tag:blogger.com,1999:blog-63537474591531866822023-11-16T07:42:06.298-08:00Ortona Non Perdona...aspettando di nuovo il Generale Coutardlaritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.comBlogger81125tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-45736377934221889722020-05-21T08:39:00.001-07:002020-05-21T08:44:45.166-07:00Vita, vocazioni e peccati del giovane Gianluca<br />
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEipFByuVAg5oFHB7cZqp1py7iTsf-z2DPO69ynTSwzbCyfpXXu4WnAxQEFmNz3CwXh6dRTlrWZR1Z2DalQPyDLSmxjb37YJ5MoKZ21qhWs3nSshOuikeDKF82hTgoUopFviacYd2UVOSno/s1600/nadia-cassini.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="441" data-original-width="257" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEipFByuVAg5oFHB7cZqp1py7iTsf-z2DPO69ynTSwzbCyfpXXu4WnAxQEFmNz3CwXh6dRTlrWZR1Z2DalQPyDLSmxjb37YJ5MoKZ21qhWs3nSshOuikeDKF82hTgoUopFviacYd2UVOSno/s200/nadia-cassini.jpg" width="116" /></a><span style="font-family: "helvetica neue" , "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b><span style="font-size: large;">A</span></b>lla tenera età di anni dodici,
fui stravolto da turbamenti i quali, al posto di indirizzarmi verso pratiche
onanistiche tipiche degli acneici fanciulli anni ottanta, tutti Bolero e Blitz,
mi condussero per le opaline strade della fede, ove ogni sosta è un attimo che
precede l’ascesa alle beatitudini della rinuncia e della castità. In verità già
da qualche tempo sperimentavo ingenuo, gli sfregamenti del mio giovane volatile
con successi scarsi e infiammazioni certe. Non provavo colpe e alternavo
ignaro, le gioie della cippa con quelle più auliche della catechesi. Ero
affascinato tuttavia dalla passione religiosa di mio nonno Camillo il quale,
durante i suoi racconti di prigionia, narrava di come la religione lo avesse
salvato dalle pallottole naziste e conseguente infornata. Con il ritorno dalla
materialista e impegnata Milano nel lontano ’76, avevamo compiuto un processo
di depurazione da tutte le scorie del moderno tornando ai fasti delle più grevi
superstizione, praticando sedute spiritiche, consultando maghi e cartomanti,
mischiando Berlinguer con l’acqua e l’olio per il malocchio. Fui sconvolto
dalla capacità camaleontica dei miei parenti nel variare gusti e tendenze.
Essendo ragazzo e dovendo “onorare il padre e la madre” mi attenni ossequioso a
tutto ciò che loro credevano fosse giusto e degno di essere preso per vero. La
religiosità dei miei avi era una roccia scolpita nella pietra: Madonne di gesso
trionfanti sul serpente erano poste, sotto la teca di vetro, nelle camere da
letto dei miei nonni, sacri cuori retroilluminati lugubremente a tenermi
sveglio nelle sieste di luglio, avrebbero dovuto farmi comprendere la gioia del
credo.</span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe width="320" height="266" class="YOUTUBE-iframe-video" data-thumbnail-src="https://i.ytimg.com/vi/-SFFRaIUisY/0.jpg" src="https://www.youtube.com/embed/-SFFRaIUisY?feature=player_embedded" frameborder="0" allowfullscreen></iframe></div>
<span style="font-family: "helvetica neue" , "arial" , "helvetica" , sans-serif;">Fu complice la tempesta ormonale e un basso rendimento negli studi a
farmi propendere in modo del tutto opportunista, verso la possibilità che,
inserendo santini e unghia tagliata dai piedi di Padre Pio, tra le pagine dei
libri, avrei ottenuto voti migliori. Il caso ci mise lo zampino (a posteriori
credo si trattasse dello zoccolo di un caprone) tanto che i voti migliorarono e
l’ansia che provavo nella gioia di veder migliorare la mia condizione di
studente venne da me scambiata per il fuoco della fede che mi spingeva a
risultati inaspettati. Anche mio nonno scambiò questa nuova condizione per i
prodromi di una vocazione religiosa che mi portava a essere brillante nelle
discussioni filoconciliari in parrocchia e i passi del Vangelo letti
stentoreamente nelle messe di periferia. Sudavo di fede. MI adattai anche nelle
