giovedì 21 maggio 2020

Vita, vocazioni e peccati del giovane Gianluca



Alla tenera età di anni dodici, fui stravolto da turbamenti i quali, al posto di indirizzarmi verso pratiche onanistiche tipiche degli acneici fanciulli anni ottanta, tutti Bolero e Blitz, mi condussero per le opaline strade della fede, ove ogni sosta è un attimo che precede l’ascesa alle beatitudini della rinuncia e della castità. In verità già da qualche tempo sperimentavo ingenuo, gli sfregamenti del mio giovane volatile con successi scarsi e infiammazioni certe. Non provavo colpe e alternavo ignaro, le gioie della cippa con quelle più auliche della catechesi. Ero affascinato tuttavia dalla passione religiosa di mio nonno Camillo il quale, durante i suoi racconti di prigionia, narrava di come la religione lo avesse salvato dalle pallottole naziste e conseguente infornata. Con il ritorno dalla materialista e impegnata Milano nel lontano ’76, avevamo compiuto un processo di depurazione da tutte le scorie del moderno tornando ai fasti delle più grevi superstizione, praticando sedute spiritiche, consultando maghi e cartomanti, mischiando Berlinguer con l’acqua e l’olio per il malocchio. Fui sconvolto dalla capacità camaleontica dei miei parenti nel variare gusti e tendenze. Essendo ragazzo e dovendo “onorare il padre e la madre” mi attenni ossequioso a tutto ciò che loro credevano fosse giusto e degno di essere preso per vero. La religiosità dei miei avi era una roccia scolpita nella pietra: Madonne di gesso trionfanti sul serpente erano poste, sotto la teca di vetro, nelle camere da letto dei miei nonni, sacri cuori retroilluminati lugubremente a tenermi sveglio nelle sieste di luglio, avrebbero dovuto farmi comprendere la gioia del credo.
Fu complice la tempesta ormonale e un basso rendimento negli studi a farmi propendere in modo del tutto opportunista, verso la possibilità che, inserendo santini e unghia tagliata dai piedi di Padre Pio, tra le pagine dei libri, avrei ottenuto voti migliori. Il caso ci mise lo zampino (a posteriori credo si trattasse dello zoccolo di un caprone) tanto che i voti migliorarono e l’ansia che provavo nella gioia di veder migliorare la mia condizione di studente venne da me scambiata per il fuoco della fede che mi spingeva a risultati inaspettati. Anche mio nonno scambiò questa nuova condizione per i prodromi di una vocazione religiosa che mi portava a essere brillante nelle discussioni filoconciliari in parrocchia e i passi del Vangelo letti stentoreamente nelle messe di periferia. Sudavo di fede. MI adattai anche nelle vesti: improbabili lupetti color diarrea, maglioni verdi di lana spinosa, mocassini arancioni con fibbie adornate da finti smeraldi, collanine con Crocefissi in oro bianco e righe pettinate a destra con lo sputo. Fui mandato per alcuni mesi da una suora la quale aveva subito visto l’occasione di sfornare un altro pretino, visiti i tempi bui nei quali Nadia Cassini aveva fatto cadere i giovani italici. Ricevetti lezioni speciali di catechismo estremo. Suor Michelina mi voleva bene e anch’io a lei ne volevo. Era una creatura dolce e comprensiva e rendeva più semplice la mia strada verso il convento. A marzo presi la Comunione, mio nonno era felicissimo. Ciò non bastava, il ferro andava battuto finchè caldo tanto più che il mio arnese era un cannone di Navarone pronto a sparare ormoni alla vista di una chiappa qualsiasi spuntata fuori da un bikini. 
Dovevo prendere la Cresima e subito. La porta per il seminario era ormai aperta. La suora mi caricò come fossi un pugile prima di un incontro valevole per il titolo mondiale: il giorno della Cresima lo spirito Santo sarebbe disceso su di me come una fiamma dal cielo, inondandomi di un’energia straordinaria per combattere il peccato. Diamine! Pensai. Avevo in mente una cosa tipo Jeeg Robot d’acciaio o Mazinga con tanto di lampi e cupola della chiesa che si apre. Forte di questa convinzione mi preparai per questo evento epocale fino alla fatidica domenica di giugno.  Un vescovo non lo avevo mai visto ma immaginavo che fosse una sorta di santo incarnato in un superuomo pronto a elargire scosse protoniche come la spada di Luke Skywalker. La chiesa era piena di parenti e amici dei tanti “prescelti” come me. Noi ragazzi aspettavamo il momento di entrare in “scena” per godere e far godere dello spettacolo, quando udii questa frase: “Avete portato la busta con il soldi per il Vescovo?”. “Ma come – pensai – un sant’uomo la cui missione è quella di spargere la pura fede all over the world, un uomo scevro dal peccato e dalla vanità dei beni terreni, si fa pagare?” Tutto il castello costruito sul malinteso dei miei risultati scolastici, i quali non ero stato in grado di attribuirli al fatto che studiassi dodici ore al giorno, crollò miseramente quando, una volta al cospetto di quell’ometto in abito rosso che mi ungeva con l’olio di oliva le tempie, non ci fu nessun fuoco sacro a scendere per investirmi della fede tanto immeritata.. Non ho nostalgia di quei tempi ma di Nadia Cassini sì.

