giovedì 14 marzo 2019

La nuotata del bradipo


Ho sempre avuto una sorta di trasporto per due animali in particolare: l’elefante e l’asino. L’elefante è l’animale che più di tutti rappresenta per me, il tempo. L’asino invece ha un valore affettivo. Sull’asino rivedo i miei bisnonni e l’origine della mia famiglia. Quando vedo un ciuco provo una sorta di raptus. Se sono in macchina o in bici, devo fermarmi. Nel caso di questi due animali, il mio corpo si comporta stranamente: mi estraneo dal contesto, sono tutto concentrato sull’animale. Nulla è più importante del cercare un contatto. Per l’asino è facile: ultimamente molte case di campagna hanno iniziato ad averne uno. Incontrare un elefante è più complicato, l’ultimo l’ho visto allo zoo di Napoli e non era per nulla contento della sua condizione. In ogni caso, ho provato a cercare delle ragioni per le quali io sarei così attratto da queste bestie. Non ho nulla che mi accomuna nell’atteggiamento e nel carattere. Solo di recente ho trovato un quadrupede che ha cambiato il mio modo di pensare nel profondo: il bradipo. Mentre facevo dello zapping, ho trovato un documentario che parlava delle grandi città del sud America, così vicine alle foreste e di come, talvolta, la fauna selvatica, potesse occupare alcuni territori fortemente antropizzati, subendone le conseguenze. Si parlava appunto del bradipo e di una associazione che li salva, quando attraversano, a rischio della vita, delle strade fortemente trafficate. 
Chi ha visto un bradipo conosce la sua proverbiale lentezza e l’impossibilità di reagire velocemente ai pericoli imminenti. Il bradipo è una sorta di drugo, che vive la sua dimensione di animale lento e assolutamente vulnerabile. Qualsiasi altro essere vivente , nei millenni, avrebbe potuto trasformare le sue debolezze, per istinto di sopravvivenza. Il bradipo no. Quello che mi ha colpito di più, nel documentario, è stata una ripresa fatta dal fondo di un fiume impetuoso, di un bradipo che nuotava da una sponda all’altra. Sono rimasto estasiato dall’eleganza distaccata delle sue bracciate lentissime, con queste zampe dotate di unghie enormi. Il bradipo era totalmente impermeabile all’urgenza del cercare una salvezza. Nuotava quasi al rallentatore con una regolarità ed una calma, dovuta alla sua natura di animale quasi rassegnato ad una probabile sconfitta da parte degli elementi naturali. Non c’era alcuna urgenza: l’animale era cosciente della sua essenza di essere indifeso e ostinatamente praticava la lentezza come inevitabile, un piacere nel lasciarsi andare a qualsiasi destino gli si sarebbe prospettato con quella condotta al limite dell’inerzia. La nuotata di quel bradipo somigli alla mia vita: ho deciso che gli sforzi, gli affanni non siano utili se la nostra natura non è destinata a sopportare determinati ritmi. Così nuoto nel fiume in piena, sperando di cogliere il meglio nella lentezza, nella pausa che mi permette di osservare piccoli cambiamenti del cielo o il sapore di un vino fresco da bere. Se suona il telefono e ho appena acceso un sigaro, preferisco gustare la prima boccata piuttosto che rispondere. Voglio sentire l’umido della sera, quando vado a correre magari rallentando il mio passo, lasciando che la corsa sia solo il contorno di un momento da ricordare. Lavoro passando il pennello una volta in più, quando la vernice fa rumore sul muro e colore riempie la parete. Come il bradipo sull’albero, resto aggrappato a questa vita, intuendo che non sarà ancora per molto. Tuttavia voglio tagliare i miei giorni a fondo come si fa con un cocomero ghiacciato pregustandone il sapore, nel momento in cui le labbra si stringono sulla polpa.

