venerdì 27 febbraio 2009

Ripari di Giobbe






Oggi è crollato un pezzo di Costa . Oggi è crollato un pezzo di Ortona. Era un bel posto per starci. Una di quelle cale che portano ad una spiaggia di ghiaia e rocce. La domenica, in estate, era il luogo dove si incontravano bagnanti di varie nazionalità. Uno di quei posti che, negli anni '70, si trovava sulle cartine dei viaggiatori da autostop. Un'insenatura appartata, un campeggio che si apriva dopo una discesa tra i canneti fruscianti e il leggero odore salmastro che proveniva dalle scogliere. Di notte, meta di incontri al chiaro di luna. Qualcuno ci arrivava con la barca. Andammo anche noi due, una domenica, di tanti anni fa , ormai. C'era una atmosfera così dilatata. Coppie di amanti, silenziosi, come noi, stavano sulla riva a passare il tempo, in silenzio, senza bisogno di parlare, come se il rumore del mare tra la ghiaia della riva, parlasse loro parole sufficienti. Sembrava un quadro di Seurat. In attesa di qualcosa, tutti. Sotto il sole che si chiudeva dritto alle nostre spalle, oltre il promontorio. Pensavamo, allora, che nulla sarebbe cambiato, come poter fermare il tempo, di queste persone, queste coppie, che erano lì, insieme a noi. Tornammo altre volte, ma non fu più, come quel pomeriggio.Una disputa idiota e suicida ha lasciato queste scaglie di tufo in balìa degli eventi. Tutti avevano previsto, la natura, la pioggia di questo inverno, hanno fatto il resto. Si litigava, in Comune, con i proprietari, i posteggiatori, i contadini, le Ferrovie dello Stato, gli ambientalisti, i diportisti.
Ci si batteva contro l'Abruz
zo dei petroli, ma nulla si faceva perchè la costa potesse vivere delle sue bellezze. Nel silenzio, di un dopopranzo, lungo le curve che escono da Ortona,
n
el luogo in cui i tedeschi si ritirarono,
dopo la sanguinosa battaglia del
43, una lunga striscia di sabbia si estende nel
mare a segnare lo smottamento, un bungalow affonda, inclinato nelle acque che rendevano possibile sopportare ancora questo paese. Molti si chiederanno perchè e solo per il fatto che si chiederanno perchè, il perchè non l'avranno capito.

martedì 24 febbraio 2009

La pianta di Limone


Aveva questa pianta di limone, Zi’Nicola. La pianta stava nell’orto di casa a Pennadomo. La casa si sviluppava a terrazzoni, ogni piano due vani: prima c’era l’entrata dell’osteria , poi, scese le scale, si arrivava alla dispensa, ancora piu’ giu’ la cantina e la stalla, per finire il fondaco e l’orto, tenuto sulla strada da un muretto di pietre a secco. Un orto piccolo, dove nonn’Anna tentava invano di coltivare qualche odore per la cucina oppure teneva due piante di insalata. L’unica cosa che dominava in un angolo a sud, questo fazzoletto di terra, era la pianta di limone. Un tronco contorto, tormentato,, che producev frutti bitorzoluti, aspri come un dispiacere, che ti bruciavano le labbra e ti facevano fare saliva fino a strozzarti al solo tagliarli in due. Quella pianta era cme la famiglia Di Renzo, dura, greve. Molti in paese sostenevano che quella gente riusciva da sola a far rimanere la Penna indietro di un secolo. Zi’ Nicola se ne fregava, gli bastava ficcarsi nella stalla la sera, a suonare il suo bombardino sotto l’occhio paziente dell’asina Rosina, che sopportava qualche “variazione” sul tema. Zi’ Nicola suonava nella banda del paese, ed era l ‘unico modo per far capire che non era uno zotico come molti pensavano, ma sotto la scorza taciturna e ruvida si nascondeva un curioso osservatre ed un poeta a modo suo. Così soffiava maledettamente forte in quel bombardino, per vendicarsi dei “dottori” e filosofi del paese” tanto da lui venivano, quando avevan bisogno di soldi. Li segnava tutti con bella calligrafia sul registro che teneva nell’armadio della camera matrimoniale. Zi’ nicola era l’oste, baffetti e giacca, una leggera incurvatura della schiena. Saliva dalla rua con l’asina Rosina a portare i ceppi secchi per il fuoco dell’osteria, a riscaldare i quattro avventori seduti davanti al quartino e la gazzosa. Zi’ Nicola faceva scarpe, quelle per lavorare, per andare alla festa del paese e mangiarsi due lupini mentre si ascolta la banda nella cassa armonica, le scarpe per le comunioni, le scarpe per zappare, le scarpe per chi muore, e non deve camminare. Segnava le scarpe che faceva sul registro e ci metteva pure i soldi che dava al figlio Carminino per l’Universita’ a Modena. Aveva iniziato gli studi, nel periodo confuso della guerra Carminino. Aveva un animo gentile, dotato di forte intelligenza matematica. Per questo Zi’ Nicla aveva sognato un grande futuro per il figlio, mentre l’altro figlio Camillo era al fronte. Ma ora non riusciva a capire, come avesse potuto fare a trovarsi in quella situazione. Era nascosto in un cespuglio, in mezzo alla nebbia della bassa padana. I tedeschi li avevano rastrellati, perchè giovani e buoni per scavare le trincee. Dalle lenti a culo di bottiglia, appannate, a causa del respiro pesante e della nebbia, Nino, riusciva a vedere il cespuglio vicino, dove si erano nascosti i suoi due compagni di fuga. Li stavano cercando da ore. Non era stato semplice scappare. Erano immersi nel fango, con le pale in mano, quando, il tedesco di guardia si eran distratto a a causa di un ragazzo, svenuto per la fatica, che lavorava a poichi metri da loro. Nino aveva approfittato, per tramortire il soldato con la pala ed era saltato fuori dalla buca, correndo verso l’ombra di una cascina lontana. Capì dopo di essere seguito dai suoi due amici. Ora stavano lì, in attesa di qualsiasi cosa. Da lontano, il rumore di un moto. Era la pattuglia tedesca. Nel sidecar, un tedesco teneva stretta in mano la machinepistole. Passò davanti al loro nascondiglio affondando in una pozzanghera e riprendendo la corsa. Nino era intenzionato a stare fermo, ma gli altri due, nel panico più totale iniziarono stupidamente a darsela a gamba, non considerandom il pericolo scampato. Il tedesco nel sidecar, si girò. Iniziarono i primi colpì di mitraglia nella loro direzione. Nino fuggiva, aveva sentito gli altri due urlare per le ferite. Stranamente, non era stato colpito. Il tedesco, prese una bomba a mano e la tirò nella sua direzione. Nino sentì una sensazione di calore dietro la schiena, poi il buio. Si svegliò, dopo due giorni, nell’ospedale da campo tedesco. Era stato colpito ai reni e una scheggia si era conficcata in quello destro. Quest incidente aveva cndizonato la salute di Nino, anche ora che, a guerra finita, aveva ripreso gli studi. I sui mal di testa erano terribili, non riusciva a contenersi, doveva mettere la testa sotto le fontane anche in pieno centro, vestito di tutto punto. Ritornava da Modena per le feste comandate ed ogni volta riusciva amascherare bene il peggiorare della sua malattie. Lo rallegrava il nipotino Nicola e la sorella minore Laurina che era la sua prediletta. Amava ritrnare cn il treno nella citta dei suoi studi dove ormai lontananza e solitudine si erano fatte più