domenica 22 marzo 2020

Mio padre con la pizza in mano


Ero nel pieno di un sogno meraviglioso del quale avrei potuto narrare alla famiglia, una volta che mi fossi destato quando mio padre si è materializzato. Era comodamente seduto sopra una graticola accesa, mangiando una pizza con alici e pomodorini pachino. In genere il mio defunto genitore non mi appare neanche per darmi i numeri del lotto. Ho sempre pensato che sarebbe finito all’inferno. Non ho trovato inopportuna la sua intrusione all’interno della mia attività onirica quanto il fatto che stesse brandendo una pizza. Non ricordo esattamente quali fossero i suoi gusti preferiti da vivo. In ogni caso ho apprezzato la sua visita. Ultimamente, con il virus che impazza over the land peggio di un singolo di Bocelli, pensavo volesse rendermi partecipe di qualche messaggio da l’oltretomba stile piccolo veggente di Lourdes. “Figlio mio – ha esordito severo – hai voluto la partita iva? Adesso ti attacchi al cazzo”. Ho provato a controbattere “Papà ma non mi avevi educato, sin dalla più giovane età, all’indipendenza dai padroni, all’ottimismo dell’impresa privata, al libertinaggio della professione, all’onanismo dell’iniziativa artigianale, allo sprezzo del cartellino da timbrare?” “Tutte cazzate – mi ha risposto secco – l’inferno sembra l’anticamera dell’ufficio di un commercialista. Ogni libero imprenditore ha il suo girone ove sconta la pena in base alla colpa di cui si è macchiato in vita. Chiunque abbia osato non chinare il capo alla busta paga, è punito in eterno con le più atroci sofferenze. Giù , nel fondo dell’abisso, stanno i piccoli artigiani, quelli che han passato la vita nelle bottegucce, a mandare i “porchididdio” per ogni serranda alzata la mattina e abbassata la sera, i calzolai curvi sulle scarpe delle vecchie da risuolare, i tappezzieri con la poltrona graffiata dal gatto, i salumieri del quartiere con le fette di lonzino da mettere nel panino all’olio da centocinquanta lire, per lo studente obeso delle medie. La loro pena è inseguire cartamoneta da cinque euro che svolazza sospinta da un vento costante. Li vedo saltare, correre, fino al collasso, onde acchiappare il denaro. Li vedo, seduti sugli sgabelli di legno malamente inchiodati, aspettare che i clienti, saldino i lavori, dopo mesi e scoprire che le vecchie sono morte, i gatti sono scappati, gli obesi scolari sono dimagriti.” Nel frattempo mio padre aveva terminato la pizza e si stava accendendo una sigaretta. Non ha smesso di fumare neanche da cadavere. 