vesti: improbabili lupetti color diarrea, maglioni verdi di lana spinosa,
mocassini arancioni con fibbie adornate da finti smeraldi, collanine con
Crocefissi in oro bianco e righe pettinate a destra con lo sputo. Fui mandato
per alcuni mesi da una suora la quale aveva subito visto l’occasione di
sfornare un altro pretino, visiti i tempi bui nei quali Nadia Cassini aveva
fatto cadere i giovani italici. Ricevetti lezioni speciali di catechismo
estremo. Suor Michelina mi voleva bene e anch’io a lei ne volevo. Era una creatura
dolce e comprensiva e rendeva più semplice la mia strada verso il convento. A
marzo presi la Comunione, mio nonno era felicissimo. Ciò non bastava, il ferro
andava battuto finchè caldo tanto più che il mio arnese era un cannone di
Navarone pronto a sparare ormoni alla vista di una chiappa qualsiasi spuntata
fuori da un bikini. </span><br />
<span style="font-family: "helvetica neue" , "arial" , "helvetica" , sans-serif;">Dovevo prendere la Cresima e subito. La porta per il
seminario era ormai aperta. La suora mi caricò come fossi un pugile prima di un
incontro valevole per il titolo mondiale: il giorno della Cresima lo spirito
Santo sarebbe disceso su di me come una fiamma dal cielo, inondandomi di
un’energia straordinaria per combattere il peccato. Diamine! Pensai. Avevo in
mente una cosa tipo Jeeg Robot d’acciaio o Mazinga con tanto di lampi e cupola
della chiesa che si apre. Forte di questa convinzione mi preparai per questo
evento epocale fino alla fatidica domenica di giugno.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Un vescovo non lo avevo mai visto ma
immaginavo che fosse una sorta di santo incarnato in un superuomo pronto a
elargire scosse protoniche come la spada di Luke Skywalker. La chiesa era piena
di parenti e amici dei tanti “prescelti” come me. Noi ragazzi aspettavamo il
momento di entrare in “scena” per godere e far godere dello spettacolo, quando
udii questa frase: “Avete portato la busta con il soldi per il Vescovo?”. “Ma
come – pensai – un sant’uomo la cui missione è quella di spargere la pura fede
all over the world, un uomo scevro dal peccato e dalla vanità dei beni terreni,
si fa pagare?” Tutto il castello costruito sul malinteso dei miei risultati
scolastici, i quali non ero stato in grado di attribuirli al fatto che
studiassi dodici ore al giorno, crollò miseramente quando, una volta al
cospetto di quell’ometto in abito rosso che mi ungeva con l’olio di oliva le
tempie, non ci fu nessun fuoco sacro a scendere per investirmi della fede tanto
immeritata.. Non ho nostalgia di quei tempi ma di Nadia Cassini sì.</span><o:p></o:p></div>
<br />laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-35176499749181816332020-03-22T11:39:00.002-07:002020-03-22T11:54:19.881-07:00Mio padre con la pizza in mano<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgOugeqNvOFiZ3EA-G0gBhiuKgryhi0jJ1vuW9wM4L7t169PtzwnS-VuQ_PgibB-Bv6WDvY-Jeq7gN3pLsLQ04txefFnWsv09pO8jAwCUUzkUoqM9pMBc6HaXn787W-vV9m75C9pMKmdJM/s1600/DSC02283.JPG" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="900" data-original-width="1600" height="180" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgOugeqNvOFiZ3EA-G0gBhiuKgryhi0jJ1vuW9wM4L7t169PtzwnS-VuQ_PgibB-Bv6WDvY-Jeq7gN3pLsLQ04txefFnWsv09pO8jAwCUUzkUoqM9pMBc6HaXn787W-vV9m75C9pMKmdJM/s320/DSC02283.JPG" width="320" /></a><b>E</b>ro nel pieno di un sogno
meraviglioso del quale avrei potuto narrare alla famiglia, una volta che mi
fossi destato quando mio padre si è materializzato. Era comodamente seduto
sopra una graticola accesa, mangiando una pizza con alici e pomodorini pachino.
In genere il mio defunto genitore non mi appare neanche per darmi i numeri del
lotto. Ho sempre pensato che sarebbe finito all’inferno. Non ho trovato
inopportuna la sua intrusione all’interno della mia attività onirica quanto il
fatto che stesse brandendo una pizza. Non ricordo esattamente quali fossero i
suoi gusti preferiti da vivo. In ogni caso ho apprezzato la sua visita.