pesanti, amava i paesaggi del treno sull’Adriatico. Come quella volta tornando da casa dopo Natale C’erano ombre veloci, sugli scenari, ostacolati dalla luce dello scompartimento. Una regione era di passaggio. Forse le Marche. Portava un vestito elegante ,scuro, l’unico vestito buono dell’armadio. La cravatta viola, di seta, indurita da lunghe permanenze in cassetti bui. La cravatta di Gian Maria Volontè. Carminino era Volontè, un cittadino oltre ogni sospetto di viaggiare per inutili convegni, senza delitti nascosti, con mediocri appunti di università su fogli intestati a fornaci di mattoni. Uno spiraglio dal finestrino difettoso, odorava di porcilaia e pianure emiliane. Il treno lasciava una luna cattiva. Lei era bruna. Si accostò al finestrino. Aveva i seni larghi ed una sottile linea del mento. Dalla fronte, di pendii di sole, scendevano i capelli neri, ricci e lenti. Si illuminò con il primo chiaro della mattina. Faceva finta di dormire o dormiva, Nino non lo sapeva. Una colazione mancata, attirò il pensiero di Carminino verso la stazione ed un caffè. Però aveva i fianchi generosi, siculi. Nino avrebbe preferito una calabrese o una pugliese, senza centro, regioni assolute. Il chiarore incerto dal vetro, i pendolari assonnati alle stazioni, mentre lei sorrideva, denti regolari. La Romagna. Un taglio si sopracciglia austero, orientale, si perdeva sulle tempie vivaci. Avrebbe potuto avere il sesso. Era giovane, piena di insana predisposizione ed ingenua confidenza. Tanti avrebbero posseduto il suo corpo, lasciando segni come solchi ed un posacenere pieno sul comodino. C’era fretta. Le donne non volevano fretta. Non le distrazioni. Non volevano leggerezze. Amavano il tessitore lento di racconti e desideri. Amavano il tono del sussurratore dei mondi, dell’ammaliatore di nubi. Il corpo poteva aspettare. Perchè dopo, sarebbe stato tutto corpo. La banda del finestrino, restiuiva sequenze di paese, una striscia di mare vicino alla spiaggia di lampioni distanti. L’attenzione discreta. A questo lei sorrise. Si fece, di colpo, più accorta. Accesa dal sole di taglio sull’acqua. Attendeva. Era attesa. Forse un uomo alla stazione. Il suo uomo. La stazione era l’uomo. L’arrivo era il volto di chi l’attendeva. Un altro sorriso. Carminino avrebbe continuato. Un cimitero annullò le pagine. Di nuovo la luna. Diversa. rassegnata al mattino di nebbia. Il treno si fermò. Rimase di lei solo il profumo. Carminino proseguì il suo pensiero fin dentro l’Emilia. Modena la mattina presto. Novembre, per i pendolari stretti dentro le prime spinte del freddo umido. Scese insieme a questa comunione di aliti assonnati, impastati di caffè e solitudine. La stazione odorava di disinfettante e carbone. Questo viale, in mano la sua valigetta, schiudeva due larghi marciapiedi, che costeggiavano vecchi giardini di ville silenziose. File di alberi tratteggiavano un muretto coperto di muschio. Non era come il nostro muschio. Sembrava una regolare decorazione delle pietre, un ornamento che stava bene con le nebbie e l’alba cittadina. Le biciclette legate intorno a questi pioppi, le biciclette sulla strada di basole, sotto il sedere degli operai, ammucchiate e sequestrate come sul piazzale della stazione di Ferrara. A sera, Carminino, avrebbe sognato di quella donna e di quella che sapeva, non sarebbe mai avvenuto, nel poco che sentiva rimanergli da vivere. Un pensiero alla quercia, nuda per l’inverno, ai venti del lago.
Zi’ Nicola dovette comunicare a Nonn’Anna l’arrivo di Carminino in paese con l’ambulanza. Anna comprese. Lo accolsero come un cristo morente. La nefrite lo stava consumando, Fu messo subito a letto.
Carminino era ormai giunto alla fine del suo viaggio. I reni, distrutti dalla mina, non funzionavano più. Lentamente si stava spegnendo. Stava perdendo la coscienza di quello che accadeva intorno, anche se accennava a momenti di estrema razionalità. Si gonfiava, come uno di quei cadaveri che vengono ritrovati in acqua dopo alcuni giorni. Se ne stava a letto accudito da Nonn’Anna. Nicolino spesso lo andava a trovare. Fu quel giorno che il nipote era andato in campagna con l’asina Rosina, che Carminino prese il vecchio rasoio del padre e si recise le vene dei polsi. Nonn’Anna rientrò dall’orto appena in tempo. Non disse nulla. Strinse le ferite con degli stracci, con precisione e velocità e solo dopo chiamò aiuto. Servì solo a ritardare la morte di qualche giorno. Era lì quel pomeriggio, rantolava. Troppo giovane per morire. Gli stava accanto la madre. Sul comodino c’erano i limoni della pianta nell’orto. Era al compimento degli ultimi respiri. Di fronte a lui, sulla parte c’era un quadro con l’immagine della Madonna. Prese un limone, lo tirò contro il quadro centrandolo in pieno. Fu l’ultima cosa che fece...
Zi’ Nicola non caccio’ una lacrima. Molti andarono in visita al morto. Poi gli venne un’idea. Aveva visto, in un giornale, un funerale di quelli che facevano le persone di colore in America a New Orleans,. Tutti andavano dietro al morto con una banda che suonava canzoni alla sua memoria. Ed i cavalli con i pennacchi che trascinavano il carro funebre. “Quante me piacesse che lu fije ‘me’ tenesse la bbande a lu funerele!” Ando fiducioso dal suo capobanda, sicuro che questo favore non glielo avrebbe negato. Il maestro però, un rigido violinista di mezz’età, troppo mediocre per suonare al di fuori da un paese, ma abbastanza borioso per darsi le arie tra i cafoni del un borgo, addusse mille motivazioni per rifiutare la richiesta del vecchi suonatore di bombardino, anzi fece capire a Zi’ Nicola che forse era arrivato il tempo del pensionamento per lui come bandista, approfittando del fatto che il dolore per la morte del figlio avrebbe prevalso sulla perdita del posto come musicista. Zi’ Nicola, stretta la coppoletta in mano, se ne andò senza dire nulla. Durante i funerali oltremodo silenziosi, non un sospiro uscì dalla sua bocca. Tornato a casa, prese il bombardino e lo ando’ a vendere ad Agnone, per comprare un campanaccio da vacca. Arrivò il suo giorno. La banda del paese fu scelta per andare a suonare ad una manifestazione a Roma dovre avrebbe presenziato anche il presidente Gronchi, all’Eur. Al paese si organizzo un postale per andare ad applaudire la propria banda. Anche Zi’ Nicola ci ando’. Portava con se la mappatella delle vivande per passare la giornata. Prima di partire passò nell’orto. Rimase in disparte tutto il giorno, aspettando il turn della sua ex banda. Verso le quindici toccò alla banda di Pennadomo. Nel clou dell’esecuzione, Zi’Nicola si piazzò davanti alla fila dei tromboni, quindi estrasse dalla sua sporta uno dei limoni dell’orto, quello più luccicante e bitorzoluto, lo taglio’ in due sotto il naso dei trombonisti e inizio’ a succhiarlo con perfida voluttà. Se lo levò di bocca solo per dire: ”E mò sunete stukazze!”. Dai tromboni ormai strozzati dalla saliva straripante uscì, tra il clamore generale, una lunga e agonizzante pernacchia.