“Babbo, ma io ero felice del mio lavoro, Da principio ero incapace, molto efficiente ma poco efficace. Ora sono un mastro, di quelli buoni per farci le novelle. Mi inquadrano anche i tiggì, quando fanno i servizi sul genio italiano e le buone promesse dei candidati che lodano il lavoro patrio. Or son ventiquattro anni che spennello pareti, applico piastrelle e muri ergo. Coibento ergo sum.”  “ Sono ventiquattro anni che hai deciso di essere coglione – ha sbottato mio padre – lo sai che all’inferno non c’è neanche uno statale?” “ Ohibò- ho esclamato- ma cosa ne è stato dell’assenteismo, delle vacanze, delle agevolazioni, delle convenzioni per gli studi e le colonie a figli , nipoti, pronipoti, amanti, soggiorni agevolati more uxorio, saune e terme per sciatiche dovute a uso smodato dell’aria condizionata, buoni pasto, biglietti gratuiti per piste e posti al teatro, al cinema, ai parcheggi, mutui agevolati inps, inpdap, cgil cisl uil, ispes, inail, ina, cassa previdenza qui, cassa  integrazione lì, liquidazioni, pensioni, tredicesime, quattordicesime, quindicesime, crociere, bische, case di appuntamento, file al  banco carne e precedenza ai loculi del cimitero?”  “Proprio per questo – ha risposto papà – non hanno mandato una bestemmia a memoria ma hanno usato il calendario, a differenza tua, per segnare i giorni che li separavano dal buen retiro. Hanno  benedetto ogni giorno per il posto nel quale ponevano le terga, guardando beffardi, barbuti muratori inveire gli dei immortali, mentre masticavano il mezzo toscano spento in bocca, impastando cemento sotto la furia degli elementi sopra un’impalcatura. Sembravano spettatori muti in visita all’acquario, guardare attraverso il vetro bestie rare e feroci, consumarsi nelle botteghe, indurire le mani con i manici nuovi dei picconi, asfaltarsi i polmoni con le vernici al piombo. Lo spettacolo li divertiva ma essi benedivano il Creatore per averli sottratti dal morbo del farsi da sé.” “ Suvvia papà, avranno pur qualche scheletro nell’armadio – ho provato a controbbattere- una rata del mutuo non pagata, una vacanza fatta con il certificato medico, una pratica accelerata per il compare, una sbiarciatina sul pornazzo fatta dal computer dell’ufficio” La fiamma sotto al culo di mio padre si accese ancor di più “Cosa dici cretino! A chiunque abbia provato ad accusarli, loro han risposto : maanoiletassecelesottraggonoallafonte. Ciò è sufficiente per troncare ogni discorso. Tu, invece, che hai accettato i soldi in nero, non ti sei sottratto al malaffare. Hai provato pure a metterti un cognome albanese, per attrarre i tuoi clienti, figlio snaturato! Ora paga il tuo fio con l’inferno oppure pentiti, trovati un lavoro serio! Detto questo, mio padre è svanito dal sogno, lasciando il posto all’immagine di Conteil quale, tra un colpo di tosse e l’altro, urlava: “Chiudiamotutto, partiteiva mò so cazzi vostri”. In quel momento mi sono svegliato di soprassalto. Il telefonato ha squillato, era la banca : “Mi dovrebbe rientrare di euro cinque”. Ho provato a vedere se c’era rimasta qualche banconota volante fuori dalla finestra: era lì per strada,  a mezz’aria , un vecchio calzolaio la stava ancora inseguendo.

