. – Ti aspettavo- disse al suo ospite – E’ la nostra ultima occasione per stare insieme-. Preparò il tavolino ottenuto da una portiera di una utilitaria. Sulla catasta di legna ardente, stava un pentolone malconcio. Il liquido nella tanica bolliva , lasciando trasparire tranci di carne, il cui odore copriva a sprazzi le mefitiche esalazioni dei fuochi sottostanti. L’uomo si alzò per andare a girare , con amorevole attenzione il bollente intingolo. Mancava solo un’ora e tutto sarebbe finito, per tutti. Ma l’uomo aveva calcolato i tempi di cottura. Il suo ospite di spalle non si muoveva, come aspettasse solo il momento di mangiare. Da lontano si udivano le esplosioni ed il cielo era tagliato dagli aerei che precipitavano al suolo con schianti fragorosi. I due esseri guardavano quello che accadeva con indifferenza sorprendente, tornando subito a porre la loro attenzione sulla pentola che bolliva. Da una radiolina giungevano le voci dei cronisti i quali descrivevano le scene apocalittiche con voci congestionate dalla disperazione, per coloro che erano rimasti. No, non c’era più nessuno. I pochi superstiti, girovagano tra le macerie di quelle che erano state fino a poco tempo prima le loro città.  Nel cielo le astronavi stavano abbattendo i pochi aerei rimasti. Tra qualche ora tutto sul pianeta terra sarebbe cambiato. L’uomo, ultimo superstite della sua razza, aveva di fronte il primo essere che avrebbe sostituito i terrestri, ma sembrava non preoccuparsi della sua sorte. Tenendo stretto il suo cartoccio, continuava a girare il sugo. –Vedi- disse  – era l’ultima lepre che correva libera nel prato vicino la mia vigna. Avevo un solo colpo nel fucile. Ho preferito usarlo per lei piuttosto che per uno di voi, altrimenti non mi avreste mai preso-. L’ospite emise un grugnito metallico. – Ma questo ti farà peggio della mia pallottola – lo interruppe l’uomo. L’ospite si irrigidì: dai monti all’orizzonte, il grosso fungo si alzò nel cielo, lento, enorme. – Abbiamo mezz’ora prima che le radiazioni arrivino fino qui, passami il piatto- L’ospite tese una mano artigliata. L’uomo iniziò a posare i pezzi di carne ancora fumanti, bagnandoli con il sugo. – stai attento perché scotta- avvertì il suo ospite. Poi con un gesto ieratico, scoprì quello che il cartoccio nascondeva: una bottiglia di vetro verdastro. – Porgimi il tuo bicchiere- disse. Il gorgoglio, del liquido violaceo, sembrò per un attimo zittire le esplosioni lontane. L’ospite fissò il bicchiere, i cui riflessi erano esaltati dai lampi dell’artiglieria extraterrestre. – Qui su la terra usavamo brindare con questo liquido, alla nostra vita … Ora brinderemo anche a voi, nuovi padroni della terra! L’uomo ,dopo aver fatto roteare il bicchiere sotto il suo naso, chiuse gli occhi, quindi sorseggiò lentamente. L’ospite dopo aver assistito alla scena, fece la stessa cosa. Mentre l’extraterrestre beveva, l’uomo lo osservava. – Che ne dici? – disse. L’ospite emise un verso che non aveva bisogno di traduzioni. Ormai la grande radiazione era vicina e la bottiglia era finita. - Ti ho voluto fare questo dono per farti capire cosa è stato capace di creare l’essere umano: il vino. – Disse l’uomo. L’ospite rise. – Ma c’è un particolare –. Quella che avete distrutto, quando mi avete catturato, era l’ultima vigna esistente sul pianeta terra è questa era l’ultima bottiglia. L’ospite emise un ruggito rabbioso. – Avete perso, anche se occuperete il pianeta terra e l’uomo non ci sarà più. Avete perso ed io ora vi ho fatto comprendere cosa avete per…- La grande radiazione coprì la sua voce.