giovedì 19 febbraio 2009

Il porco nel bagno


Un suono rauco, intermittente, come qualcuno ruttasse dentro un orcio, proveniva da dietro la casa dei Panetto, nella piazzetta della Rivera, davanti la Fontana delle 99 Cannelle. Se ne accorse Nazzareno, lo scemo del paese, mentre passava una sera risalendo dal fiume. Se ne accorse anche una pattuglia tedesca a piedi, nonostante i passi decisi scricchiolassero sula neve fresca. Tuttavia nessuno avrebbe ricollegato quel suono strano al grugnito di un porco. Era proprio un maiale, un verro imponente, quello che i Panetto tenevano in casa da due anni, di nascosto, non precisamente in casa, ma nel bagno. Era una bagno di quelli di una volta, con una tazza ed un lavabo, stretto senza vasca, con una finestrella a fianco dello sciacquone, che si affacciava sul piccolo giardinetto, con un mandorlo rinsecchito. Questo maiale era cresciuto da due anni beatamente in questo piccolo vano.
Dapprima riuscendo a fare qualche passo, ora, superati i due anni, stava a mala pena di traverso, poggiando, il suo muso sulla tavoletta del water. Tuttavia il maiale non se ne doleva, dimostrando un certo interesse al movimento solo quando Antonino, a sera, gli portava un secchio di bucce varie. La fortuna del maiale gli era capitata un mattino che il treno merci e rifornimenti tedeschi era passato per la stazione diretto verso l’Umbria. “Antunì! Antunì!” Aveva gridato la sorella zi’ Pierina, dai binari per richiamare l’attenzione di Antonino che teneva la figlia maggiore con la testa vicino alla locomotiva, per fargli aspirare il vapore a mo’ di aerosol.. Erano tanti poveri a fare quale tipo di cura termale a costo zero. Un’asse del vagone si era rotta e da questa spuntava il muso vispo di un maiale, che tentava invano la fuga. Vedere il maiale, e ficcarlo sotto le gonne della sorella, per Antonino fu tutt’uno. In verità la sorella era talmente secca che ai militari di scorta venne qualche dubbio nel vedere quell’arcolaio ambulante con quel pancione. Data la necessità il maiale fu ospitato nel bagnetto fra l’ilarità delle figlie. Ma Antonino aveva una mania che era quella della pulizia. Non sopportava la sola idea della puzza di maiale, quindi aveva preso l’abitudine di strofinare l’animale ogni sera, prima di andare a dormire, così come si usa per i purosangue. Passava la sua bella mezz’ora nel cesso e dava di brusca e striglia. L’unico problema era la presenza dell’ingombrante suino, ogni volta che qualche membro della famiglia, doveva fare i sui bisogni. Chi si sedeva sulla tazza , era costretto a tenere il muso del maiale, sulle ginocchia. Il norcino, aveva temperamento mite e riflessivo e ben si adattava alle esigenze degli inquilini. Mentre mamme, figlie , mariti erano intenti a sforzi liberatori, il maiale li guardava con pazienza. A volte le attese , data la scarsità del cibo, davano luogo a lunghe sedute ed esigui risultati. Gli umani, invece delle più moderne letture, avevano iniziato a parlare con il suino. Le figlie, gli ripetevano le poesie, assegnate da mandare a memoria, a scuola e i genitori si lamentavano per i problemi dovuti alla guerra ed al regime. Con il passare del tempo, il maiale, veniva addobbato con sciarpe e berretti. La famiglia di Antonio, proveniente da una stirpe di ferrovieri spoletini, era di orientamento socialista, e di quei tempi era cosa da tener nascosta. Antonino aveva la tessera annonaria e quella del partito aveva dovuto sotterrarla, per poter campare. Provava un rancore feroce per i fascisti che poteva sfogare solo in aperta campagna, quando andava ad installare i pali del telegrafo. Pensò quindi di vendicarsi e ,dato che parlava con il maiale, aveva deciso di chiamarlo Benito. Ma la storia del maiale non era passata sotto silenzio, specialmente al vicino di casa “Luchittu” che era un picchiatore per il gerarca Morante. Luchittu, riteneva che il possesso di quel maiale, dovesse essere denunciato al partito, perche’ la cosa gli risultava sospetta. Fece presente la cosa al suo superiore affinchè fosse effettuato un esproprio “fascista” . Il clima in città era già abbastanza caldo, sebbene L’Aquila fosse una città completamente entusiasta del regime. Ma il fratello di Antonino, Loreto, che era un militante socialista, già purgato più volte, aveva anche lui i suoi informatori. Avrebbero potuto rimetterci la pelle. Loreto ed i suoi compagni erano d’accordo per quella sera. Ne avevano parlato nella cantina, adibita a sezione del partito, per giorni. Si sarebbero visti a piazza Duomo per le otto, dove la ronda di fascisti capeggiata da Morante, sarebbe dovuta partire, come ad avvertire i piccoli gruppi di aquilani che sostavano a parlare, più del dovuto, fino a tardi. Alcune sezioni ne circoli di comunisti e socialisti, erano state già chiuse in città e le adunate di amici erano guardate con sospetto dalle camicie nere. Loreto aveva tanti amici che erano passati dalla parte di Mussolini. Era già stato segnalato come elemento sovversivo La serata era fresca, di quelle serate aquilane, di fine aprile, dove riesci a sentire l’aria ancora pungente. mista alle fioriture dei giardini ed alle goccioline delle fontane. I magazzini Del Vecchio stavano chiudendo. Il gestore, aveva abbassato la serranda, in fretta e stava attraversando la piazza in diagonale. Loreto ed altri quattro, spuntarono da dietro la chiesa. Loreto si sporse per veder meglio. Fu allora che sentì il rombo della Balilla arrivare dai portici. La macchina precedeva lentamente, era carica di fascisti. Loreto preparò l’esca. Lui ed i compagni attraversarono la piazza, correndo, nel momento stesso nel quale la macchina sbucava dal corso. I fascisti videro quello strano movimento, accelerando immediatamente. La macchina saltò sul pavimento rialzato dello slargo cercando di tagliare la strada ai fuggitivi. Correndo a perdifiato Loreto si nascose insieme agli altri, lungo la via che dava verso piazza del Palazzo Rivera. Riuscivano a sentire, le voci concitate dei fascisti. Poi, la macchina imbucò lentamente, il vicolo dove si erano nascosti. Le camicie nere procedevano lentamente nel buio della strada, tenendo le braccia fuori dai finestrini, con i manganelli in mano. Arrivarono sul punto. Dall’oscurità, i cinque, sbucarono. Furono pochi istanti. Loreto e di suoi, afferrarono la parte bassa della carrozzeria dell’auto ed incominciarono ritmicamente a sollevare la macchina, prima da un lato, poi dall’altro. I fascisti urlavano e minacciavano, agitando i manganelli, tentando di colpire gli attentatori.
Qualcuno tentò di aprire lo sportello. Era troppo tardi. La macchina si ribaltò con un rumore di lattina accartocciata. Loreto e gli altri iniziarono a correre senza guardarsi indietro. L’attentato riuscito sviò l’attenzione dal maiale di Antonino, anzi Luchittu fu accusato di aver spinto i fascisti nell’agguato e fu spedito, dopo una settimana di olio di ricino, a badare alle vacche a Roio Piano. La fame intanto incalzava ed il maiale, sempre più grosso, era diventato un’attrazione troppo forte per la famiglia Panetto. Eravamo ormai nel settembre del ’43 e la notizia della Liberazione, non fu accolta benevolmente dagli aquilani, specialmente quando i tedeschi, il 12, entrarono in città, durante la ritirata. Molti episodi di violenza si verificarono, nei confronti dei cittadini nelle frazioni ed Antonino, temette più per la sorte del suo maiale, che per quella dei suoi figli. Passò la primavera senza incidenti ed Antonino vide la fuga dei tedeschi il 14 giugno. Era felice raggiante. Nel trambusto dell’arrivo de Comitato di Liberazione Nazionale, tutti uscirono per strada ed Antonino, sfogò la rabbia repressa , mettendo il fez sulla testa del maiale e lasciando in casa a grufolare, ma la sera era calda e la porta era aperta. Il suino scappò prendendo la via della Fontana, per refrigerarsi. Fu inseguito dalle figlie che urlavano e ridevano, come fosse un gioco. Antonino non fece in tempo a riprendere il porco, che udì un sparo sordo e delle urla di giubilo, seguite da un rantolo animalesco. Quattro giovinastri coi baschi ornati da una stella e fazzoletti rossi intorno al collo si facevano fotografare, fucili alla mano, sul corpo inerme del povero maiale, il quale aveva ancora legato sulla testa il fez dei balilla. Antonino disperato corse verso di loro ma fu preso a calci. “Cosa fai?” Gli urlò quello che sembrava essere il più alto in grado “Questo e’ un maiale fascista, ed è il nostro bottino di guerra!” “Ma quale bottino di guerra” Rispose piangendo Antonino “Quello è il mio maiale!” . “Da oggi, comanda il popolo!” Gridarono in coro i miliziani “Tutto quello che hai lo devi dividere con il popolo che noi rappresentiamo” Detto questo presero il suino e lo caricarono sulla camionetta che portava dipinta sulla sponda la sigla CLN. Guardando allontanarsi l’autocarro, con la testa penzoloni del suo porco, Antonino, girò lo sguardo verso il cielo all’imbrunire e disse laconico: “Tutto sommato, Benito, non era poi una così brutta bestia!”