martedì 10 marzo 2020

Di questi tempi


Di questi tempi, per difendere la buona opinione che abbiamo di noi stessi, è necessario trovare un’idea alla quale aggrapparsi come il naufrago fa con la scialuppa. L’illusione è che questo “essere stupidi” che ci contraddistingue, quasi fosse medaglia d’onore contro il tedio del buon senso, possa essere definitivamente spazzato dalle priorità della vita le quali non consistano nella pratica dello “spritz” o dello “sniff”. Se dovessimo sovrapporre i negativi delle strade prima e dopo il coprifuoco, potremmo dedurre che la maggior parte delle persone in giro “prima”, non aveva un cazzo da fare. Ne l’efficienza degli spostamenti a vuoto consisteva l’apparenza alacre di sfaccendati senza meta e signore stanche di stirare panni. Si vive nel terrore che le vecchie nonne le quali mantengono la baracca dei nipoti con famiglia, spirino soffocate dal morbo orientale, interrompendo il flusso delle pensioni da sperperare dentro i distributori automatici di filtrini o i gratta e vinci strofinati compulsivamente davanti alle amichette ucraine. Mentre ci si tagga con spavalderia a biciclettare senza permesso nei comuni viciniori, con l’intento di andare in culo alla polizia, si ricacciano i mantra del “legger un buon libro” ben sapendo che il libro da leggere, si saprà se è buono solo dopo averlo letto. Intanto il conto si prosciuga a fare la fila uno alla volta per le scamorze e le persone che hanno paura anche solo a salutarti da lontano perché credono che, ad alzare il braccio, il contagio si diffonda anche dalle ascelle. Tutti si schifano di tutti e tutto viene schifato. Lo studio epidemiologico di una civiltà, non si effettua nei carotaggi sotto la calotta artica ma esaminando le vaschette delle noccioline degli aperitivi, dove decine di mani hanno ravanato con il gomito appoggiato al bancone. Anche Salvini appare più evanescente con il virus, utile solo in periodi di pace a stimolare pensionati statali, frustrati da incipiente “impotentia erigendi” e dal negro che ti fotte un euro per l’accendino scarico. Odiando tutti, vado solo, nonostante sia preferibile che stessi a debita distanza da me stesso. Se vedo qualcuno che si avvicina a dieci metri, tossisco rumorosamente, proiettando frutti del mio corpo sul marciapiede, onde evitare il “Comevatuttapposto?” No, non c’è nulla che stia a posto, va tutto di merda. Ecco, di questi tempi, eliminiamo il superfluo, torniamo all’essenziale: la merda, appunto.

