domenica 22 marzo 2020

Mio padre con la pizza in mano


Ero nel pieno di un sogno meraviglioso del quale avrei potuto narrare alla famiglia, una volta che mi fossi destato quando mio padre si è materializzato. Era comodamente seduto sopra una graticola accesa, mangiando una pizza con alici e pomodorini pachino. In genere il mio defunto genitore non mi appare neanche per darmi i numeri del lotto. Ho sempre pensato che sarebbe finito all’inferno. Non ho trovato inopportuna la sua intrusione all’interno della mia attività onirica quanto il fatto che stesse brandendo una pizza. Non ricordo esattamente quali fossero i suoi gusti preferiti da vivo. In ogni caso ho apprezzato la sua visita. Ultimamente, con il virus che impazza over the land peggio di un singolo di Bocelli, pensavo volesse rendermi partecipe di qualche messaggio da l’oltretomba stile piccolo veggente di Lourdes. “Figlio mio – ha esordito severo – hai voluto la partita iva? Adesso ti attacchi al cazzo”. Ho provato a controbattere “Papà ma non mi avevi educato, sin dalla più giovane età, all’indipendenza dai padroni, all’ottimismo dell’impresa privata, al libertinaggio della professione, all’onanismo dell’iniziativa artigianale, allo sprezzo del cartellino da timbrare?” “Tutte cazzate – mi ha risposto secco – l’inferno sembra l’anticamera dell’ufficio di un commercialista. Ogni libero imprenditore ha il suo girone ove sconta la pena in base alla colpa di cui si è macchiato in vita. Chiunque abbia osato non chinare il capo alla busta paga, è punito in eterno con le più atroci sofferenze. Giù , nel fondo dell’abisso, stanno i piccoli artigiani, quelli che han passato la vita nelle bottegucce, a mandare i “porchididdio” per ogni serranda alzata la mattina e abbassata la sera, i calzolai curvi sulle scarpe delle vecchie da risuolare, i tappezzieri con la poltrona graffiata dal gatto, i salumieri del quartiere con le fette di lonzino da mettere nel panino all’olio da centocinquanta lire, per lo studente obeso delle medie. La loro pena è inseguire cartamoneta da cinque euro che svolazza sospinta da un vento costante. Li vedo saltare, correre, fino al collasso, onde acchiappare il denaro. Li vedo, seduti sugli sgabelli di legno malamente inchiodati, aspettare che i clienti, saldino i lavori, dopo mesi e scoprire che le vecchie sono morte, i gatti sono scappati, gli obesi scolari sono dimagriti.” Nel frattempo mio padre aveva terminato la pizza e si stava accendendo una sigaretta. Non ha smesso di fumare neanche da cadavere. 