domenica 15 febbraio 2009

La Paura

Era tutti i mestieri. Antonino sarebbe piaciuto ad un architetto medievale. Un corpo ad uso di ogni ideatore di macchine ed opere. Amava il ritratto, le foto di amici, in prove di forza. Talvolta si faceva immortalare con tre uomini sulle spalle. Altre volte esibiva nervi e muscoli durante il lavoro, mettendo un palo di legno del telegrafo su una spalla, ed un altro sull’altra. Aveva la sgradevole ed irruenta vigoria del giovane affamato, che morde l’aria e beve fino al risibile deliquio. Si beffava dell’azzardo. Solo una cosa temeva: la morte, il suo pensiero, i suoi oggetti, il suo sopraggiungere. Perso nel suo limbo tra religione e superstizione, si allenava a scacciarne il disegno inevitabile, come un Sisifo in vista del suo masso da spingere. Fu per questo irrequieto vivere che si trovò a lavorare, adolescente, con un compassato falegname del Torrione. C’era scarsità di legno ed il falegname, si era offerto per la riesumazione di salme, al cimitero e per recuperare, legni ancora buoni, di bare. Antonino lo seguiva. Entrarono nella parte vecchia del cimitero. C’erano delle salme, nella cripta più vecchia, inumate da pochi anni. Avrebbero potuto trovare legno non troppo rovinato. La cripta era illuminata da lumini fiochi. Un forte odore di salnitro e fiori marci aggredì le sue narici, scendendo la scala di ferro che portava ai sotterranei. Quell’odore, svegliò la sua paura. Trovarono il primo loculo, indicato dal custode. Antonino non sentiva più i piedi. Era di spalle al falegname, che stava staccando la lapide dal muro. La tomba apparteneva ad una suora, morta di tisi, dieci anni prima. Fecero cadere il sottile velo di mattoni. La bara era intatta, coperta di polvere e di calce. Insieme al falegname tirarono giù la cassa. Antonino iniziava a sudare un sudore, freddo, reso ancora più freddo dalla malsana aria dell’ambiente. Il falegname, avvezzo e cinico, fischiettava, mentre iniziava a far leva sul coperchio, con il piede di porco. Arrivarono al coperchio di zinco. Antonino tremava, di nascosto, ma tremava fottutamente. Iniziò a far leva sul bordo del coperchio ben saldato. Il coperchio saltò, di colpo rovesciandosi sul pavimento, con il rumore di sottovuoto vetusto. Una zaffata muffosa investì i brividi di Antonino, che si era scansato dopo la caduta del coperchio, quando si affacciò sulla bara, il teschio non ancora del tutto scarnificato della suora, ricoperto dal velo dell’abito monacale, ebbe un sussulto. L’entrata dell’aria nella cassa, provocò lo scatto della mandibola del cadavere, che aprì la bocca in un urlò muto di morte meccanica. Antonino ebbe solo il tempo di mettere una mano sul passamano della scalinata, scappando a gambe levate da quell’antro. Gridava con il fiato della corsa. Riusciva solo a sentire l’eco della risata del falegname dal profondo della cripta. Alla morte pensava Antonino, soprattutto durante il suo grande capolavoro, la guerra, in fuga perenne dalla sirena, accompagnato dalla paura. Gli stringeva le caviglie quella paura, la fottuta paura di morire non si sa come. Come un topo, come uno scarafaggio, lasciato per terra pieno di schegge. Un soldato dall’esercito temporaneo, sanamente vigliacco, deciso a sopravvivere ad ogni costo. Ricordava ancora il terrore della sua infanzia, il terremoto di Avezzano. Un boato nella notte, si era svegliato, nella grande stanza dove dormiva con i fratelli e le sorelle. In quel momento capì che la sua paura sarebbe stata la sua salvezza. Riuscì a rifugiarsi nell’unico angolo della casa che sarebbe rimasto in piedi. Così, ogni notte, al rombo degli aerei, gli ritornava quel brivido dietro i reni, un brivido come un calcio, una spallata, che lo spostava verso un posto sicuro. Era il fetore attraente della paura che lo guidava verso vie d’uscita invisibili agli altri.Si trovava a Verona, con la truppa. C’erano delle caverne, poco fuori la città, dove, la notte, cittadini e soldati, si rifugiavano, durante i bombardamenti. Era disteso per la prima volta, sotto quegli archi di calcare e sabbia, ammassato con un’umanità fiatante e tremula. Si addormentò cinque minuti. Quella sera si era lasciato convincere dai commilitoni a stare insieme. La paura materializzò il suo sogno. Era una chiesa. Una di quelle che si trovano nelle rasate campagne inglesi. Lunghe nervature sorreggevano arditi archi e contrafforti. Entrò tra le navate, ma non camminava, era sospeso in aria. Passava sotto questi oscuri ornamenti gotici, filtrati da una polverosa luce, che proveniva da enormi vetrate istoriate. Era sorpreso dalla natura del materiale di cui era fatta la chiesa, non pietra ma legno. Un legno simile alle barche in rovina sulle spiagge, annerito dal marciume e dalla salsedine impietosa. Procedeva sospeso quando, dall’enorme navata centrale, si era staccato un crocifisso dal Cristo medievale, sofferente ed inumano, precipitandogli addosso. Si svegliò ci soprassalto. Non disse nulla. Tra il russare ed il lamentarsi di quell’antro, prese le sue cose e scappò nella campagna notturna. Era arrivato sotto dei filari bassi di vigna, quando il rombo arrivò. Si rannicchiò per terra, tappandosi le orecchie, per tutto il tempo del bombardamento. Quando si rialzò, dal luogo della sua fuga, proveniva un fumo denso e continuo. Ritornò ,verso il suo rifugio. Le caverne era state bombardate. Dai resti sabbiosi, si alzavano flebili lamenti, strozzati dal fumo acre di carne bruciata. Svenne, dopo aver accennato un sorriso. Antonino comprese presto, che doveva scappare, ogni volta il suo naso avesse fiutato l’odore acre della morte. Non lo capì subito, quando, per una strana sorte, di quelle degli antieroi, la sua domanda di partire volontario, in Africa, non venne accettata. La considerava un’onta anche se il suo battaglione era arrivato in Sicilia,in attesa degli alleati. Lì, certamente, avrebbe potuto fare il suo dovere, combattendo per la patria fascista. Fu lì che incontro la morte ed il suo acre odore. Era come l’odore del primo sesso, pungente, forte, stordente, ingenuo. L’esercito sbandò subito. Quei fucili, dapprima lucidi, oliati, poco usati in quella guerra, da imberbi contadini e manovali, diventavano ologrammi di armi nelle loro mani, ogni volta che un rombo nemico ronzava sulle teste di quei ragazzi. Pianse Antonino, la prima volta che dovette girare la manovella della sirena meccanica, per avvisare, l’arrivo del primo bombardamento. L’urlo crescente, aumentava con la velocità del suo braccio e camuffava il primo lamento di paura di quel giovane spaurito. Nel gesto della mano, la rabbia del capire. Ad ogni giro una confessione a se stessi: di avere una paura fottuta. Cadeva la faccia finta di Antonino, contro le immagini indolore, della Domenica del Corriere, dove eroici soldati perdevano sangue d’inchiostro. Giurò alla sua paura, di volerla accontentare. Iniziò le prime assenze, in un esercito senza più disertori. Immaginava che gli alleati, conoscessero le posizioni del nemico e non voleva farsi trovare, dalle bombe degli aerei. Per questo, la sera, all’appello prima del riposo, Antonino non c’era mai. Ricompariva la mattina dopo, occhi cisposi di sonno, qualche filo di paglia sulla divisa, buttatosi in chissà quale fienile, assieme alle bestie. Il Capitano, non badava. Assediato dalla popolazione, stufa del vecchio padrone, di qualsiasi padrone, come potevano esserlo i Siciliani, non badava più a nulla, se non alle bombe che continuavano a cadere tra le macerie arabo normanne. Dopo anni, sentì ritornargli quel groppo di terrore alla gola, di nuovo, come una malattia inattesa: era la fifa. Avevano comprato tutto il paese. Erano arrivati la mattina, con due camioncini, di quelli ricomprati alle aste dell’esercito. Un’armata silenziosa di individui baffuti, dalle coppole sugli occhi e la lupara sulla spalla. Non c’era stato bisogno di convincere i paesani. Bastavano i cenni. Poi era arrivata l’auto del mammasantissima. Aveva radunato i capifamiglia in comune, davanti ad un sindaco tremolante e sudaticcio. Tutti avevano ricevuti i loro soldi, in cambio delle loro case, degli orti e della masserie. Nei giorni, successivi, c’era stato il trasferimento degli abitanti, chi nel paese vicino, chi al nord, chi in America. Fu il mese dopo che in paese, arrivarono acqua, luce e telefono. Aveva studiato bene, a Roma, il commendator Garau, quando gli si presentò davanti Antonino. Era stato appena inviato in quel paese B., dove tutto era in mano dei mafiosi. - Qui, lavoro, per i borghesi, non ce n’e- Gli aveva detto un picciotto, che ora risiedeva, nell’unico ufficio postale. Antonino, era arrivato con l’incarico del Ministero, di attivare la linea del telegrafo. - Se vuoi sapere qualcosa, devi andare dal commendator Garau- gli aveva detto il tipo. Antonino e la sua paura, avevano realizzato che non c’era posto e quindi era corso a Reggio per sapere se poteva andarsene al più presto, da quella terra infestata da fichi d’India e mafiosi. Entrò al cospetto di un funzionario, grassoccio, con i cappelli impomatati e il doppio mento, stretto sopra una cravatta, piccola e unta. -Commendatore, tengo famiglia e io a B. non ci sto, neanche se mi sparate!- Aveva detto Antonino. Il Commendatore, uomo d’onore, aveva fatto un breve cenno con il capo, al ragioniere, che gli sedeva in una piccola scrivania a fianco. Questi per tutta risposta, aveva battuto una lettera, leggendola ad alta voce, dove si consentiva al guardiafili Antonino P. di avere residenza a Roccella, pur lavorando lungo la linea ionica. Antonino uscì ringraziando e tirò il fiato, asciugandosi la fronte con il fazzoletto. Ma il giorno seguente non ebbe paura. Si svegliò nella baracca già calda, vicino agli scogli di quella mattina calabra. Antonino aveva ancora il sudore notturno, come un velo freddo sulla pelle. Si tirò indietro i capelli, due dita per aggiustare i baffi. C’era un po' di caffè freddo di cicoria, nel pentolino sulla stufa, lo ingoio come una medicina necessaria. La portà si spalancò sul taglio di mare illuminato, davanti alla baracca. Osvalda, ancora addormentata, si girò infastidita dalla luce violenta. Quella notte ,Antonino l’aveva sentita lamentarsi. Il tempo era finito,avrebbe potuto partorire da un giorno all’altro. In quell’istante, Antonino, pensò a l’Aquila. Il bambino avrebbe dovuto nascere al paese suo, ma il Ministero lo aveva mandato in Calabria, per la nuova linea del telegrafo. Il pensiero si lavò con il primo tuffo. Non era difficile procurarsi il pranzo. Antonino aveva lasciato qualche nassa e la notte era stata di quelle buone per le aragoste. Mangiare aragoste con le scarpe bucate. Per Antonino valevano come quei gamberi, pescati nel torrente, a Pile. Pile. Sembravano dei giorni persi, quei giorni, ora che Antonino risaliva gli scogli, sotto i suoi piedi nudi. Le aragoste, aggredite dall’acqua bollente, si contorcevano nella pentola. Ma Antonino non avrebbe pranzato quel giorno. Un grido lo fece girare di scatto verso il letto, dove Osvalda iniziava ad avere le doglie. Le acque si erano rotte velocemente e scorrevano a bagnare la stuoia. Era il torrente di Pile. Antonino si aspettava di veder uscire i suoi gamberi. Mise la mano sotto la veste della moglie, voleva tappare quella falla. Non c’era tempo per chiamare la mammina. Osvalda era l’aragosta nell’acqua bollente. Le Aragoste si arricciavano nella pentola, diventavano rosse, sulla stufa, nella baracca di Osvalda che si arricciava sulla stuoia... Si trovò quella bambina nelle mani. Era il suo gambero, uscito dal torrente.