domenica 1 marzo 2020

L'incoscienza di Zeno


L’esimio professor Jubatti, docente di lettere e storia presso il nostro pregiatissimo Liceo, avvolto nella sua nube di dopobarba dolciastro,  alle ore undici e trenta del 10 maggio  millenovecentottantasei, ci aveva ufficialmente rotto le balle.  Durante l’ennesima presa di coscienza di Zeno Cosini, del quale condividevamo solo il piacere della sigaretta,  ci rendemmo conto che la letteratura contemporanea serviva solo a far sì che gli angoli dei libri fossero buoni per farci passare le unghie sporche attraverso. Decidemmo di passare a l’azione. Il sottoscritto, Rocco “lu Gnè Gne”, Carlo detto anche “Acqua da li cujune” e Pierpaolo, stendemmo il filo della tenda posta a protezione degli enormi finestroni, in modo che potesse costituire un limite aereo per le nostre evoluzioni pallavolistiche. Così, mentre l’illustrissimo docente di cui sopra, continuava imperterrito a chiedersi se il fumatore triestino e Svevo fossero la stessa persona, noi quattro ci producevamo in un piccolo torneo di simil beach volley, con tanto di bestemmie. Jubatti non proferì verbo ma covò una vendetta silenziosa di cui fummo vittima durante lo scritto degli esami di maturità.  Stavamo sudando su Tacito, in quel giugno ventilato, brancolando su quattro righe di versione che non rendevano decifrabile il resto della consegna. I commissari di esame erano particolarmente distratti. Fu allora che il nostro prode membro interno, parve venirci in soccorso. Si avvicinò a noi quattro componenti del “quartetto” e suggerì la traduzione, illudendoci sul fatto che ci fossimo tratti da l’impaccio. Sotto l’occhiale dal vetro antiproiettili di quel ex allievo ufficiale di complemento, sposato con tanto di tocco dello spadino, sbarcato con ignominia da una lanciaerei solo per il fatto di aver festeggiato la sua promozione in un locale della costa ligure, tirando l’alba con quattro zoccole brasiliane e una bottiglie di Cristal versione magnum, si nascondeva il principe del male, il quale aveva architettato per noi “ribelli” la traduzione giusta per inchiodarci con un bel quattro allo scritto. 
Se avessi ascoltato “mammà” a quei tempi, mi sarei applicato a di più sulle depressioni di Svevo, lasciando perdere i miei brufoli da un chilo e le tecniche per lasciare fuori le scarpe a far loro prendere aria senza seccare le piante.  Fu solo davanti alla commissione, durante gli orali, che ci rendemmo conto del i frutti amari delle vendetta professorale. Neanche una giaculatoria ciceroniana avrebbe potuto colmare il sottovuoto cosmico della nostra media. Sbattemmo i denti, annaspammo, supercazzolammo, maledicendo gli dei immortali e le idi di marzo. Ci promossero solo perché avevamo rotto il cazzo e non ci volevano tra i piedi, l’anno seguente. Di quella mattina, ricordo il ritardo con il quale arrivai a scuola e Jubatti alla finestra che mi incitava a far presto per non aver la sconfitta due a zero a tavolino. Mi presentai con una paio di Clark rosse e blu, jeans scoloriti e la t-shirt di un gruppo rock tedesco, il look giusto per far raggrinzire il contorno labbra della professoressa di storia, una vecchia zitella teramana la quale, mi raccontava chi mi aveva preceduto, gradisse fare colazione con salamelle a base d’aglio.  Dell’esame ricordo poco ma quello che mi rimase impresso per il resto dei miei giorni fu quando, una volta terminata la prova e uscito da l’edificio, mi voltai per salutare la mia vecchia scuola con il gesto dell’ombrello: alla finestra c’era Jubatti il quale, ormai libero da ogni apparente impegno morale verso i suoi studenti, anticipo il mio saluto con un ghigno rivolto alla mia persona mentre con la mano, stringeva i suoi attributi, sventolandoli in mia direzione, quasi volesse esortare il sottoscritto ad usarli come appiglio.