Ultimamente, con il virus che impazza over the land peggio di un singolo di
Bocelli, pensavo volesse rendermi partecipe di qualche messaggio da l’oltretomba
stile piccolo veggente di Lourdes. “Figlio mio – ha esordito severo – hai voluto
la partita iva? Adesso ti attacchi al cazzo”. Ho provato a controbattere “Papà
ma non mi avevi educato, sin dalla più giovane età, all’indipendenza dai
padroni, all’ottimismo dell’impresa privata, al libertinaggio della
professione, all’onanismo dell’iniziativa artigianale, allo sprezzo del
cartellino da timbrare?” “Tutte cazzate – mi ha risposto secco – l’inferno
sembra l’anticamera dell’ufficio di un commercialista. Ogni libero imprenditore
ha il suo girone ove sconta la pena in base alla colpa di cui si è macchiato in
vita. Chiunque abbia osato non chinare il capo alla busta paga, è punito in
eterno con le più atroci sofferenze. Giù , nel fondo dell’abisso, stanno i
piccoli artigiani, quelli che han passato la vita nelle bottegucce, a mandare i
“porchididdio” per ogni serranda alzata la mattina e abbassata la sera, i
calzolai curvi sulle scarpe delle vecchie da risuolare, i tappezzieri con la
poltrona graffiata dal gatto, i salumieri del quartiere con le fette di lonzino
da mettere nel panino all’olio da centocinquanta lire, per lo studente obeso
delle medie. La loro pena è inseguire cartamoneta da cinque euro che svolazza
sospinta da un vento costante. Li vedo saltare, correre, fino al collasso, onde
acchiappare il denaro. Li vedo, seduti sugli sgabelli di legno malamente
inchiodati, aspettare che i clienti, saldino i lavori, dopo mesi e scoprire che
le vecchie sono morte, i gatti sono scappati, gli obesi scolari sono dimagriti.”
Nel frattempo mio padre aveva terminato la pizza e si stava accendendo una
sigaretta. Non ha smesso di fumare neanche da cadavere. </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe allowfullscreen="" class="YOUTUBE-iframe-video" data-thumbnail-src="https://i.ytimg.com/vi/zh9oHkqmcbk/0.jpg" frameborder="0" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/zh9oHkqmcbk?feature=player_embedded" width="320"></iframe></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
“Babbo, ma io ero
felice del mio lavoro, Da principio ero incapace, molto efficiente ma poco
efficace. Ora sono un mastro, di quelli buoni per farci le novelle. Mi
inquadrano anche i tiggì, quando fanno i servizi sul genio italiano e le buone
promesse dei candidati che lodano il lavoro patrio. Or son ventiquattro anni
che spennello pareti, applico piastrelle e muri ergo. Coibento ergo sum.”<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>“ Sono ventiquattro anni che hai deciso di
essere coglione – ha sbottato mio padre – lo sai che all’inferno non c’è
neanche uno statale?” “ Ohibò- ho esclamato- ma cosa ne è stato dell’assenteismo,
delle vacanze, delle agevolazioni, delle convenzioni per gli studi e le colonie
a figli , nipoti, pronipoti, amanti, soggiorni agevolati more uxorio, saune e
terme per sciatiche dovute a uso smodato dell’aria condizionata, buoni pasto,
biglietti gratuiti per piste e posti al teatro, al cinema, ai parcheggi, mutui
agevolati inps, inpdap, cgil cisl uil, ispes, inail, ina, cassa previdenza qui,
cassa <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>integrazione lì, liquidazioni,
pensioni, tredicesime, quattordicesime, quindicesime, crociere, bische, case di
appuntamento, file al<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>banco carne e
precedenza ai loculi del cimitero?” <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>“Proprio
per questo – ha risposto papà – non hanno mandato una bestemmia a memoria ma
hanno usato il calendario, a differenza tua, per segnare i giorni che li
separavano dal buen retiro. Hanno<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>benedetto
ogni giorno per il posto nel quale ponevano le terga, guardando beffardi,
barbuti muratori inveire gli dei immortali, mentre masticavano il mezzo toscano
spento in bocca, impastando cemento sotto la furia degli elementi sopra un’impalcatura.