lunedì 4 marzo 2019

L'accendino rosa

Ho un vizio, tra gli innumerevoli, che mi porto dietro da oltre vent’anni. E’ un vizio ad intermittenza, nel senso che ne rimango vittima per alcuni mesi salvo poi starne lontano per altrettanto tempo: mi piace fumare i toscani. All’inizio lo consideravo più un vezzo, dato che il modo di fumare un sigaro richiede una certa dimestichezza, essendo totalmente diverso dalla sigaretta. Durante i primi anni, quelli della passione pura, aderii persino ad un sedicente club del Toscano, andando in giro per l’Abruzzo a sfumacchiare insieme ad altri, accompagnando il tutto con distillati e cioccolati. Arrivavano gli esperti dalle concerie lucchesi, a spiegarci lavorazioni delle foglie di tabacco, le stagionature e gli abbinamenti con gli alcolici. Per farla breve: una setta di crapuloni nella quale mi confondevo bellamente, nonostante non avessi una lira già da quei tempi lontani. L’illusione di essere un manager rampante con tanto di barca ormeggiata al porto di Pescara e il maseratino per andare a sciare a Chamonix. Facevo i salti mortali per nascondere la mia Ford station wagon di seconda mano, nei parcheggi dei locali adibiti a cotali riunioni del vizio. Spesso mi colpiva un aspetto, che avevo notato in altri consessi quali le fiere dei materiali edili: la donna utilizzata come hostess di bella presenza, la quale andava in giro per i tavoli a dispensare i sigari scelti all’uopo per procedere alla degustazione. I più smaliziati nell’accettare quei sigari, già formulavano improbabili congiunzioni carnali con le suddette ragazze, in un clima nel quale l’odore del testosterone superava quello pur deciso del Toscano. Ero colpito dal capitolo riguardante il mezzo per accendere il sigaro: mai utilizzare gli accendini a benzina che avrebbero impregnato il sigaro irrimediabilmente, preferibili erano i fiammiferi, ma bisognava aspettare che la fiamma arrivasse al legno del bastoncino per evitare che la prima fumata sapesse di zolfo. Un buon compromesso era dato dagli accendini a gas, visti senza infamia ne’ lode dai puristi. Il sigaro ha la forma del pene: nel vizio del fumo si concentra un insieme di visioni, desideri, aspettative e soprattutto attese che caratterizzano una combustione la quale ha inizio e , irrimediabilmente, un termine, proprio come nell’atto sessuale. Non ci ho mai pensato veramente in questi ventidue anni. Ho vissuto alcuni momenti belli della mia vita soprattutto perché sapevo che dopo avrei acceso un bel Toscano a completamento della splendida giornata. Dopo il periodo della passione è arrivato quello della consapevolezza e dell’abitudine, tempo nel quale dovevo decidere orari e qualità della mia fumata: un Toscano Garibaldi o extravecchio poteva andare se avevi iniziato la giornata con focaccia e prosciutto, un Antico era più gradito dopo un pasto. Avevo aperto una parentesi con i cubani ma i sigari sudamericani hanno bisogno di lentezza e ozio,  come se tenere in bocca un Macanudo ti facesse uscire da un romanzo di Amado. I toscani li preferivo, perché potevo lavorare in mezzo alla polvere con il mozzicone spento tra le labbra, una sorta di antidoto alla sporcizia, al puzzo delle vernici, agli schizzi di cemento, alla segatura. Guardavo con una sorta di venerazione, le fotografie contenuti nei libri sul Toscano che avevo collezionato durante gli anni, mi colpivano i volti ruvidi dei contadini, dei pescatori salernitani con i loro ammezzati in bocca, mentre tiravano su le reti, dopo aver fatto colazione con le alici sul pane ed un bicchiere di vino. Il tutto in un clima maschiale, peloso e volitivo. Con il tempo, feci una cernita dei tabaccai migliori nei quali acquistare i sigari ( guai a comprarli nei bar!), rivendite nelle quali avrei potuto trovare il mobiletto deumidificatore. Riuscivo a capire da subito la qualità del tabacco, premendo leggermente la pancia del sigaro, se troppo stagionato o troppo fresco. Abbandonai le scatole di fiammiferi, per questioni di praticità e comodità, preferendo l’utilizzo del semplice accendino a gas. Adesso, nonostante tanti anni di fumate e tante storie ad esse legate, la cosa che più mi è rimasta impressa è il momento dell’acquisto dell’accendino. Può sembrare strano ma, ogni volta che chiedo un accendino al tabaccaio, egli direttamente evita di darmi quello colorato di rosa e dirige la sua scelta verso altre tonalità. Perché? Cosa c’è di strano in un accendino rosa? Vi posso assicurare che questa cosa mi accade sistematicamente ad ogni acquisto di accendini. All’inizio la cosa non mi turbava, ora rappresenta un gesto insopportabile tanto è vero che io rifiuto la scelta arbitraria fatta dal tabaccaio e chiedo espressamente il rosa, sotto lo sguardo attonito del commerciante, spiazzato da un muratore sporco di cemento con mezzo toscano in bocca. Ciò accade anche se chi è addetto alla vendita è una donna. Perché il rosa alle femmine e l’azzurro ai maschi? Nella vendita di un oggetto si nasconde la forma mentis della persona e non è necessario indagare oltre per capire che le categorie si precostituiscono già dalla più tenera età, con la colpevole responsabilità dei genitori e degli educatori. Il maschio è l’azzurro, come il principe, come il blaue reiter, come il fiocco sul grembiule delle elementari. Il rosa è femmina, come la carne, come la rosa rosa, come il Monte Rosa. “ Questa cosa mi sembra un po’ da femmine, questa invece un po’ da maschi”. Che significa? Nello sguardo stranito del tabaccaio che rimette a posto l’accendino, scelto al posto mio e prende quello rosa, noto tutta l’impossibilità di costruire i rapporti umani basati esclusivamente sul rispetto delle dignità altrui. L’ultima volta, una ragazzina, forse figlia del titolare della tabaccheria, con la gioia di chi ha appena iniziato a lavorare, alla mia richiesta di un accendino, ha allungato la mano sul contenitore nel quale tre accendini rosa erano lì da soli, distanti dagli altri diversamente colorati, prendendo quello nero che era in ultima fila. Ho gelato le sue sicurezze dicendole: “ Non fa niente, mi dia quello rosa, non diventerò frocio solo per questo