sabato 14 dicembre 2019

Barbarism begins at home


Uscire da un social network dopo tanti anni è operazione dolorosa. Nel 2006, complice la facilità di accedere alla rete da parte di mio fratello, usavo passare il dopocena in camera sua davanti al computer. Avevo già avuto qualche approccio con internet nel 1996, collaborando con un ufficio comunale della mia città. Fu solo dieci anni dopo che mi avvicinai a questa neonata “piattaforma di socialità virtuale”. La possibilità di caricare foto, scambiare commenti su fatti o persone, condividere passioni o desideri, mi illuse sul fatto che avrei potuto parlare con i miei conoscenti o amici anche solo rimanendo seduto a casa davanti al pc. Credevo che il mondo intero mi leggesse e qualsiasi cosa avessi detto, avrebbe influenzato l’opinione pubblica quasi che fossi un oratore sul piedistallo ad arringare una folla immensa. Iniziai così a regolare la mia vita in base a ritmi che mi avrebbero consentito di ritagliare del tempo da dedicare alla rete. Dapprima con discrezione e goffaggine, in seguito con assiduità quasi maniacale. Con gli anni non stavo cambiando solo io ma anche quelli che come me, erano dentro il social.  Si andava sviluppando una sorta di luogo nel quali tutti, complice la mancanza di corporalità dei rapporti, avevano la possibilità di sfogare le proprie frustrazioni sugli altri: dalle insoddisfazioni sentimentali ai problemi di lavoro e di salute, alle difficoltà economiche dovute alla crisi che sarebbe esplosa alla fine del decennio. La mancanza di corporalità e quindi l’impossibilità di provare dolore fisico, spingeva le persone ad andare oltre il normale dibattito civile, sicuri di non essere colpiti o feriti. Una sorta di invulnerabilità da schermo che spingeva a disertare il lettino dello psicologo per risolvere tensioni e incomprensioni contro la sagome-bersaglio degli altri. Nonostante ne percepissi il pericolo, per un certo periodo, mi sono fatto coinvolgere in discussioni sterili nelle quali, per quanto apportassi contributi interessanti e ne ricevessi altrettanti, nessuno cambiava idea, nessuno era capace di confessare l’errore o il malinteso, spingendosi verso la pratica della negazione della verità pur di non essere perdente. Ci fu il periodo dell’autoscatto che accrebbe il proprio io, spazio atemporale nel quale proiettare la propria immagine filtrata dallo specchio di Dorian Gray. Piacersi, amarsi, venerare la propria opinione, cercando di essere migliori della propria intima natura, terrorizzati dallo scoprire sul tavolo le proprie debolezze, i propri limiti, i propri no. Così il tempo è passato, rinunciando a qualche passeggiata, un buon libro, un centimetro in più nell’altezza dei figli, una ruga che veniva scavata ai lati della bocca. Ci sono stati momenti piacevoli nei quali, ho ritrovato lontanissimi amici con i quali mi impacchettavo nelle cabine telefoniche per dare appuntamento agli altri il sabato pomeriggio. Qualcuno mi ha mandato foto di cose che avevo dimenticato, di persone scomparse, di avventure vissute veramente. Tutto si è appiattito nell’abitudine allo stupore, nel qualunquismo del dolore, nell’assuefazione alla vanità scomposta. Ho vinto e ho perso un’elezione sulla rete. Ho perso l’umanità sulla rete, sono stato sempre sul pezzo nella rete. Un giorno, dopo aver passato a sguazzare nel grottesco dei commenti, nell’analfabetismo come caratteristica vincente, nell’allarmismo bigotto, nella deitalianizzazione dello scritto, ho capito che, quando sarei stato troppo vecchio, non avrei potuto raccontare agli altri cosa avevo fatto in questi ultimi quattordici anni  ma come li avevo passati stando davanti al computer. Ho detto basta, sono uscito senza salutare, ho lasciato i miei mal di stomaco nell’account. Ho deciso di ritornare alle mie pagine sul blog dove ognuno e nessuno è il benvenuto.