“Babbo, ma io ero felice del mio lavoro, Da principio ero incapace, molto efficiente ma poco efficace. Ora sono un mastro, di quelli buoni per farci le novelle. Mi inquadrano anche i tiggì, quando fanno i servizi sul genio italiano e le buone promesse dei candidati che lodano il lavoro patrio. Or son ventiquattro anni che spennello pareti, applico piastrelle e muri ergo. Coibento ergo sum.”  “ Sono ventiquattro anni che hai deciso di essere coglione – ha sbottato mio padre – lo sai che all’inferno non c’è neanche uno statale?” “ Ohibò- ho esclamato- ma cosa ne è stato dell’assenteismo, delle vacanze, delle agevolazioni, delle convenzioni per gli studi e le colonie a figli , nipoti, pronipoti, amanti, soggiorni agevolati more uxorio, saune e terme per sciatiche dovute a uso smodato dell’aria condizionata, buoni pasto, biglietti gratuiti per piste e posti al teatro, al cinema, ai parcheggi, mutui agevolati inps, inpdap, cgil cisl uil, ispes, inail, ina, cassa previdenza qui, cassa  integrazione lì, liquidazioni, pensioni, tredicesime, quattordicesime, quindicesime, crociere, bische, case di appuntamento, file al  banco carne e precedenza ai loculi del cimitero?”  “Proprio per questo – ha risposto papà – non hanno mandato una bestemmia a memoria ma hanno usato il calendario, a differenza tua, per segnare i giorni che li separavano dal buen retiro. Hanno  benedetto ogni giorno per il posto nel quale ponevano le terga, guardando beffardi, barbuti muratori inveire gli dei immortali, mentre masticavano il mezzo toscano spento in bocca, impastando cemento sotto la furia degli elementi sopra un’impalcatura. Sembravano spettatori muti in visita all’acquario, guardare attraverso il vetro bestie rare e feroci, consumarsi nelle botteghe, indurire le mani con i manici nuovi dei picconi, asfaltarsi i polmoni con le vernici al piombo. Lo spettacolo li divertiva ma essi benedivano il Creatore per averli sottratti dal morbo del farsi da sé.” “ Suvvia papà, avranno pur qualche scheletro nell’armadio – ho provato a controbbattere- una rata del mutuo non pagata, una vacanza fatta con il certificato medico, una pratica accelerata per il compare, una sbiarciatina sul pornazzo fatta dal computer dell’ufficio” La fiamma sotto al culo di mio padre si accese ancor di più “Cosa dici cretino! A chiunque abbia provato ad accusarli, loro han risposto : maanoiletassecelesottraggonoallafonte. Ciò è sufficiente per troncare ogni discorso. Tu, invece, che hai accettato i soldi in nero, non ti sei sottratto al malaffare. Hai provato pure a metterti un cognome albanese, per attrarre i tuoi clienti, figlio snaturato! Ora paga il tuo fio con l’inferno oppure pentiti, trovati un lavoro serio! Detto questo, mio padre è svanito dal sogno, lasciando il posto all’immagine di Conteil quale, tra un colpo di tosse e l’altro, urlava: “Chiudiamotutto, partiteiva mò so cazzi vostri”. In quel momento mi sono svegliato di soprassalto. Il telefonato ha squillato, era la banca : “Mi dovrebbe rientrare di euro cinque”. Ho provato a vedere se c’era rimasta qualche banconota volante fuori dalla finestra: era lì per strada,  a mezz’aria , un vecchio calzolaio la stava ancora inseguendo.

martedì 10 marzo 2020

Di questi tempi


Di questi tempi, per difendere la buona opinione che abbiamo di noi stessi, è necessario trovare un’idea alla quale aggrapparsi come il naufrago fa con la scialuppa. L’illusione è che questo “essere stupidi” che ci contraddistingue, quasi fosse medaglia d’onore contro il tedio del buon senso, possa essere definitivamente spazzato dalle priorità della vita le quali non consistano nella pratica dello “spritz” o dello “sniff”. Se dovessimo sovrapporre i negativi delle strade prima e dopo il coprifuoco, potremmo dedurre che la maggior parte delle persone in giro “prima”, non aveva un cazzo da fare. Ne l’efficienza degli spostamenti a vuoto consisteva l’apparenza alacre di sfaccendati senza meta e signore stanche di stirare panni. Si vive nel terrore che le vecchie nonne le quali mantengono la baracca dei nipoti con famiglia, spirino soffocate dal morbo orientale, interrompendo il flusso delle pensioni da sperperare dentro i distributori automatici di filtrini o i gratta e vinci strofinati compulsivamente davanti alle amichette ucraine. Mentre ci si tagga con spavalderia a biciclettare senza permesso nei comuni viciniori, con l’intento di andare in culo alla polizia, si ricacciano i mantra del “legger un buon libro” ben sapendo che il libro da leggere, si saprà se è buono solo dopo averlo letto. Intanto il conto si prosciuga a fare la fila uno alla volta per le scamorze e le persone che hanno paura anche solo a salutarti da lontano perché credono che, ad alzare il braccio, il contagio si diffonda anche dalle ascelle. Tutti si schifano di tutti e tutto viene schifato. Lo studio epidemiologico di una civiltà, non si effettua nei carotaggi sotto la calotta artica ma esaminando le vaschette delle noccioline degli aperitivi, dove decine di mani hanno ravanato con il gomito appoggiato al bancone. Anche Salvini appare più evanescente con il virus, utile solo in periodi di pace a stimolare pensionati statali, frustrati da incipiente “impotentia erigendi” e dal negro che ti fotte un euro per l’accendino scarico. Odiando tutti, vado solo, nonostante sia preferibile che stessi a debita distanza da me stesso. Se vedo qualcuno che si avvicina a dieci metri, tossisco rumorosamente, proiettando frutti del mio corpo sul marciapiede, onde evitare il “Comevatuttapposto?” No, non c’è nulla che stia a posto, va tutto di merda. Ecco, di questi tempi, eliminiamo il superfluo, torniamo all’essenziale: la merda, appunto.