Sembravano spettatori muti in visita all’acquario, guardare attraverso il vetro
bestie rare e feroci, consumarsi nelle botteghe, indurire le mani con i manici
nuovi dei picconi, asfaltarsi i polmoni con le vernici al piombo. Lo spettacolo
li divertiva ma essi benedivano il Creatore per averli sottratti dal morbo del
farsi da sé.” “ Suvvia papà, avranno pur qualche scheletro nell’armadio – ho provato
a controbbattere- una rata del mutuo non pagata, una vacanza fatta con il certificato
medico, una pratica accelerata per il compare, una sbiarciatina sul pornazzo
fatta dal computer dell’ufficio” La fiamma sotto al culo di mio padre si accese
ancor di più “Cosa dici cretino! A chiunque abbia provato ad accusarli, loro
han risposto : maanoiletassecelesottraggonoallafonte. Ciò è sufficiente per
troncare ogni discorso. Tu, invece, che hai accettato i soldi in nero, non ti
sei sottratto al malaffare. Hai provato pure a metterti un cognome albanese,
per attrarre i tuoi clienti, figlio snaturato! Ora paga il tuo fio con l’inferno
oppure pentiti, trovati un lavoro serio! Detto questo, mio padre è svanito dal
sogno, lasciando il posto all’immagine di Conteil quale, tra un colpo di tosse
e l’altro, urlava: “Chiudiamotutto, partiteiva mò so cazzi vostri”. In quel
momento mi sono svegliato di soprassalto. Il telefonato ha squillato, era la
banca : “Mi dovrebbe rientrare di euro cinque”. Ho provato a vedere se c’era
rimasta qualche banconota volante fuori dalla finestra: era lì per strada, <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>a mezz’aria , un vecchio calzolaio la stava
ancora inseguendo.<br />
<o:p></o:p></div>
<br />laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-78941826162788290832020-03-10T12:16:00.001-07:002020-03-10T12:16:16.886-07:00Di questi tempi<br />
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiiRfqJUJNbtBs0oJ_sVSUkkQLWy_QXFR_CrUlmsSXf9n3mnBymJBLUjsmkYn53RrG10als2lHNXCleVnIBS47WXv37v6EU2Rbre-8-_uZ31hczM5nZEd7Sr1PFHREqJYAnE89pxtdw_PA/s1600/DSC00107.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="811" data-original-width="1600" height="162" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiiRfqJUJNbtBs0oJ_sVSUkkQLWy_QXFR_CrUlmsSXf9n3mnBymJBLUjsmkYn53RrG10als2lHNXCleVnIBS47WXv37v6EU2Rbre-8-_uZ31hczM5nZEd7Sr1PFHREqJYAnE89pxtdw_PA/s320/DSC00107.JPG" width="320" /></a><span style="font-family: Helvetica Neue, Arial, Helvetica, sans-serif;"><b>D</b>i questi tempi, per difendere la
buona opinione che abbiamo di noi stessi, è necessario trovare un’idea alla
quale aggrapparsi come il naufrago fa con la scialuppa. L’illusione è che
questo “essere stupidi” che ci contraddistingue, quasi fosse medaglia d’onore
contro il tedio del buon senso, possa essere definitivamente spazzato dalle
priorità della vita le quali non consistano nella pratica dello “spritz” o
dello “sniff”. Se dovessimo sovrapporre i negativi delle strade prima e dopo il
coprifuoco, potremmo dedurre che la maggior parte delle persone in giro “prima”,
non aveva un cazzo da fare. Ne l’efficienza degli spostamenti a vuoto
consisteva l’apparenza alacre di sfaccendati senza meta e signore stanche di
stirare panni. Si vive nel terrore che le vecchie nonne le quali mantengono la
baracca dei nipoti con famiglia, spirino soffocate dal morbo orientale,
interrompendo il flusso delle pensioni da sperperare dentro i distributori
automatici di filtrini o i gratta e vinci strofinati compulsivamente davanti
alle amichette ucraine. </span><span style="font-family: "Helvetica Neue", Arial, Helvetica, sans-serif;">Mentre ci si tagga con spavalderia a biciclettare senza permesso nei comuni viciniori, con l’intento di andare in culo alla polizia, si ricacciano i mantra del “legger un buon libro” ben sapendo che il libro da leggere, si saprà se è buono solo dopo averlo letto. Intanto il conto si prosciuga a fare la fila uno alla volta per le scamorze e le persone che hanno paura anche solo a salutarti da lontano perché credono che, ad alzare il braccio, il contagio si diffonda anche dalle ascelle. Tutti si schifano di tutti e tutto viene schifato. Lo studio epidemiologico di una civiltà, non si effettua nei carotaggi sotto la calotta artica ma esaminando le vaschette delle noccioline degli aperitivi, dove decine di mani hanno ravanato con il gomito appoggiato al bancone. Anche Salvini appare più evanescente con il virus, utile solo in periodi di pace a stimolare pensionati statali, frustrati da incipiente “impotentia erigendi” e dal negro che ti fotte un euro per l’accendino scarico. Odiando tutti, vado solo, nonostante sia preferibile che stessi a debita distanza da me stesso.</span><span style="font-family: "Helvetica Neue", Arial, Helvetica, sans-serif;"> </span><span style="font-family: "Helvetica Neue", Arial, Helvetica, sans-serif;">Se vedo qualcuno