domenica 24 novembre 2019

Le colpe dei figli ricadano sui padri



Sono le ore diciotto. Siamo arrivati alla fine di marzo. Ha smesso di piovere da poco e mi trovo in fila, con il mio furgone, all’ingresso del paesotto che per comodità sigleremo per O. Il mio stereo quasi a palla produce vibrazioni profonde nella carrozzeria del mio van, causate dal basso di Jaco Pastorius. Aspetto distrattamente che la fila di auto proceda. Davanti a me uno scooter, guidato da una ragazza, è posizionato sulla destra. Allo scoccare del verde, la fila avanza con un sobbalzo. La ragazza accelera nervosamente ma la strada resa viscida dalla pioggia , fa sbandare il motorino. La ragazza perde il controllo e finisce a terra. Io mi trovo immediatamente dietro e assisto a tutta la scena con un misto di sorpresa e disappunto. La ragazza si rialza ma è visibilmente dispiaciuta. Istintivamente scendo dal furgone per prestarle soccorso. La giovane non ha riportato danni ma piange amaramente guardando lo scooter. Noto subito che la motoretta è nuova fiammante e questo costituisce il motivo del suo pianto. Le chiedo se ha bisogno di aiuto e tento di rialzare il ciclomotore. “Lasci stare quella moto”! Dalle mie spalle odo una voce in tono di comando e uno scalpiccio di tacchi in cuoio. Mi giro. Un ometto, baffi riportino e occhiale di foggia antica, sta correndo verso la scena dell’incidente mentre le altre auto passano oltre, curiosando noiosamente. “La stavo solo aiutan…” Non riesco a finire la frase “ Lei stia zitto!” mi apostrofa il tipo, rivolgendosi alla ragazza “Cosa è successo, signorina”? Il tizio interroga la giovane ma lei piange e riesce solo a bofonchiare qualcosa. Rimango senza parole e non mi rendo conto subito della situazione” Io…”, vengo nuovamente interrotto. “Non l’ho interrogata, deve essere la ragazza a dirmi cosa è successo veramente!”. Poi si rivolge nuovamente a lei “ Su, mi dica, sono un assicuratore”. In questo momento comprendo quale ipotesi, questo ometto, venuto dal nulla, abbia potuto formulare nella sua testa: Io, individuo fuori dall’aspetto standard di persona di cui fidarsi, ho causato la caduta della giovane dallo scooter e ora sto approfittando per  inquinare la scena del sinistro rialzando la suddetta moto e lasciando la giovane al suo destino. Per fortuna, la ragazza ha il buon senso di rispondere al tizio. Discolpandomi completamente. Aspetto invano delle scuse ma ricevo solo le sue spalle. Ho troppa fretta per acchiapparlo per il bavero e insegnarli l’educazione, sono impietrito, non so cosa dire. La scena in sé stessa ha occupato il tempo di un minuto ma le azioni e le intenzioni mi hanno raccontato tutta la vita di quell’uomo e come egli si ponga nei confronti degli altri. Mentre mi rimetto alla guida, allontanandomi, guardo lo specchietto retrovisore per sincerarmi che la ragazza stia bene. L’uomo le è ancora vicino. A questo punto mi viene il dubbio che la mia innocenza possa trasformarsi in una colpa. Quell’uomo, quel piccolo essere dal riporto leccato, potrebbe spingere oltre il limite la sua attitudine a ricercare la situazione nella quale sguazzare, me lo immagino dire alla ragazza: “Mettiamoci d’accordo, io sono assicuratore, posso testimoniare, dichiariamo che quel furgone , con una mossa azzardata, ti ha fatto sbandare e diamo la colpa a quel barbuto con gli orecchini. Secondo me è disonesto già dall’aspetto, forse usa droga e maltratta figli e moglie, forse è un ladro. Vedrai, caveremo soldi dalla sua assicurazione. Si vede dalla faccia quanto sia colpevole geneticamente.” No, la mia mania di persecuzione non può spingersi oltre. Forse sono colpevole veramente, quel tizio ha ragione. Non avrei dovuto fermarmi, avrei dovuto farmi i cazzi miei, perché c’è sempre un assicuratore fermo ad accorrere sulla scena dell’incidente per dare la colpa a qualcuno. Adesso torno indietro e mi invento qualcosa tipo: in effetti l’ho fatta cadere io la ragazza e l’ho minacciata in modo che lei desse la colpa dell’incidente all’asfalto bagnato e alla sua imperizia. L’ho fatto perché avevo fretta, non avevo la patente in regola oppure stavo trasportando della droga ed un contrattempo avrebbe rovinato i miei piani criminosi.
Potrei vedere così, il volto dell’assicuratore illuminarsi, per il fatto che aveva ragione a non fidarsi, perché quelli con il mio aspetto sono tutti dei poco di buono. Avrebbe chiamato i carabinieri per verbalizzare la mia confessione ed essere sempre più convinto che la sua condotta fosse quella giusta. Sarebbe stata la glorificazione della sua faccia schifata quando mi ha apostrofato. Lo vedo, seduto davanti al televisore, vomitare improperi contro il malcostume di quelli come me, con l’aspetto di sovversivi, pronti a sfidare l’ordine costituito in virtù del loro aspetto, gente che non oserebbe mai celare la calvizie come fa lui, sotto un riportino appiccicato sulle tempie con il gel, uomini pronti ad ostentare un’oscena calvizie, una scoppatura eversiva.Per fortuna sono oltre l’incrocio e l’impossibilità di poter fare un’inversione a “u” mi salva dal mio proposito suicida. Immagino l’assicuratore dagli occhiali alla Rick Moranis, tenere sulle sue ginocchia i suoi figli ed insegnar loro i rudimenti della diffidenza verso il prossimo, dell’andare in culo agli altri per avere successo, della sopraffazione, del saper riconoscere l’abominio da un abito, un pelo fuori posto, una maglia peccaminosa, una scarpa pornografica. L’assicuratore è un Tognazzi in un episodio di un film di Risi: “Educazione sentimentale”. All’improvviso, il suo volto mi riconduce alla sua prole! Sì, io conosco i suoi figli, in particolar modo una, la quale ha intrapreso una carriera politica con i mezzi più squallidi. Come riavvolgessi un nastro, tutto diventa più coerente con quello che conosco di questa persona quasi che, conoscendo la sua progenie, avessi dovuto prevedere il comportamento del padre. Se avessi avuto più spirito e più memoria, avrei potuto girarmi, dopo l’incidente e prevedere, dal rumore dei suoi passi e dal suo riporto, quello che mi avrebbe detto. Lo avrei dovuto anticipare, urlando: “So chi è sua figlia quindi lei ora mi dirà delle cose di merda!” Sarebbe rimasto basito, muto, in mezzo alla strada, distrutto da una verità la quale invece si è tramutata in menzogna nei miei confronti. La colpa di un figlio sarebbe potuta ricadere, per la prima volta, sul padre.