domenica 1 marzo 2020

L'incoscienza di Zeno


L’esimio professor Jubatti, docente di lettere e storia presso il nostro pregiatissimo Liceo, avvolto nella sua nube di dopobarba dolciastro,  alle ore undici e trenta del 10 maggio  millenovecentottantasei, ci aveva ufficialmente rotto le balle.  Durante l’ennesima presa di coscienza di Zeno Cosini, del quale condividevamo solo il piacere della sigaretta,  ci rendemmo conto che la letteratura contemporanea serviva solo a far sì che gli angoli dei libri fossero buoni per farci passare le unghie sporche attraverso. Decidemmo di passare a l’azione. Il sottoscritto, Rocco “lu Gnè Gne”, Carlo detto anche “Acqua da li cujune” e Pierpaolo, stendemmo il filo della tenda posta a protezione degli enormi finestroni, in modo che potesse costituire un limite aereo per le nostre evoluzioni pallavolistiche. Così, mentre l’illustrissimo docente di cui sopra, continuava imperterrito a chiedersi se il fumatore triestino e Svevo fossero la stessa persona, noi quattro ci producevamo in un piccolo torneo di simil beach volley, con tanto di bestemmie. Jubatti non proferì verbo ma covò una vendetta silenziosa di cui fummo vittima durante lo scritto degli esami di maturità.  Stavamo sudando su Tacito, in quel giugno ventilato, brancolando su quattro righe di versione che non rendevano decifrabile il resto della consegna. I commissari di esame erano particolarmente distratti. Fu allora che il nostro prode membro interno, parve venirci in soccorso. Si avvicinò a noi quattro componenti del “quartetto” e suggerì la traduzione, illudendoci sul fatto che ci fossimo tratti da l’impaccio. Sotto l’occhiale dal vetro antiproiettili di quel ex allievo ufficiale di complemento, sposato con tanto di tocco dello spadino, sbarcato con ignominia da una lanciaerei solo per il fatto di aver festeggiato la sua promozione in un locale della costa ligure, tirando l’alba con quattro zoccole brasiliane e una bottiglie di Cristal versione magnum, si nascondeva il principe del male, il quale aveva architettato per noi “ribelli” la traduzione giusta per inchiodarci con un bel quattro allo scritto. 
Se avessi ascoltato “mammà” a quei tempi, mi sarei applicato a di più sulle depressioni di Svevo, lasciando perdere i miei brufoli da un chilo e le tecniche per lasciare fuori le scarpe a far loro prendere aria senza seccare le piante.  Fu solo davanti alla commissione, durante gli orali, che ci rendemmo conto del i frutti amari delle vendetta professorale. Neanche una giaculatoria ciceroniana avrebbe potuto colmare il sottovuoto cosmico della nostra media. Sbattemmo i denti, annaspammo, supercazzolammo, maledicendo gli dei immortali e le idi di marzo. Ci promossero solo perché avevamo rotto il cazzo e non ci volevano tra i piedi, l’anno seguente. Di quella mattina, ricordo il ritardo con il quale arrivai a scuola e Jubatti alla finestra che mi incitava a far presto per non aver la sconfitta due a zero a tavolino. Mi presentai con una paio di Clark rosse e blu, jeans scoloriti e la t-shirt di un gruppo rock tedesco, il look giusto per far raggrinzire il contorno labbra della professoressa di storia, una vecchia zitella teramana la quale, mi raccontava chi mi aveva preceduto, gradisse fare colazione con salamelle a base d’aglio.  Dell’esame ricordo poco ma quello che mi rimase impresso per il resto dei miei giorni fu quando, una volta terminata la prova e uscito da l’edificio, mi voltai per salutare la mia vecchia scuola con il gesto dell’ombrello: alla finestra c’era Jubatti il quale, ormai libero da ogni apparente impegno morale verso i suoi studenti, anticipo il mio saluto con un ghigno rivolto alla mia persona mentre con la mano, stringeva i suoi attributi, sventolandoli in mia direzione, quasi volesse esortare il sottoscritto ad usarli come appiglio.