venerdì 13 febbraio 2009

La Sindrome della maga Circe



Odio il paese. Vomito maledizioni. Sono saturo. Detesto le pratiche di questa borghesia, mai assurta agli onori, vergognosa del proprio recente passato contadino. Aborro la fila dei penitenti domenicali, che insozzano le acquasantiere e tengono la gonna al prete. Detesto i manifesti dei queruli esclusi dai circoletti del potere. Mi infastidiscono i circoli del giuoco delle carte, dei biliardi, dove si autoglorifica la filosofia spicciola dei padri di famiglia, dai figli incompresi. La cittadina puzza. Puzza dai vicoli, con gli angoli pieni di piscio di cani e ubriachi.
Detesto i vecchi che fissano disgustati i miei orecchini e si masturbano nei giardinetti a veder le coppiette. Sgozzerei le baldracche di quartiere che telefonanofumano guidando e poi sputano sul vigile le imprecazioni di madri indaffarate. Ortona è uno dei ricettacoli del peggior costume dei nostri giorni. Un mercato rionale dove l'arroganza della volgarità è messa in vendita sul banco come i merluzzi appena pescati. Una umanità maleodorante vince e vive sul discreto passato di un luogo dove i mezzogiorni benedivano la quiete di un borgo operoso, con le radici aggrappate a questo cedevole tufo. Quello che detesto, l'ho fatto anch'io, ci sguazzo dentro. Per pigrizia. Una ignavia del rimandare al giorno dopo, fa passare gli anni, fa cadere i capelli e intristire le ossa, all'umido di queste sere. Sono ortonese, nonostante rivendichi radici montanare. Questo, quando mi conviene. Degli ortonesi, ho molti vizi. Detesto quello che sono anch'io e che potrei cambiare, forse domani, non so , vedremo. Quello che so è che la città è una Circe. Una Circe nascosta tra i fianchi del promontorio. Dopo la morte dei tuoi sogni che hai visto naufragare all'orizzonte, maledici l'amore che provavi per lei. saresti pronto a salpare per i lidi, natii o stranieri, non importa. faresti di tutto per andartene. Sei lì tra il Corso e la Piazza, assorto nel disprezzo di ogni singolo passante, nel quale noti una sorta di ebete soddisfazione per l'allocamento che la sorte gli ha riservato, quando, all'improvviso ti incammini verso l'orizzonte sopraelevato ad oriente. E' lì, nella distesa a filo del mare col cielo, che una sorta di vento benevolo, vanifica i fumi del tuo odio. L'occhio non si ferma, non può fermarsi. Ascolti il tuo corpo che abbandona la morsa dei nervi contratti nella stizza, facendosi molle alla brezza di maestro. E' un phon senza cattiveria, una bora bambina, lunghe ciglia, che ti accarezza le tempie. Passa tutto. Ti giri e riesci a sopportare. ancora un altro giorno.

mercoledì 11 febbraio 2009

Ode al "Callecchio di Odone"


Chiudono, i negozi. Chiudono che Dio la mandi. Passo per le strade di questa cittadina e vedo le serrande, le vetrine chiuse. Sulle imposte una scritta: "Si affitta", "Si loca", "Affittasi". Sulle porte dei condomini: "Si vende". Fino ad un paio di anni fa esisteva il ricambio. Mi ricordo che per il Corso principale c'era l'apertura dei negozi a tendenza: negli anni '70 iniziarono i negozi di bomboniere e via tutti a mettere negozi di bomboniere. La bomboniera è forse, il peggior oggetto pensato dall'uomo. Una bomboniera da sistemare in casa può provocare serie crisi coniugali. La bomboniera più atroce è l'orologio con la cornice in argento o il cigno in cristallo di Boemia. ebbene la città ne fu sommersa, negli anni in cui i figli dei contadini, dovevano ripulirsi dalla terra, comprando locali ed aprendo negozi "in centro". Negli anni '80 nacquero i negozi di elettrodomestici e di abbigliamento casual. E via tutti a vendere radio a batteria e giacchette con le spalline di Armani. Negli anni '90 nacque la moda di stare al bar e via tutti ad aprire bar : il Cafè de Paris, con il tè comprato alla Standa, il caffè Roma, l'Antico Bar, il bar del Corso, il bar del Centro, l'Harry's bar e kazzi vari. Offerta standard: aperitivo con mais e noccioline salate per sentirsi come dei coglioni al centro di New York. Poi i favolosi anni '90 con i negozi di mutande. E' stato stimato che ad Ortona, per poter sopravvivere, i negozi di slip avrebbe dovuto vendere una quantià di mutande pari a sette cambi giornalieri per Ortonese. Praticamente cambiarsi le mutande ad ogni scoreggia. Infine il nuovo millennio, con l'alta gastronomia italiana, il senso delle radici, l'enoagriosterante con annessa pizzeria e vecchia nonna che ti fa le seghe come si facevano una volta...Ah bei tempi, con il pane ed olio ed una serie di clienti a disquisire sui grandi vini regionali, che un oste avveduto e scaltro scaraffa dai cartoni del Tavernello. Fino ad arrivare ai giorni nostri, quando va di moda "chiudere i negozi" e via tutti a chiudere i negozi. Certo, oltre alla crisi, abbiamo un paesello, dove c'è una corporazione di commercianti ogni due attività commerciali. Non c'è un piano unitario per rilanciare il commercio, non c'è unità d'intenti, ognuno diventa commerciante e cliente di se stesso. Allora tutti a dare la colpa alla grande distribuzione, che succhia il sangue ed impone i suoi ritmi. Ma anche la grande distribuzione dà la colpa a qualcuno e cioè alle amministrazioni non abbastanza prone a questo serbatoio clientelare di posti alla cassa, senza il minimo di tutela sindacale, dove capi personale, single, misogini, arrivisti, leccaculo dei potenti e delatori, tengono sotto scacco, ragazze madri, neo laureati non raccomandati, cinquantenni all'ultima spiaggia, ex casalinghe col figlio drogato o scemo. Tutti si lamentano in paese se la gente non compra. Ma se la gente non compra ci sarà un motivo. Da queste parti chiudono le fabbriche, chiudono le fabbrichette che lavorano per le fabbriche. Molti tornano alla zappa, all'orto, altri si danno allo spaccio internazionale, altri vanno nei paesi dell'est, tornando con una bionda incinta e la moglie che non sapeva niente. Altri si fanno staccare la corrente nel silenzio di chi non ha più i soldi per avere voce. Poveri, straccioni, ma col Blackberry stretto in mano ed il mito del nostro concittadino Siffredi tra le gambe. Su questo mucchio di mota rappresa, mi stringe il cuore al vedere, una porta chiusa: quella del fruttivendolo Odone da poco dipartito. Era il simbolo dell'estate con quel capanno davanti al negozio, dove fette di citrone fresco aspettavano i ragazzi della notte. Seduti sotto le lampadine appese, sbrodolavamo il frutto rosso e fresco. Sembrava che leccassimo enormi fighe, ci bagnavamo di dolci umori, ridendo e ruttando. Così la bella stagione, insieme alla gioventù, scorreva. Piano si spengono le luci della città, sotto i passi...

lunedì 9 febbraio 2009

Sul concetto di dittatura


Si è proprio Lui.
Questa foto non vi tragga in inganno. Non voglio insinuare il sospetto che Lui sia un filonazista. La foto ha ben altro scopo. Essa indica un particolare momento della vita nel quale veniamo coinvolti da passioni di cui ignoriamo le conseguenze e di cui siamo partecipi entusiasti. le dittaure si scoprono dopo, come tali. All'inizio si pensa al dittatore come al "risolutore" ,all'interno di una situazione sociale di malcontento e crisi. Siamo capaci di limitare le nostre libertà personali, offuscati dal miraggio di un bene comune, molto prossimo. Solo chi ha la visione "storica" della società, riesce ad intuire la china verso la quale tali atteggiamenti, "largamente condivisi" dalla popolazione, portano in modo irrimediabile. E chi intuisce e palesa tali intuizioni, viene visto dapprima come un pessimista, un negativo, un essere non utile alla costruzione del "sogno comune". E' un pericolo, perchè pone interrogativi, mentre "la parola è una, sola, categorica..." Chi comanda vede in lui un sabotatore e lo perseguita, perchè sa che il libero pensatore ha capito, nella foschia del pensiero unico, ha capito gli scopi ed i fini ultimi del nuovo patto sociale. La dittatura, allora, può ricorrere a diversi metodi di eliminazione dell'avversario: uno è quello che ricade nel concetto più alto di estetica della violenza: l'eliminazione fisica. Questo metodo può ripercuotersi negativamente verso chi la applica, provocando sentimenti di riprovazione. Il secondo metodo è quello della diffamazione, che è sufficentemente efficace, violento solo dal punto di vista verbale e fa perdere forza e credibilità alle azioni dell'avversario. E' arduo costruirlo se l'avversario è integerrimo. Il terzo metodo è quello più efficace e cioè è quello dell'esclusione. Attraverso una serie di impedimenti, si esclude l'avversario dalla vita economica , sociale, politica del paese, ammutendo la sua voce, rendendolo inesistente come cittadino. Questo metodo è non violento esteticamente per chi lo applica e passa inosservato al resto della popolazione. La dittatura può così agire indisturbata, perchè non ha più nemici e coloro che la subiscono, non la indicano come tale, non si rendono conto di starci dentro fino al collo e sono pronti a morire per essa, a morire.