mercoledì 9 ottobre 2019

La settimana delle uova


Essere dei poveri, di questi tempi, è un lusso proprio di coloro che vogliono provare il brivido della caducità. Non si tratta di essere poveri come nei quadri del verismo dove, madri morenti allattano al seno bimbi smunti, mentre il padre, alla porta della baracca, si attacca impudicamente ad un fiasco di vino. Oggi la povertà ha un suo stile, possiede linguaggi, che possono essere utilizzati a proprio favore, trasformando un povero vero, in un uomo assolutamente anonimo all’interno di un gruppo, nell’illusione di condividere lo stesso tenore di vita. In questo tempo sospeso, tra gli altri, un povero come me, si muove, sfruttando al massimo tutte le risorse che ha perché la sua sciatteria sia considerata un atteggiamento neodandista, talmente portato all’estremo da risultare invidiato da persone facoltose ma prive di qualsiasi qualità umana. Ho fatto il classico, questo può deporre a mio favore quando si tratta di ricordare passaggi di testi classici, da recitare rigorosamente in greco antico. La cosa non funziona quando vado al cementificio perché, in genere, il mio interlocutore, un magazziniere con l’occhio iniettato di sangue per l’abuso di pessimo vino da discount, preferisce vantarsi del suo novissimo calendario da camionista nel quale, la pratica della depilazione femminile, è cosa misconosciuta. Per mimetizzare le povertà, con gli altri, si può ricorrere alla boutique cinese. Basta acquistare svariati capi, per pochi euro. Si otterrà, dopo qualche tempo, la possibilità di sfoggiare indumenti sempre diversi ma si riempirà l’armadio di inutile ciarpame il quale, a causa del pessimo tessuto, anche dopo lavato, continuerà a puzzare di calzini sudati. Le caratteristiche dei locali, oggi, fanno sì che io possa rimanere fuori da essi, per ore, senza per questo consumare nulla, approfittando per chiacchierare con qualche amico. L’importante è che la gente mi veda. Tuttavia, è in casa, che la povertà non può essere nascosta. Il frigorifero è la bocca della verità, che si spalanca impietosa, su di me e sui miei familiari, ogni volta che le finanze languono. Le prime cose che si notano, nel frigorifero del povero, sono due mele rinsecchite e mezzo limone, nello scompartimento frutta. Di seguito, sullo sportello, alcuni barattoli smezzati, dalla maionese ad un recipiente nel quale, l’ultima alice è pietrificata nell’olio addensato e giallastro. Su tutto, la cosa più importante: le uova.
 Questo alimento può rappresentare la salvezza per una famiglia di quattro persone, quando viene gestito in larghezza come nel caso di una frittata. Non importa lo spessore, la cosa essenziale è l’estensione dello spicchio spettante ad ogni commensale. E’ dimostrato, infatti, che l’occhio riesce ad inviare la sensazione di sazietà allo stomaco, quando viene ingannato. Se nel frigo c’è un cespo di lattuga, il piatto è pieno.