martedì 27 agosto 2013

Il Cinghiale



Quella fu la prima volta che lo vide.
Gironzolava sotto la Font a balle, come può fare un ragazzino troppo piccolo per fare il contadino e troppo grande per stare davanti casa. La discesa non era ancora coperta dai canneti e dalle acacie. Ai lati della discesa, fossi scavati dalle bombe di mortaio, pietre, pezzi di ferro e quella specie di pigna che attrasse la sua attenzione. Giggino la prese in mano. Era una pigna di ferro con un anello in cima. Giggino ne aveva viste tante. Tirò con forza l’anello. Fu allora che lo sentì arrivare. Era un’onda, una folata di vento tra le foglie, un ansimare di bestia, un ringhio feroce, un tuonare di zoccoli. Le urla si sentirono fino alla piazza, tra le macerie delle case di San Leonardo, nella navata della chiesa sventrata dalle bombe. A sera il Dott. Gaeta riuscì a salvargli solo un occhio. La mamma guardava Giggino sconsolata. Dall’unico occhio rimasto, di un azzurro intenso, nascosto a malapena dai lunghissimi capelli ricci, spuntavano lacrime di dolore copiose. Fu così che Giggino rimase con quell’orbita vuota. Non avevano i soldi, nel dopoguerra, per ricostruirsi la casa, a San Leonardo, figuriamoci per comprare un occhio di vetro a Giggino. Ma Giggino la notte, lo sentiva passare quel cinghiale sotto casa, lo sentiva passare il giorno, quando giocava con gli altri bambini ed inciampava, perché non metteva bene a fuoco gli ostacoli. Non ne poteva più Giggino di quella bestia e si ripromise, quando fosse stato possibile, di cambiare vita, di scappare in Germania. Gli italiani andavano per la maggiore, in Germania. Erano lavoratori indefessi e si abituavano a vivere come bestie, sopportando silenziosamente il disprezzo dei tedeschi, che ancora li ritenevano dei traditori e dei voltagabbana. Trovò subito lavoro nelle acciaierie di Dusseldorf, Giggino. Pur di riuscire a comprarsi un occhio di vetro faceva due turni consecutivi da otto ore. I compagni di lavori lo consideravano una bestia. Dalla visiera del casco spuntava, accanto ad una benda nera sull’occhio, l’altro occhio come un fanale carico di rabbia. Pochi si avvicinano a Giggino e lui li ricambiava con la stessa moneta. Ma, a sera, nella sua baracca, seduto sulla branda, tirava fuori da sotto il cuscino una vecchia foto di San Leonardo, una foto scattata in un campo sulla strada per Villa Torre, dentro l’oliveto secolare di Tommaso. Anche Tommaso era emigrato, in Canada e gli aveva lasciato l’orto e l’uliveto da accudire. Giggino lo aveva fatto fino a pochi giorni prima di partire per la Germania. Giggino lavorava ormai ininterrottamente da due anni nella fonderia, per due turni al giorno, senza fare un giorno di vacanza. Fu proprio la mattina della viglia di Natale che lo vide di nuovo. Durante la fase della colata, lui e suoi compagni si apprestavano a far saltare i residui liquidi di acciaio che ostruivano la bocca dell’altoforno quando, una bolla di gas trasformò la colata in un’esplosione. Giggino udì altissimo il rantolo della bestia ed i suoi zoccoli sulla schiena. Fece appena in tempo a saltare lontano. Il getto incandescente travolse i suoi tre compagni, carbonizzandoli. Erano italiani e la tragedia non scosse più di tanto i superiori né fece interrompere la produzione. Ma Giggino si svegliò da quella trance fatta di lavorò massacrante, calore e fumo. Il giorno dopo prese la valigia e scappò in Belgio. “Vedrai, si sta bene nelle miniere” gli diceva l’amico Peppone, che ormai ci lavorava da qualche anno. Giggino fu spedito dopo qualche giorno, a trecento metri di profondità. Mentre l’ascensore veniva inghiottito dalla terra, iniziò a sentire, flebile, il sottile respiro della bestia. Non poteva essere, anche lì, lontano centinaia di km da casa, il cinghiale lo aveva trovato. Si tappò le orecchie per non sentire. Alla fioca luce della lampade dei caschi, gli operai vennero indirizzato nei culi, all’interno dei quali doveva estrarre il carbone, allungati con un piccolo trapano pneumatico in mano. Lì sotto, allungato, con centinaia di metri sopra la testa, respirando carbone e aria malata, lo sentì, il morso della bestia. Il cinghiale gli aveva afferrato le caviglie e le dilaniava. Giggino fu preso dal panico, ma così allungato, con la schiena puntata contro la roccia, poteva solo urlare di disperazione. Svenne. Si risvegliò e decise che quello non era posto per lui. Era tempo di tornare a casa, a San Leonardo.  Con i soldi racimolati, riuscì finalmente a comprare un occhio di vetro. In Abruzzo qualcosa stava cambiando. Iniziavano a sorgere le prime industrie  Giggino trovò lavoro in una fabbrica di vernici. Si facevano gli scherzi tra di loro, rendendo più leggero quel lavoro velenoso, senza maschere di protezione, senza occhiali, senza guanti. Ficcavano sotto il naso, ai malcapitati, stracci imbevuti di ammoniaca pura, senza prevedere quello che sarebbe accaduto in seguito. Lo capiva ora,  Giggino, quando si svegliava la mattina e si toglieva la maschera dell’ossigeno, quando sentiva mancare il fiato, per fare due scale, quando sveniva anche solo per stare seduto sulla tazza del cesso. Era lui ora, ad avere il rantolo della bestia, quella bestia che aveva creduto di scorgere poche volte, ma la cui presenza, avevo sentito tutta la vita. Era vecchio ormai Giggino e passava le sue giornate tra la piazzetta di San Leonardo, con gli amici e il piccolo pezzo di terra da curare, sotto alla Font’a balle. Il viso segnato dalle rughe di un respiro ormai strozzato in gola, a cercare aria in quei polmoni colabrodo. Su tutte una ruga come un nervo riottoso, gli tendeva la palpebra sotto quell’occhio di vetro, tenendolo ancora più fisso, inquietante, mentre il resto del volto si muoveva in altre direzioni. Fu così che guardò per l’ultima volta Mariano, mentre scendeva a prendere l’acqua alla fonte, con il suo trattore. Ma lì, da una siepe, Giggino non vide arrivare la bestia dalla parte dell’occhio finto e quando gli fu davanti, all’improvviso lo aggredì con la furia di un demonio che non esiste. Sbandò Giggino, cadde dal trattore ed il trattore, come un grosso cinghiale abbattuto, gli si rovesciò addosso.