domenica 8 febbraio 2009

Palpazione inconsapevole del culo della vecchia 1987




Sono soddisfatto. Come può essere un diciottenne che di solito non è soddisfatto. I gradi della soddisfazione. E’ un fatto relativo. C’era una persona che frequentavo, uno stitico, che si riteneva soddisfatto quando, poteva andare al bagno, ogni due giorni. Ma stasera, sono veramente giulivo. Sono stato a Roma a fare acquisti. Ora, solo un giovane fanatico e forse stupido, può pensare che valga la pena, per un paio di dischi, di andare a Roma. A Roma, dicevano gli amici, ci stanno i negozi forniti, ci sta più scelta, si risparmia. Così quando risparmi duemila lire sul disco, ne spendi venti per il biglietto del treno. Ma è bello essere coglioni. E’ prerogativa dell’uomo, scegliere liberamente, di essere coglione. Un cane. un gatto, una gallina, non possono scegliere di essere coglioni. Il gusto di fare una cosa inutile, per la libertà suprema, del gusto di farla. Punto. L’autobus Pescara - Ortona, è fermo da cinque minuti. Ho la mia busta dei dischi in mano. Bisogna esibire la busta, perchè c’è il nome del negozio e soprattutto quello della città: -Ah!Sei stato a Roma a comprare dischi! Allora sei un intenditore!- Questo completa i gradi della mia soddisfazione. Incontrare un amico, sull’autobus, al quale sfoderare trama del viaggio, acquisto e ficcargli sotto il muso, i dischi, tanto non sa neanche di che cazzo si tratta. Mi siedo ai sedili di coda. D’estate, a sera, l’autobus è deserto, questo facilita il posizionamento della busta, proprio sul sedile vuoto, davanti a me. Ho un conoscente insulso, al mio fianco, con il quale dovrò intavolare una conversazione leggermente più utile di un rutto, onde evitare silenzi e disquizioni sulle temperature della notte. Ma il discorso prende una piega interessante. Si parla di autopsie filmate ed il mio animo pulp adolescenziale, viene amorevolmente attratto, da questo inserviente dell’obitorio, ormai in pensione. Una vecchia, intanto, sale a fatica sull’autobus. L’occhio la nota, ma subito si volge ad altri orizzonti. Dato che è provvista di bastone, siederà sicuramente avanti, per evitare nausee della terza età. I fegati con la cirrosi! Oh che dovizia di particolari! Sono abbagliato, da questo cistifelleo affabulatore. Immagino rappresentazioni gastriche su copertine di dischi heavy metal e maniaci con seghe a motore diesel. La vecchia intanto, avanza silente. Dovrà fermarsi. Sicuramente nei posti riservati agli invalidi. E’ già troppo se respira. La guardo distrattamente, come una cosa inutile. E’ trance. Al quinto espianto di reni, ho attenzione solo per la bocca di questo necrofilo a pagamento. La vecchia incombe. Esco dalla foschia troppo tardi. Davanti a me si proietta l’ombra di una schiena che sta per posare, le sue vetuste chiappe sulla sgualcita finta pelle del sedile, nonchè sul prezioso contenuto della mia busta, ivi assisa. E’ il momento nel quale la vecchia stacca il suo equilibrio dai suoi piedi con bastone, per lasciare le sue grinzose terga nel vuoto, prima dell‘ acculaggio finale. La mia reazione o istinto di conservazione, vacilla. Nella nebbia dei racconti, dalla quale, sono appena sbucato, l’allarme suona che Dio la mandi, trasmettendo segnali energici e distorti all’apparato locomotore. Il cervello mi suggerisce di avvertire l’anziana, toccandole le spalle. Purtroppo, non è così. Le mani non obbediscono. Riesco solo ad affondare, i miei arti rispettivamente sulla chiappe destra e sinistra della signora. Si avverte, nel silenzio ibernato dell’autobus, un rumore sordo tipo schiaffo al quarto di bue. Dalla mia bocca esce un rantolo tipo “Oh! Oh!” mentre le mani, annegate nell’abominio di vetusta cellulite e muscoli flaccidi, spingono la vecchia verso l’alto, tenendola in sospeso, sulla busta dei miei dischi. La vecchia urla. Urla come può farlo una vecchia, dimentica di palpazioni, che un tempo furono. Quello che sento adesso è un nodoso bastone che mia arriva sullo zigomo. E’ il bastone della vecchia. Mi ridesto tra il boato delle risa dei pochi passeggeri, le urla preinfarto della megera, le imprecazioni in pennese stretto dell’autista: “Auà stu’zizzone!“. Riesco a prendere la busta con una mano e mi precipito, come un ladro. Verso l’area di risulta della stazione, eclissandomi tra i senegalesi. Tornerò con l’ultimo autobus delle dieci e mezza.

sabato 7 febbraio 2009

Tu


Tu
mi chiedi
cosa fare.
Eppure ti stringo la notte.

Amore,
dai solchi sul volto,
vivi

Mi chiedi le cose
di fretta.
Io corro.
Tu stai sulla soglia che aspetti

Eppure ti stringo la notte.

Mi guardi,
non guardo.
I tuoi sogni,
i tuoi solchi sul volto,
scompaiono.

Volevo...

Eppure ti stringo,
la notte

venerdì 6 febbraio 2009

Perchè uccidere un Ingegnere



Un giovane studente al primo anno di Università, fuori casa, se non ha voglia di stare sui libri, ha due pensieri fissi: l’alcool e la figa. Purtroppo sono iscritto ad Ingegneria e questo potrebbe costituire grave nocumento all’ingresso delle feste organizzate dai vari atenei. Spesso gli Ingegneri sono oggetto di scherno da parte degli altri studenti in quanto dediti esclusivamente a studio e seghe, incarnando l’immagine perfetta del nerd americano, vittima nei film Porkys. Tra l’altro, l’Università è lontana dal centro ,posta su una montagna a venti minuti di autobus ed è nota per la rarissima presenza femminile. Tra le poche ingegnere, alcune incarnano l’ideale socratico di perfezione, sono cioè sferiche, due o tre si concedono ai più fortunati, praticando sesso parsimonioso nei boschi circostanti. Non ce`e` niente da fare tutti studiano, tutti sono chiusi in casa tranne il sottoscritto che ormai ha preso una piega del kazzo. Riesco a recuperare l`anno risparmiato quando sono entrato a cinque anni a scuola. Arrivo così al party della matricola Isef ( Ist. Sup. di Educazione Fisica). Isef è chiamato anche Paradiso della Gnocca. Branchi di donne formose si accalcano nelle aule, l’afrore di pelo si spande nell’aria come un balsamo indurente. Seni, seni ovunque, di tutte le misure e poi glutei, chiappe, una pletora di chiappe. Entrare nella festa significa anche sofferenza, guardare non toccare, sacrificarsi per trattenere l’ultima catena che lega il paccianidentrodinoi. Ho dei capelli lunghi come una troia ed utilizzo il mio laido charme da diciannovenne, tramite un profumo “Polo” di Ralph Lauren. Il resto e` sbronza totale. Arrivo con altri conoscenti sul luogo dell’evento, dopo aver fumato la razione giornaliera di paglia, il che ci favorisce nell`approccio quick and easy con le pulzelle, l`importante e` non far sapere che si studia ingegneria. Mi punta una bionda mentre sto ballando “Fight for your rights to party” dei Beastie Boys. L`aggancio deve essere tecnico: ricambiare lo sguardo per un quarto d`ora, indi, assicuratisi della benevolenza femminile, avvicinarsi con occhio da spigola alla vittima e dimenarsi che manco Terence Trent d`Arby. Ma la fanciulla applica la tecnica della serie “Ti guardo mentre vado al bar, tu mi segui, eventualmente ti porto in bagno e ti faccio un rapido pompino”. Così al brano dei Simple Minds “Don`t you..” la ragazza si stacca dal gruppo ed ancheggiante, si dirige al bancone , la seguo già con la base dell`uccello in fiamme . La sto per approcciare, lei, seduta allo sgabello, mi sorride, quando un laido collega di studi, lancianese, ubriaco perso, dalle sopracciglia tipo zerbino comprato al mercato del giovedì, mi aggrappa per le spalle, profondendosi in effluvi alcoolici sulla mia faccia. Nel suo deliquio a base di vini frizzanti e verdastri cocktail, si gira verso la pulzella apostrofandola con innominabili epiteti, in piena operazione simpatia. La ragazza cambia drasticamente umore, si alza e se ne va di fretta, esibendo un culo da paura, cosa che prima non avevo notato nei mezzobusti danzanti. Il mio cazzo ha un urlo muto di disperazione, afflosciandosi a terra con il dirigibile del capitano Nobile. Avrò il laido individuo attaccato alle costole, tutta la sera. Lo stesso individuo che, la mattina dopo, in Facoltà, vittima di un giustificato mal di testa post sbronza, si rifiuterà di aiutarmi in un compito di geometria, da lui, purtroppo, brillantemente superato, velocizzando la mia decisione di abbandonare gli studi. Odio gli ingegneri, da quel giorno.

giovedì 5 febbraio 2009

Incidente notturno con omissione di soccorso


La lepre inerme
sull'asfalto.
L'occhio vitreo
osservavo pietoso
se consumare frutto del delitto.
Decisi di lasciarla
con rimpianto.
Sognando per giorni
lo stesso misfatto
ed un salmì perfetto.