che si avvicina a dieci metri, tossisco rumorosamente, proiettando frutti del
mio corpo sul marciapiede, onde evitare il “Comevatuttapposto?” No, non c’è
nulla che stia a posto, va tutto di merda. Ecco, di questi tempi, eliminiamo il
superfluo, torniamo all’essenziale: la merda, appunto.</span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiiRfqJUJNbtBs0oJ_sVSUkkQLWy_QXFR_CrUlmsSXf9n3mnBymJBLUjsmkYn53RrG10als2lHNXCleVnIBS47WXv37v6EU2Rbre-8-_uZ31hczM5nZEd7Sr1PFHREqJYAnE89pxtdw_PA/s1600/DSC00107.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><span style="font-family: Helvetica Neue, Arial, Helvetica, sans-serif;"></span></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-45536099651162765062020-03-01T13:18:00.001-08:002020-03-01T21:00:21.167-08:00L'incoscienza di Zeno<br />
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-size: large;"><b>L’esimio</b></span> professor Jubatti,
docente di lettere e storia presso il nostro pregiatissimo Liceo, avvolto nella
sua nube di dopobarba dolciastro,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>alle
ore undici e trenta del 10 maggio<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>millenovecentottantasei, ci aveva ufficialmente rotto le balle.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Durante l’ennesima presa di coscienza di Zeno
Cosini, del quale condividevamo solo il piacere della sigaretta,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>ci rendemmo conto che la letteratura
contemporanea serviva solo a far sì che gli angoli dei libri fossero buoni per
farci passare le unghie sporche attraverso. Decidemmo di passare a l’azione. Il
sottoscritto, Rocco “lu Gnè Gne”, Carlo detto anche “Acqua da li cujune” e
Pierpaolo, stendemmo il filo della tenda posta a protezione degli enormi
finestroni, in modo che potesse costituire un limite aereo per le nostre
evoluzioni pallavolistiche. Così, mentre l’illustrissimo docente di cui sopra,
continuava imperterrito a chiedersi se il fumatore triestino e Svevo fossero la stessa
persona, noi quattro ci producevamo in un piccolo torneo di simil beach volley,
con tanto di bestemmie. Jubatti non proferì verbo ma covò una vendetta
silenziosa di cui fummo vittima durante lo scritto degli esami di
maturità.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Stavamo sudando su Tacito, in
quel giugno ventilato, brancolando su quattro righe di versione che non
rendevano decifrabile il resto della consegna. I commissari di esame erano
particolarmente distratti. Fu allora che il nostro prode membro interno, parve
venirci in soccorso. Si avvicinò a noi quattro componenti del “quartetto” e
suggerì la traduzione, illudendoci sul fatto che ci fossimo tratti
da l’impaccio. Sotto l’occhiale dal vetro antiproiettili di quel ex allievo
ufficiale di complemento, sposato con tanto di tocco dello spadino, sbarcato
con ignominia da una lanciaerei solo per il fatto di aver festeggiato la sua promozione
in un locale della costa ligure, tirando l’alba con quattro zoccole brasiliane
e una bottiglie di Cristal versione magnum, si nascondeva il principe del male,
il quale aveva architettato per noi “ribelli” la traduzione giusta per
inchiodarci con un bel quattro allo scritto. </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgAQ2NlUmxLDFVfrnqFvr-SIuZoSOK2MyYdlvAzMrcb7qzDU6-cIaq5cX6-wrcx4am_m6tKV8bv98u3pJlP-jPMJfBo08UsxjKHMgz51gPI_xD51uUMVd88l_fpN0eubZks2-6p9wj7K3U/s1600/peter+sellers+%25282%2529.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="200" data-original-width="167" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgAQ2NlUmxLDFVfrnqFvr-SIuZoSOK2MyYdlvAzMrcb7qzDU6-cIaq5cX6-wrcx4am_m6tKV8bv98u3pJlP-jPMJfBo08UsxjKHMgz51gPI_xD51uUMVd88l_fpN0eubZks2-6p9wj7K3U/s1600/peter+sellers+%25282%2529.jpg" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Se avessi ascoltato “mammà” a quei
tempi, mi sarei applicato a di più sulle depressioni di Svevo, lasciando
perdere i miei brufoli da un chilo e le tecniche per lasciare fuori le scarpe a
far loro prendere aria senza seccare le piante.<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>Fu solo davanti alla commissione, durante gli orali, che ci rendemmo
conto del i frutti amari delle vendetta professorale. Neanche una giaculatoria
ciceroniana avrebbe potuto colmare il sottovuoto cosmico della nostra media.