sabato 16 marzo 2013

La paletta del destino

Lungo la schiena scorre lenta la goccia di sudore. L'abbiamo scampata. Adesso il piede è più pesante sull'accelleratore, ma l'ultimo chilometro è stato interminabile. Certo, andare in Facoltà con la macchina che ti ha prestato mamma dovrebbe rappresentare un'ottima alternativa all'autobus dell'Arpa, reso simile, a causa dei semafori francavillesi, ad una carovana andina con tanto di pollame sul portapacchi. Senza togliere la possibilità di farsi quei trenta km con gli Slayer a palla. Nel 1990 sono al massimo della forma, nelle vesti di metallaro truzzo e cotonato. Vado a comprare le mie scarpe da basket da Challenge che, a quei tempi, era un piccolo negozietto alle porte di Pescara. Arrivo con la mia copia di Metal Shock e chiedo alla proprietaria se ha le scarpe come quelle di Hetfield in copertina o come quelle di Steve Harris. Sono un bel grezzone. Il capello è ancora folto e mi permette qualche pettinatura hard con tanto di bigodini. L'aspetto generale è quello di un ventenne tipica preda degli spacciatori ed ambìto per la pratica della perquisizione anale da parte delle forze dell'Ordine. La macchina di mammà è una A112 elite, che sgomma anche in seconda, con due adesivoni degli Slayer e dei Gun'n'Roses, sullo sportellone posteriore. La dotazione amp è composta da una autoradio Bandrige più piccola del vano radio, la quale rimane attaccata ad esso solo per i cavi. La Radio, acquistata da tale Rosvelto (così battezzato in onore del Presidente americano), per la modica cifra di lire venticinquemila, riproduce solo audiocassette. Così, esco di casa quel pomeriggio, per andare a prendere il mio compagno di studi, Cristian. Cristian ed io ci siamo conosciuti in facoltà e condividiamo qualche lezione. Cristian è tutto il mio opposto: sempre vestito in modo adeguato, lavora già per qualche cooperativa di servizi e si sa muovere molto bene nell'ambito politico. Spesso ci troviamo a discutere per le differenze di vedute ma ,tutto sommato, siamo complementari. vado a prendere Cristian e, nell'impeto della sboronaggine, giro in Piazza Plebiscito, presso la fermata del bus, per vedere se possiamo caricare qualcun altro. Alla fermata dell'autobus troviamo Nico L., nostro amico comune. Nico è un palestrato col capello più lungo del mio ed un vistoso orecchino. Porta uno di quegli orribili spolverini tipo Raf anni 80 ma , considerando i crimini della società negli anni seguenti (vedi le versioni sado maso di Irene Pivetti) è un orrore sopportabile. La macchina, così assortita, potrebbe già costituire di per sè, oggetto di studi da parte di volanti della polizia e finanzieri travestiti da tossici. Una A112 con due capelloni ed un pseudo boss stile Al Capone, ha poche motivazioni per viaggiare lungo la costa: trasporto di carico fresco erbe ed affini, riscossione pizzo macellerie e pizzicagnoli, spedizione punitiva zingari ad importunatori sorelle. Niente di tutto questo. Tre ignari cazzoni che non hanno nulla da nascondere. Ma il destino è treccartista. Subito dopo avera caricato Nico ed ingranata la marcia, un omaccione corpulento si pianta contro il cofano anteriore dell'auto, costringendomi ad una frenata che manco Raikkonen. Trattasi di tal A. Mistror., noto tossicodipendente ortonese, a quei tempi benvoluto da tutte le questure del chietino, famigerato per il suo famelico appetito. Ero stato testimone, qualche anno prima, di una serata presso una tristissima festa dell'Unità, nella quale, piantatosi presso lo stand nel quale lavoravo, aveva ingurgitato centoventi arrosticini e cinque litri di birra. A. M. si fa un sacco di pere ed è la punta di diamante degli strafattoni ortonesi. Ora me lo trovo a sbarrarmi la strada. La A112 emette un rantolo come volesse dire: "Ejacrist!". Senza preamboli A.M. mi dice di abbassare il finestrino e mi apostrofa con parole che sembrano più una minaccia che una supplica: "Uagliù, dovete portarmi a Pescara!". Guardo velocemente nello specchietto retrovisore: il volto di Cristian ha lo stesso colore del suo cappotto grigio ed il cranio si è visibilmente rimpicciolito tanto che il cespo dei suoi riccioli sembra grande come il suo barboncino Popi. Non percepisco più la temperatura di Nico, seduto al mio fianco, sento solo il raschiare del suo pomo d'Adamo sulla gola, come a voler disperatamente cercare l'ultima goccia di saliva. meccanicamente, come un condannato a morte si alza, si mette dietro e lascia sedere il tossicone. Così inizia il nostro viaggio verso l'ignoto, insieme a Caronte che, a differenza di quello di Dante, lascia a me la guida verso l'Averno. Nella macchina non vola una mosca, posso percepire soltanto il respiro pesante dei miei due compagni di sventure,seduti dietro. C'è un sole nitido e lucente, ma scende il buio sui miei occhi, il buio quando vedo,ungo il rettilineo del Riccio, un posto di blocco dei caramba, con tanto di brigadiere in stivaloni mitraglia e paletta , sul ciglio della strada. Sudo come un Cristo prima che lo inchiodino. Percepisco uno strano nervosismo da parte di questo obeso Lou Reed. Si è accorto dell pattuglia ed inizia a mettersi le mani sulla faccia, tentando di aggiustarsi sul sedile, quasi volesse farsi più alto per nascondere la faccia sul bordo superiore della carrozzeria. Di colpo abbassa il parasole. E' certo. A.M. ha qualcosa da nascondere. Due le opzioni: ho non può andare a Pescara per qualche ragione legale o deve andare a Pescara perchè deve vendere qualcosa. Ma le porte dell'inferno non sono abbastanza larghe, perchè si aprono sotto di noi, nonostante si tenti di rimanere attaccati alle maniglie della mia A112. Così, ad appena duecento metri dal caramba palettato, A.M. visibilmente bianco in volto, si gira verso di noi e con voce simile a quelle di un dottore che vi diagnostica il tumore, ci dice: "Uagliù, se ci fermano, è finita." Anche il rombo del motore è muto, le mie orecchie sono ovattate. Guardo per inerzia lo specchietto retro e scorgo lo sguardo vitreo e perso nel vuoto dei miei fratelli di sventura, che leggono gli ultimi istanti della loro vita per bene sul ciglio della strada. Arrivo a cinque metri dalla pattuglia. Guardo una sola cosa: la paletta rossa stretta nelle mani del carabiniere, pronta ad alzarsi con gesto meccanico. Ma questo non avviene. Probabilmente qualcuno scoreggia in macchina, perchè la tensione degli orifizi si allenta di colpo. Il resto del viaggio, non lo ricordo. So solamente questo: da quel giorno, quando vedo uno strafattone sul bordo della strada, cerco di finirlo, sterzando di colpo.