Morte di una nazione

Quando ho iniziato a prendere coscienza del paese in cui sono nato, è stato molto presto. Avevo cinque anni ed abitavo a Milano. Spesso accompagnavo mia zia all'Università Statale. Era il 1973. Ricordo gli scontri tra manifestanti, i lacrimogeni. Ci buttavamo a terra per evitare le cariche. Ricordo la violenza della malavita, le rapine sotto casa , gli scippi, le aggressioni. Non sono immagini filmiche come le finzioni ridicole di Tarantino. Questo era un film italiano. Poi i "fantastici anni '80", quelli del disimpegno, il vero principio del declino italiano. Tutto leggerezza, fashion, allure, brand, accounting, launch, branch, creative manager, mercial banking, senior consulting. Infine i novanta delle tangenti o " della scoperta dell'acqua calda". In tutto questo caos di figliocci di operai che diventavano dirigenti di partito, amici dei manager, dove gli operai annoiati, diventavano sindacalisti e poi sindaci, la Mafia, silente, con qualche alzatina di voce, ha mandato i suoi figli all'Università al nord, a sciacquare soldi in palazzi e finanziarie. Meglio non far casino, va tutto bene in superficie, basta dare in pasto al popolo promesse di benessere, concessione di somigliare ai ricchi andandoli a binocolare a Porto Cervo. Il popolo si è addormentato piano, ma si è addormentato. Ho avuto sempre il senso della memoria, il capire che quello che stavo vedendo da bambino, lo avrei nitidamente ricordato ed interpretato, da grande. Ho vissuto, ascoltando leggendo, decifrando le parole delle persone, intuendo gli avvenimenti, esaminandoli, come fossi un adulto, nel corpo di un uomo che cresceva con gli anni. Ora quell'uomo già grande per osservare, è stato raggiunto dall'uomo che sono fuori, un quarantenne. Queste due persone si uniscono finalmente. Quello che vedo ha finito ormai, di preoccuparmi, di angosciarmi, di indignarmi. Ho raggiunto un pericoloso punto di non ritorno, come quando un minatore che è stato in miniera per vent'anni, non tossisce più inalando un gas tossico. La caduta del mio paese verso il baratro del nulla culturale, istituzionale, politico, del quale non mi sento assolutamente responsabile come cittadino, è tanto catastrofica da sembrare priva di conseguenze. Gli ultimi avvenimenti, sebbene un dettaglio, all'interno di una situazione generale irrecuperabile, sono sintomatici del clima di nuovo Medioevo post industriale: un misto di terrorismo religioso, unito a ritualità pagane, mediato da profonda ignoranza, grettezza morale, perdita di dignità. Siamo diventati dei cavernicoli digitalizzati, dei bigotti che aizzano figle adolescento con tette rifatte, siamo mariti e mogli di bodrille e grossisti di carni col Suv, di quelli che vanno con le puttane ucraine ed hanno la foto del papa in camera. L'aspetto peggiore è quello del mondo giornalistico. Chi legge tra le notizie, può capire quanto servilismo al potere, alla chiesa si nasconda dietro le notizie che inneggiano al pietismo peloso, alla sacralità della vita, alla moralità dei guardoni e di chi si fa guardare, con la scusa di essere richiesto dal popolo. Quanto anonimato ci sia , per le figure degne di considerazione e rispetto e quanto invece, lo stupro diventi viatico per una esposizione massmediatica con richiesta di relativo cachet. Tutti hanno fretta, tutti fanno cose più importanti degli altri: lo capisci quando sei l'unico ad inchiodare la macchina davanti le strisce pedonali. Ci hanno insegnato ad odiare il voto, lo hanno svuotato come il guscio di una cozza, non perdendo un briciolo del loro potere di delega. Così i vecchi insegnano ai discepoli che bravura è coglionaggine, furbizia è sopravvivenza. Quando penso all'Italia tra qualche anno, mi sembra di rivedere un film di Mel Gibson di quasi 25 anni fa: Mad Max, oppure di leggere un libro di Terzani sulla caduta dell'Impero sovietico: Buona notte Signor Lenin. Un'Italia balcanizzata, una Sarajevo, dove la guerra non è mai avvenuta, ma la distruzione si è propagata per implosione. Branchi di italiani affamati, armati, lottano per la sopravvivenza saccheggiando campagne, uccidendo, mentre contadini si difendono, con barricate. Paesi con il coprifuoco, dove gli estranei vengono catturati e giustiziati sommariamente, bambini abbandonati ai cigli delle strade, nel ricordo delle fotografie dei piccoli ebrei a Varsavia durante la guerra. La narcosi elettronica non ci fa leggere il futuro. L'uomo cresciuto dentro di me, ricorda, mi parla. Riesco a capire e faccio finta di niente...

mercoledì 4 febbraio 2009

The Autobus figure of shit


Novembre 1987
L`autobus che mi conduce da L`Aquila a Pescara risulta talvolta interessante a causa delle vicende su di esso accadute. Spesso non per mia volontà ma per un fato voluto dagli dei immortali. Passare per maniaco non e` mai stato uno dei miei sogni, ma l`opportunità di scrivere questo racconto, grazie a questo epiteto per un giorno, mi riempie di nostalgica commozione, manco fossi Pacciani. Mi trovo in una fredda sera di novembre, al ritorno verso la città universitaria. Sull`autobus, un vecchio Iveco azzurro dell`Arpa, dagli interni intrisi di odore di mozziconi, panini con la frittata e scoregge, vi sono pochi pendolari, qualche mesto forforoso cinquantenne impiegato in banca, un controllore con la panza causata da un eccesso di tacchino alla canzanese e fermentato, due racchie che hanno ricacciato il cappotto dall`armadio ai primi geli, il cui odore di antitarme è un ulteriore deterrente a qualsiasi approccio maschile. Mi siedo, come ogni giovane si rispetti, ha il dovere di fare, sui sedili retrostanti. Tra me e gli altri passeggeri, molte file di poltroncine vuote. Pregusto la serata tranquilla. Ho il walkman con un paio di cose dei Nuclear Assault e degli Omen, a me i Nuclear piacciono di più degli Anthrax e poi Dan Lilker e` l`eroe indiscusso dei SOD. All`altezza di Brecciarola, sale una formosa pulzella , dalla gonna attillata e dalle tette abbastanza gonfie da suscitare serotine erezioni nei giovani studenti. Si va a sedere davanti a me, lasciando tra noi l`intervallo di un posto vuoto. Nella semioscurità della luce azzurrognola emanata dai lampioncini dell`autobus, la pulza si rannicchia sul suo sedile per dormire, sporgendo pericolosamente le rotondità del suo bel culo, lungo il corridoio del mezzo. La gonna appositamente cucita per esaltare le curve gluteesche, e` leggermente sollevata, lasciando intravvedere un paio di slip da lap dancer. I miei occhi inadatti perfino alla guida diurna con lenti, si trasformano in raggi laser della ditta Same-Govj, di quelli che trovi in offerta sulle ultime pagine del “Monello” o di “Cronaca Vera”. Parte una sega mentale addolcita dall`ammortizzatore lungo del vecchio bus. Nel mezzo di questa onirica pippa, sale un uomo che si va immediatamente a sedere tra me e la giovane. Nessuno dei passeggeri che si trovano avanti, si gira a vedere il nostro trittico in fila indiana. Solo il controllore fa una passata per i biglietti, senza dire una parola. L`uomo davanti a me e` un bruno butterato con la faccia ai frutti di mare, sembra Bukowski giovane. Con il controllore, caccia una vocina tipo cattivo di Roger Rabbit, cosa totalmente inadatta al suo aspetto da pedofilo serial killer. Ha sicuramente fumato delle N80, alla fermata. Le N80 sono delle nazionali con filtro, caratterizzate da un sapore ed un odore dolciastro e persistente, che riesce ad attaccare le ghiandole sebacee della pelle di chi le fuma, trasformandolo in un posacenere lavato male. Nocive per il fisico e per i rapporti sociali, sono da preferire alle Lido blu o alle John Player Special, quest`ultima sigaretta considerata forse la sublimazione dell`essenza di una discarica di calzini sudati dell`esercito. Il giovane mi indispone, la sua presenza olezzante e lasciva, mi impedisce la visione culistica della pulzella. Mi addormento , nonostante il walkman con i Nuclear sia a palla. Nel torpore della sonnolenza metallica realizzo una voce di donna che recrimina ad alta voce: “ Levami le mani di dosso, porco!”. Mi sveglio di soprassalto e vedo la scena: Il maiale butterato non ha resistito al richiamo del culo giovanile, a differenza del sottoscritto, ha aderito al motto “pensiero ed azione”, allungando il suo nodoso arto tra i glutei della giovane, fino ad arrivare al vistoso rigonfiamento della topa, pinzando sagacemente e prontamente il morbido frutto. La giovane, al tatto, si e` svegliata di colpo, serrando le cosce, imprigionando le mani dell`attentatore, il quale lieto della nuova posizione raggiunta, ha iniziato a ritrarre ritmicamente la mano, sperando in un cambiamento di umore della pulza. La ragazza si alza di colpo e si rifugia tra le braccia del corpulento bigliettaio, il quale sopraggiunto nel frattempo, ha solo modo di dire: “che le sta dando fastidio, signorina?”, accompagnandola poi, tra i sedili dei primi posti. Rimaniamo dietro io ed il maniaco, con il principio di uccello infiammato. Secondo le leggi della figura di merda, chi la fa, si guarda bene dall`esporsi in pubblico subito dopo. Ma ci sono delle varianti che non vengono considerate. Chi Pratica spesso la figura di merda, conosce i metodi per uscirne alla grande. Poco dopo, infatti, il maneggiatore, forte del fatto che nessun passeggero si era girato a veder la scena di palpamento, si alza e si va a sedere davanti, vicino agli altri.. In quel momento si insinua in me una leggerissima preoccupazione. E` successo un fattaccio nelle retrovie, eravamo in tre, nessun testimone, sono rimasto da solo agli ultimi posti, sono io il colpevole. Verso la piana di Navelli, infatti, i passeggeri che prima avevano solo ascoltato la concitata richiesta di aiuto della pulzella, senza girarsi a veder chi fosse il bruto, iniziano a prendere coraggio e nella semioscurità li vedo girarsi verso il retro del bus, ad inquadrare l`unico passeggero, cioè io. Ad una iniziale ricognizione visiva da parte di tutti i passeggeri a turno, inizia il terrore della “figure of shit”, che mi attacca le membra, ghiacciandomi la schiena. Incominciano le guardate secondarie. C`e` una matura zitellona , più brutta del cruscotto di una Innocenti, che si gira scuotendo il capo con espressione di disappunto. Il tutto contornato da una maligna omertà del controllore, unico vero testimone, capace di scagionarmi da questo terribile equivoco. Raggiungo il top dell`orrore, qualcosa di simile alle ultime frasi dei racconti di Poe, quando anche il maniaco, in un atto sublime della sua tecnica, probabilmente adottata con successo su altri mezzi pubblici, si gira anche lui apostrofandomi con mugugni tipo, “ah, che roba” oppure “che tempi”. Sono alla frutta. Dovrei scendere al Torrione ma mi trovo a Collemaggio. Suono il campanello, Mi viene aperta, Forca Caudina, solo la portiera anteriore. Sarò costretto a passare in mezzo a tutta quella gente...No! Chiudo gli occhi tra le offese ed i rimproveri generali, esco, perdendomi nella notte. Solo un bastardo butterato, si gira salutandomi attraverso il vetro, con la mano ed un sorriso luciferino tra i denti d`oro.