Sbattemmo i denti, annaspammo, supercazzolammo, maledicendo gli dei immortali e
le idi di marzo. Ci promossero solo perché avevamo rotto il cazzo e non ci
volevano tra i piedi, l’anno seguente. Di quella mattina, ricordo il ritardo
con il quale arrivai a scuola e Jubatti alla finestra che mi incitava a far
presto per non aver la sconfitta due a zero a tavolino. Mi presentai con una
paio di Clark rosse e blu, jeans scoloriti e la t-shirt di un gruppo rock
tedesco, il look giusto per far raggrinzire il contorno labbra della professoressa
di storia, una vecchia zitella teramana la quale, mi raccontava chi mi aveva
preceduto, gradisse fare colazione con salamelle a base d’aglio.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Dell’esame ricordo poco ma quello che mi
rimase impresso per il resto dei miei giorni fu quando, una volta terminata la
prova e uscito da l’edificio, mi voltai per salutare la mia vecchia scuola con
il gesto dell’ombrello: alla finestra c’era Jubatti il quale, ormai libero da
ogni apparente impegno morale verso i suoi studenti, anticipo il mio saluto con
un ghigno rivolto alla mia persona mentre con la mano, stringeva i suoi
attributi, sventolandoli in mia direzione, quasi volesse esortare il
sottoscritto ad usarli come appiglio.<o:p></o:p></div>
<br />laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-18039546659551806952019-12-14T06:53:00.003-08:002019-12-14T06:54:58.080-08:00Barbarism begins at home<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe allowfullscreen="" class="YOUTUBE-iframe-video" data-thumbnail-src="https://i.ytimg.com/vi/peh6JCBoznk/0.jpg" frameborder="0" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/peh6JCBoznk?feature=player_embedded" width="320"></iframe></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<b><span style="font-size: large;">Uscire</span></b> da un social network dopo
tanti anni è operazione dolorosa. Nel 2006, complice la facilità di accedere
alla rete da parte di mio fratello, usavo passare il dopocena in camera sua
davanti al computer. Avevo già avuto qualche approccio con internet nel 1996,
collaborando con un ufficio comunale della mia città. Fu solo dieci anni dopo
che mi avvicinai a questa neonata “piattaforma di socialità virtuale”. La
possibilità di caricare foto, scambiare commenti su fatti o persone,
condividere passioni o desideri, mi illuse sul fatto che avrei potuto parlare
con i miei conoscenti o amici anche solo rimanendo seduto a casa davanti al pc.