domenica 17 febbraio 2013

I'm out of touch


Domenica di febbraio. C'è qualcosa che attrae in modo irresistibile verso il mare. E' come se le mura di casa, l'orizzonte chiuso ti soffocassero; devi assolutamente cercare un luogo aperto alla visuale, per poter respirare. Se non vado in bici per i miei soliti allenamenti, vado al mare. Il cane mi guarda, è pronto per entrare nel furgone, lo sa che andremo in spiaggia.
 E' strano notare la stessa ansia in lui, la stessa voglia di fare quattro passi sulla riva, la mattina presto. Non c'è nessuno. La spiaggia è ancora "fuori uso", ad aprile ci saranno i primi preparativi per la nuova stagione. Metto in cuffia un pò di musica e passeggio guardando i primi chiarori. Questa mattina è stato diverso. Mentre ero assorto nei miei pensieri, nel succedersi dei brani in sequenza non ordinata, mi è capitato un pezzo particolare, che mi ha fatto ritornare con la mente ad un determinato periodo, un pezzo di Dayl Hall & John Oates: "Out of touch".

 Di colpo mi sono trovato nella camera di questo mio amico quasi ventinove anni fa. Non ero solo, con me c'erano Marco, Andrea, Antonio, Eugenio. Era un momento particolare della nostra adolescenza. Vivevamo quel passaggio che precede le scelte per la vita che dovevamo vivere, dagli studi, al militare, alla possibilità di imbarcarsi, al continuare le attività di famiglia. Nella stanza c'era un Commodore 64, con il quale giocavamo a "Ghostbusters". La grafica era terribile, ma per noi era come vivere nell'era spaziale. Era il periodo dell'Impavida pallavolo in serie A1 e delle grandi seghe sulle ragazze del paese che ci piacevano. Febbraio era anche il periodo che precedeva le gite lunghe della scuola. A tale proposito si formulavano progetti astrusi sul comportamento da adottare durante il viaggio d'istruzione. Ci dividevamo in chi aveva il motorino e chi no. Io ero posto in una via di mezzo. Avevo restaurato una Graziella, verniciandola di nero e customizzandola con il mio nome "anglofonizzato": Jan Lucky. Ci andavo a scuola e qualche volta al mare. Era bruttissima, tanto che, una volta, la lasciai per il corso e ritornai a casa a piedi, scordandomi di lei. Me ne accorsi la mattina dopo e una volta arrivato sul posto, col timore che l'avessero rubata, la trovai appoggiata sui bidoni dell'immondizia. A quei tempi ascoltavamo di tutto: io ero quello della compagnia, dai gusti più estremi., Eugenio era il raffinato, Marco amante della musica italiana. Avevo comprato un bootleg rarissimo degli X, si chiamava "Angry young lovin'", lo avevo passato su cassetta e lo avevo mischiato ad altre cose che non c'entravano niente tipo "Pyromania" dei Def Leppard e "Waiting for the sun" dei Doors. Eugenio era in pieno trip post Police e ci sfiatava con il primo di Sting. Chi ascoltava Sting, Sade, Lloyd Cole & The Commotions era giusto, chi come me ascoltava Accept, Ozzy Osbourne e Joy Division era un truzzone.


