giovedì 25 settembre 2014

Pissin' in a bottle



Non parlo mai del mio lavoro. Non c’è niente di speciale, in fondo. E’ un ‘attività che ho intrapreso, agli inizi per divertimento e per tirar fuori qualche soldo che mi consentisse di tirare avanti, nell’attesa della laurea. Con gli anni si è sostituito alle mie ambizioni da architetto, per assumere un ruolo centrale nel sostentamento della famiglia che si stava formando. E’ stato facile iniziare come ho fatto io. Una scala, due pennelli, pinza e martello e la voglia di imbrattarsi di vernice. Poi è arrivata la fase “professionale”, quella in cui si seguono corsi, si prende la partita Iva, si va in banca a chiedere prestiti per il furgone, per i trapani, per i trabattelli, per saldare i fornitori. Ho pagato personalmente gli errori, imparando da essi, continuando a sbagliare. Mi piaceva il mio lavoro. E’ un po’ come un’amante. Dapprima la passione, l’applicazione, la dedizione, poi la routine, il lavorare di “mestiere”. Ora questa attività mi procura amarezze. Non è più ciò che speravo. Paradossalmente, all’esperienza, la quale mi permette di essere “efficace” più che “efficiente” , non corrisponde un miglior tenore di vita, anzi.  Ora che riesco a fare le cose a "regola d'arte", senza quegli sforzi che mi tenevano in cantiere fino alla domenica, qualche anno fa, sento che c’è il vuoto. L’unica cosa che vivo con piacere, del mio lavoro, è la possibilità di entrare nell’animo dei miei clienti, di studiarne, la psicologia, le nevrosi, i gusti, talvolta anche i piccoli drammi familiari. Negli oggetti posati sugli scaffali, nei quadri, nelle piccole cose sistemate in cucina, nella disposizione dei letti, leggo la vita delle persone. Niente è più rivelatore dell’intimità umana, quanto ciò che è contenuto in un appartamento. Spesso maledico la mia sorte quando, realizzo cose stupende, le quali non potrò mai replicare in una casa mia, perché vivo in affitto. In questo senso, la mia amarezza sale in proporzione alla  qualità di ciò che mi viene richiesto e di cui non godrò mai i frutti. A parte qualche foto, sono costretto a rimuovere dalla mia memoria il senso di compiuto , di fresco, di comodo, di bello, ogni volta che riconsegno un appartamento o vedo il sorriso sul volto dei miei clienti. A volte ci sono problemi. Se è vero che riesco a decifrare la psicologia di chi mi commissiona un lavoro,  ogni lavoro allo stesso tempo,  mette a nudo i miei limiti e mi indica cosa posso e so fare e cosa non riesco a fare bene. Quello che riuscirò a ricordare veramente, di ciò che ho creato, prima di lasciare questa terra,  sarà la quantità di bottiglie piene di urina di cui ho disseminato i cantieri, nel corso degli ultimi venti anni. Non è un sorta di turba sessuale od una pratica feticista: è pura necessità. Mi è capitato di lavorare in cantieri nei quali non fosse possibile usufruire dei servizi igienici, per molte ragioni: sia perché i sanitari non erano ancora stati montati, sia perché si trattava di case isolate. Tuttavia una volta si è presentata una situazione differente. Ho esaminato superficialmente il cliente, scambiando la sua ossessività per zelo. Sbagliavo. Si è trattato di una casalinga con manie igieniste e nevrosi compulsive. I nodi sono venuti al pettine, alla prima richiesta di poter usufruire delle “infrastrutture igieniche”, la signora, con piglio fermio e deciso, mi ha negato la possibilità di accesso alle “facilities” , senza addurre motivazioni plausibili. Non esistendo pubblici esercizi nelle vicinanze e lavorando in altra città, ho tentato di “contenere” il problema il più possibile ma, solo una voce insistente ha iniziato a prendere corpo nella mia mente: quella di mia nonna. Nonna è stata per decenni una “stitica” da record ma una cosa spesso mi diceva: “ se non cachi, cacherai, ma se non pisci, creperai”. Così ho deciso. Dovendo eseguire lavori per un mese in quell’appartamento, senza inimicarmi i proprietari e senza potermi allontanare dal luogo di lavoro, ho iniziato a pisciare regolarmente nelle bottiglie dell’acqua minerale, dopo averle bevute. Risultato alla consegna dei lavori e dell’assegno da parte della signora, dodici bottiglie da un litro e mezzo di urina di pittore. Alle vive proteste del cliente, ho risposto con una sola frase: quella che mi ripeteva nonna Velia.