martedì 3 febbraio 2009

Sabbia



Un sudore strizzato, sabbioso, acre, gli appiccicava la divisa lungo la schiena. Camillo era stato tutto il giorno al telegrafo. Correva, la strisciolina di carta, ora un tratto, ora due punti. Arrivava ad intrecciare gli occhi. Avvezzo alla traduzione, Camillo leggeva dispacci, trasformava comandi, informazioni, notizie. Erano a pochi chilometri da Addis Abeba. Sotto una lampadina flebile, dalla luce sinistra, interrotta dai lampi diurni di una tenda che si apre e che fa entrare il deserto a scartavetrarti la gola, stava, mio nonno alla fine del suo turno. Si alzò dalla sedia brontolando e si stese sulla branda, lasciando il posto al compagno. Una vecchia copia della Domenica del Corriere, ingiallita dal passaggio di mani, era l’unico diversivo ai notturni silenzi del deserto. “Chi cazzo sono questi Ascari?”, fece Camillo, novello Don Abbondio alle prese con Carneade. Girò le pagine distrattamente fino a quella dove, una vecchia stampa d’epoca, ritraeva il Barone Ricasoli, sotto le sue vigne. Il pensiero andò ai genitori, a Pennadomo, al padre Nicola, anche lui stava rientrando dalla vigna. Lo vedeva risalire le scalette sotto al paese, portandosi dietro Rosina, l’asina, carica di verdura e legna. La coppoletta calata sulla testa e il mezzo toscano spento, in bocca. Quella sera c’erano le prove con la banda e nonnò mormorava la sua parte di bombardino, tra i denti. Camillo vedeva il padre fermarsi davanti la porta dell’osteria, sulla piazzetta Orientale. Il rumore dei ferri di Rosina sarebbe bastato a far uscire nonn’Anna dalla porta, nonno Nicola non consumava più di due parole con lei. Sulla porta dell’osteria c’erano due fraschette con una bottiglia vuota, a significare che lì si beveva.
“Chi ci stà dentro?” avrebbe chiesto come al solito nonno Nicola. Se nonn’Anna parlava, erano amici e quindi nonno Nicola le avrebbe comandato di prendere “il vino” tirando nervosamente il capo da un lato, se nonn’Anna non parlava ma accennava ad un gesto enigmatico, erano stranieri e quindi sarebbe stato nonno a prendere il vino. Fatto questo nonn’Anna sarebbe rientrata in osteria e nonno sarebbe sceso a rimettere Rosina alla stalla, poi, si sarebbe recato in cantina, dove c’era la vecchia botte di castagno, piena di vino che aveva preso la via dell’aceto. Mentre nonno riempiva la bottiglia, con una smorfia di disappunto per tutto quel ben di Dio rovinato, nonn’Anna intanto, portava subito un bel piatto di finocchi, per addormentare la bocca degli avventori. Nonno risaliva con la bottiglia di vino in mano ed un flebile sorriso da figlio di puttana, sotto i baffi. Camillo steso sulla branda, rise ad alta voce, come se un telone di cinema gli avesse riproposto la scena sotto gli occhi. Si girò il compagno, con uno scatto di sorpresa, ad interrompere il monotono ticchettio della trasmittente: “Camì, che minchia ti ridi?”. Ma Camillo non rispondeva più, dormiva con l’ultimo pensiero per Adele…
In quei giorni al campo c’era stato grande fermento: durante una battuta di perlustrazione era stato ritrovato un campo di italiani, caduti durante un’imboscata; tra le vittime vi era un fotografo. I nemici non avevano toccato le sue attrezzature, limitandosi a saccheggiare solo viveri e ciondoli. Tra i compagni di Camillo c’era uno di Varese, che nella vita borghese, faceva l’aiuto fotografo in un grande studio della città. La compagnia di Camillo era accampata vicino al villaggio della loro guida, un negrone alto e statuario che sembrava quasi un Masai. Stavano in un posto tranquillo e c’era tutto il tempo di cazzeggiare con l’attrezzatura fotografica. Iniziarono a sviluppare vetrini ed a stampare, quello che la vittima aveva involontariamente lasciato loro in eredità. Scoprirono che il fotografo ucciso, era un sorta di etnologo, che stava effettuando studi sulle popolazioni ribelli della regione. Si era accodato ad una compagnia in avanscoperta, con la speranza di essere al sicuro, ma aveva trovato una dolorosa morte, sotto la lama di una banda di predoni, in attività, durante quei confusi giorni di guerra. Camillo aiutava volentieri il fotografo di Varese, anche perché era un bel modo di passare i momenti di riposo. Fu grande lo stupore, quindi, al constatare che una serie di negativi erano dedicati esclusivamente al Negus. Lo avevano immortalato in tutte le pose: impugnando un mitragliatore, al comando di soldati sul cammello, in piedi, sopra un cumulo di cadaveri di ribelli.
La buonanima del fotografo, aveva anche lasciato loro, una serie di vetrini vergini. Pensarono immediatamente di utilizzarli, per fare fotografie a tutta la compagnia. Il sottotenente, che si dilettava a dipingere, creò uno sfondo con un vecchio lenzuolo. Due reclute mantenevano il lenzuolo e, a turno, ogni soldato si faceva fotografare in divisa. Camillo e gli altri avevano notato che la zona tra le loro tende ed il villaggio, dopo i primi giorni, di diffidenza, si era animata. All’inizio si erano avvicinati i bambini, poi qualche vecchio, alla fine delle ragazze. Si mantenevano sempre a debita distanza, ma erano curiose di vedere quegli uomini, simili nei sorrisi ai loro giovani, ma bianchi, in divisa, sempre indaffarati a fare qualcosa di cui loro non capivano il significato. Erano delle bellezze che Camillo non aveva mai visto. Nascosti i loro corpi a malapena, da piccoli reggiseni di pelle e gonne formate da fili di piante, simili a stuoie di paglia, il nero della loro pelle, colpito dai raggi del sole, creava riflessi morbidi, come se la luce avesse rischiarato le rocce scure e bagnate di un torrente. Camillo, aveva visto, fino ad allora, Adele, ma l’aveva vista rigorosamente vestita. La figlia della speziale, portava quei lunghi vestiti, incorniciati dai pizzi che lei stessa faceva, con quelle pettinature scolpite fra fermagli d’osso. Cipria e rossetto, sugli incarnati di madreperla ad esternare tremebondi e vulnerabili pudori, a chiudere fortezze facilmente espugnabili, in qualche bosco estivo vicino al Sangro. Pensando ad Adele, Camillo era inebriato da tanto innocente scoprirsi delle carni, da parte delle ragazze del villaggio. Comprendeva la naturalezza dell’appartenere alla terra ed allo stesso tempo era combattuto dalle visioni di riti ancestrali, veli e statue in processione, della sua terra d’Abruzzo. Ma aveva quasi vent’anni. Erano lontani da casa. Le fidanzate, le madri, le promesse spose, erano lontane mille e mille miglia. Anche Adele, quasi avesse potuto avere un cannocchiale per veder quello che Camillo poteva combinare.
Le ragazze del paese si avvicinavano ogni giorno di più, allontanando il senso del peccato ogni giorno di più. Fino a quando, un giorno, il varesino trovò il modo di avvicinare le fanciulle e chieder loro di scattare qualche foto. Fu un tripudio di gioia e risate. Furono fotografie di giovani a torso nudo che abbracciavano ridendo, quelle sculture eburnee e generose. Camillo dimenticò Pennadomo, voleva eliminarla, nel tremore dei sensi che si svegliavano, che esplodevano, che fiaccavano le notti dei soldati. Voleva odorare corpi nuovi, bocche, tastare membra che aveva visto solo in qualche volume di Salgari. Quella notte…
Era una giovane, figlia di un vecchio cacciatore del villaggio. I silenzi della distesa africana, erano interrotti solo, da qualche colpo di artiglieria lontano. Girava ancora inebriato dai brindisi a base di pessimi distillati, trovati nella dispensa. La ragazza lo aspettava. Lo prese per mano. Era frastornato, eccitato, si lasciò andare. Guardava la luce nitida della luna africana, illuminare il nero di quelle gambe, come di pece che lo tenevano stretto, senza dire parole, perché non sarebbero servite. I seni della ragazza, si puntavano sul suo petto. Conobbe un amore, il solo, disinteressato, libero, senza domani, senza religioni, né rimorsi. Rimasero le foto. Le aveva nel cassetto della sua vecchiaia.