Proporre ad Eugenio sul suo megastereo Kyocera un lp heavy metal, era impossibile. Tuttavia adottai la tecnica dell'adattamento al nemico per potermi infiltrare nella sua retroguardaia. Lasciai i miei lp a casa sua, chiedendo di passarmeli su musicassetta e di registrarmi qualcosa della sua discografia. La strategia fu vittoriosa ed in poco tempo le barriere musicali fra noi si sgretolarono. Un altro pezzo che mi è tornato in mente è "New year's day" degli U2, uno dei pezzi più belli della musica rock. Mi ricordo che vidi un live da Red Rocks su Rai tre, ma questo risale al 1983 circa. Li conobbi così e per delle vecchie recensioni su "Mucchio Selvaggio".  Altre meraviglie del periodo che ho riportato alla memoria sono il Farewell Concert degli Who da Toronto e le dirette live dalla Germania di concerti heavy metal. Sempre a Febbraio la Rai tre trasmetteva esibizioni dei Judas Priest, dei Def Leppard, di Michael Schenker, degli Iron Maiden. Quello che mi colpiva di quel periodo è come già amassi trascorrere pomeriggi ancora freddi, passeggiando lungo le banchine o sulla spiaggia. Già andavo in cerca di qualcosa, non cosa, forse l'urgenza di veder cosa mi avrebbe riservato il futuro. Il ricordo che mi riempie di commozione è quello della "Roulette russa con le onde". A volte con il mare in tempesta, le onde erano talmente alte da scavalcare il muro di protezione del molo nord. Si trattava di correre rasente al muro con la speranza di non venire beccati dall'ondata. Spesso tornavamo a casa bagnati fradici anche a dicembre. Questo mi è tornato in mente stamattina, ricordi e basta, senza nostalgia per quel periodo, perchè la nostalgia ed il rimpianto portano alla tomba. Se dovessi passare i miei quarant'anni a ricordare i miei venti, cosa farò a sessant'anni? Ricorderò di quando avevo quarant'anni e passavo il tempo a ricordare i miei venti?

domenica 20 gennaio 2013

Appunti per il Capodanno definitivo



Niente da fare. R. getta disperato la fronte sul volante. L’ennesimo tentativo. Il furgone non parte. Nel silenzio della notte, solo il rantolo di un motore imballato viene restituito dai ripidi versanti di roccia della gola nella quale siamo chiusi da ore. Sinceramente, non ci aspettavamo un epilogo così tragico di queste due giornate, ma il peggio è accaduto. Mi giro, verso la vecchia Ford, nella quale mia moglie e W. Si battono le braccia sul petto per darsi un po’ di calore. Fuori ci sono tredici gradi sotto zero. “Li muorte di’Criste!” Bestemmia R., mentre la sua voce si perde lungo la pietra. Non parte, non parte, il diesel è ghiacciato. Inutile tentare ancora. Non passa nessuno. Non passerà nessuno. Non può passare nessuno alle 4 di mattina del 1° Gennaio 2000. Non passerà nessuno nel primo giorno del primo anno del terzo millennio Dopo Cristo. “Mannaggiasanda!”. Se ora ci vedesse un satellite dall’alto di questo cielo, terso, senza una nube, trasmetterebbe lo svolgersi di questa tragicommedia che neanche i fratelli Cohen, neanche i Monthy Piton, neanche Villaggio… E pensare che tutto era iniziato nel migliore dei modi.
Riusciamo ad ottenere la possibilità di suonare durante le celebrazioni del capodanno. Di solito il musicista non definisce la sua carriera solo in base al successo che viene decretato dal pubblico, ma anche dagli eventi base ai quali è tenuto a partecipare, per avere il titolo di “uno che ha fatto la gavetta”. Così io il Deg e Di Tokio, riusciamo a passare i tanti esami dell’artista acciaccatutto, grazie alle esibizioni live nei più disparati contesti: si va dalla Festa della Lega Navale, al matrimonio con rito civile, alle feste di partiti della prima e seconda Repubblica fino all’intervallo musicale tra uno spettacolo porno fist fucking e l’altro, con tanto di mixer montato vicino al tavolino con falli in gomma di varie misure. Leggende metropolitani si vanno così, ad accumulare nel sottoscala dei nostri ricordi. Tra i must del gavettaro c’è indubbiamente il “suonare a Capodanno”. Per l’occasione si assemblano formazioni musicali variamente assortite. Nella band di solito, al musicista di professione si affiancano strimpellatori per necessità e vecchi amici messi lì a fare presenza, con il volume dello strumento rigorosamente a zero. Arriva così il gran giorno. Il nostro Manager Alessandro ci segnala per la serata di capodanno 99/2000 presso un noto locale a Scanno, dove si terrà una megafesta di fine anno e dove non ci sono particolari esigenze danzerecce. Stiliamo quindi un repertorio misto tra successi pop del periodo e sempreverdi brani rock.  Per arrivare a Scanno, si prende l’A24 e si esce a Cocullo ( nota per la processione dei serpari). Si passa quindi per Anversa degli Abruzzi e, attraverso le inquietanti Gole del Sagittario, si arriva a Scanno. Avendo un po’ di parenti ad Anversa, riesco ad ottenere da parte di un cugino di mammà, l’utilizzo di un paio di stanze che potranno essere utili per riposare, quando torneremo dalla serata e per non fare tutta una tirata fino ad Ortona. Partiamo il pomeriggio. Deg si fa prestare il furgone dallo zio che ha un’attività sotto il porto.  Deg fa il pieno presso il distributore sulla banchina, lo stesso dove i pescherecci si riforniscono per le loro battute si pesca. Errore fatale. Dopo aver caricato gli strumento partiamo alla volta di Anversa. Arrivati, giretto per il paese, incontro con il lontano cugino, accesso all’abitazione, accensione riscaldamento, rilascio chiavi, saluti e baci. Partenza alla volta di Scanno. Le gole del Sagittario sono uno stretto budello scavato nella roccia, nel quale si snoda una piccola strada asfaltata carrabile quasi come quelle andine.  Passando sotto la diga del lago arriviamo a destinazione presso il locale dell’Evento. La sera è limpida ma già fredda e questo potrebbe destare non poca preoccupazione se non fossimo affaccendati con l’attrezzatura. Dopo il cenone si attacca. Della serata, dal punto di vista musicale, non ho un gran ricordo. Forse una versione di “Back in Black” abbastanza squallida ed un “Flaca” ripetuta almeno 3 o 4 volte. Già dal primo pit stop, la temperatura si aggira intorno ai cinque gradi sotto zero. Dopo il tanto temuto passaggio del millennio, così carico di profezie nefaste che manco Umberto Eco, suoniamo fino alle tre. Pagamento cachet, saluti, baci e partenza alla volta di Anversa dove, una casa ben riscaldata, ci aspetta per farci godere un meritato riposo. Io e la mia signora andiamo avanti mentre il DEg e W. Ci seguono con il furgone a due tre minuti di distanza. Di Tokio invece, è partito prima con la sua vecchia Peugeot a recuperare la sua consorte russa, in un locale della costa dove si esibisce. Costeggio lentamente il lago. Il cielo è terso, la strada è ghiacciata, ci sono tredici gradi sottozero. La notte è assolutamente silenziosa. Al di fuori del rumore della nostra auto. Sul lato della carreggiata ci sono due auto ferme, in panne. Non possiamo aiutarli, anzi, quasi ci viene da ridere. Non sappiamo cosa ci aspetta. Mentre scendiamo oltre la diga, uno squillo al cellulare. Il Deg. “Giallù, il furgone non cammina! Pare che vada a tre cilindri!” Spinto fino ad adesso da una leggera discesa, il Ducato ci è stato dietro anche se distante. Ora è fermo al lato della strada ed a nulla valgono i tentativi di rianimarlo. Intanto la temperatura nell’abitacolo scende. Dopo un’ora siamo qui, in quattro, al centro d’Italia, che poi per gli italiani sarebbe il centro del mondo, al freddo, nella notte tra un millennio e l’altro, alle quattro del mattino, senza un’anima, con la possibilità che qualche branco di lupi del vicino Parco Nazionale ci sbranino, con una casa non molto distante che ci aspetta , calda ed  accogliente e non possiamo fare nulla per cambiare la nostra situazione. Alte si levano bestemmie d’Ognissanti. Riemergono vecchi rancori tra musicisti. Tutti maledicono tutti, il freddo obnubila le menti, si cerca di menar le mani, si rimpiange di aver imparato lo strumento, si impreca il divino immacolato cuore della divinità madre, si giura al cielo, etrna vendetta agli dei immortali. Solo la mia vecchia ford, a benzina riesce a fare spola tra Anversa ed il luogo del delitto. Al mattino, un benzinaio crumiro, con l’alito di stracotti all’aglio e spumanti dolci, ci vende a caro prezzo un litro di verde. Deposto il sacro liquido nel serbatoio del cassone morente, avviene il miracolo sotto il sole del primo gennaio. Una botta di vita. Parte il furgone ma ormai tutto è perduto: amici, felicità, riposo, possibilità del paradiso dopo la morte.