Credevo che il mondo intero mi leggesse e qualsiasi cosa avessi detto, avrebbe
influenzato l’opinione pubblica quasi che fossi un oratore sul piedistallo ad
arringare una folla immensa. Iniziai così a regolare la mia vita in base a
ritmi che mi avrebbero consentito di ritagliare del tempo da dedicare alla
rete. Dapprima con discrezione e goffaggine, in seguito con assiduità quasi
maniacale. Con gli anni non stavo cambiando solo io ma anche quelli che come
me, erano dentro il social. <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Si andava
sviluppando una sorta di luogo nel quali tutti, complice la mancanza di
corporalità dei rapporti, avevano la possibilità di sfogare le proprie
frustrazioni sugli altri: dalle insoddisfazioni sentimentali ai problemi di
lavoro e di salute, alle difficoltà economiche dovute alla crisi che sarebbe
esplosa alla fine del decennio. La mancanza di corporalità e quindi l’impossibilità
di provare dolore fisico, spingeva le persone ad andare oltre il normale dibattito
civile, sicuri di non essere colpiti o feriti. Una sorta di invulnerabilità da
schermo che spingeva a disertare il lettino dello psicologo per risolvere
tensioni e incomprensioni contro la sagome-bersaglio degli altri. Nonostante ne
percepissi il pericolo, per un certo periodo, mi sono fatto coinvolgere in
discussioni sterili nelle quali, per quanto apportassi contributi interessanti
e ne ricevessi altrettanti, nessuno cambiava idea, nessuno era capace di
confessare l’errore o il malinteso, spingendosi verso la pratica della
negazione della verità pur di non essere perdente. Ci fu il periodo dell’autoscatto
che accrebbe il proprio io, spazio atemporale nel quale proiettare la propria
immagine filtrata dallo specchio di Dorian Gray. Piacersi, amarsi, venerare la
propria opinione, cercando di essere migliori della propria intima natura,
terrorizzati dallo scoprire sul tavolo le proprie debolezze, i propri limiti, i
propri no. Così il tempo è passato, rinunciando a qualche passeggiata, un buon
libro, un centimetro in più nell’altezza dei figli, una ruga che veniva scavata
ai lati della bocca. Ci sono stati momenti piacevoli nei quali, ho ritrovato
lontanissimi amici con i quali mi impacchettavo nelle cabine telefoniche per
dare appuntamento agli altri il sabato pomeriggio. Qualcuno mi ha mandato foto
di cose che avevo dimenticato, di persone scomparse, di avventure vissute
veramente. Tutto si è appiattito nell’abitudine allo stupore, nel qualunquismo
del dolore, nell’assuefazione alla vanità scomposta. Ho vinto e ho perso un’elezione
sulla rete. Ho perso l’umanità sulla rete, sono stato sempre sul pezzo nella
rete. Un giorno, dopo aver passato a sguazzare nel grottesco dei commenti, nell’analfabetismo
come caratteristica vincente, nell’allarmismo bigotto, nella deitalianizzazione
dello scritto, ho capito che, quando sarei stato troppo vecchio, non avrei
potuto raccontare agli altri cosa avevo fatto in questi ultimi quattordici anni<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>ma come li avevo passati stando davanti al
computer. Ho detto basta, sono uscito senza salutare, ho lasciato i miei mal di
stomaco nell’account. Ho deciso di ritornare alle mie pagine sul blog dove
ognuno e nessuno è il benvenuto.<o:p></o:p></div>
laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-76152678834662154802019-11-24T12:16:00.001-08:002019-11-24T12:16:09.001-08:00Le colpe dei figli ricadano sui padri<br />
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Sono le ore diciotto. Siamo
arrivati alla fine di marzo. Ha smesso di piovere da poco e mi trovo in fila,
con il mio furgone, all’ingresso del paesotto che per comodità sigleremo per O.
Il mio stereo quasi a palla produce vibrazioni profonde nella carrozzeria del
mio van, causate dal basso di Jaco Pastorius. Aspetto distrattamente che la
fila di auto proceda. Davanti a me uno scooter, guidato da una ragazza, è
posizionato sulla destra. Allo scoccare del verde, la fila avanza con un
sobbalzo. La ragazza accelera nervosamente ma la strada resa viscida dalla
pioggia , fa sbandare il motorino. La ragazza perde il controllo e finisce a
terra. Io mi trovo immediatamente dietro e assisto a tutta la scena con un misto
di sorpresa e disappunto. La ragazza si rialza ma è visibilmente dispiaciuta.
Istintivamente scendo dal furgone per prestarle soccorso. La giovane non ha
riportato danni ma piange amaramente guardando lo scooter. Noto subito che la
motoretta è nuova fiammante e questo costituisce il motivo del suo pianto. Le
chiedo se ha bisogno di aiuto e tento di rialzare il ciclomotore. “Lasci stare
quella moto”! Dalle mie spalle odo una voce in tono di comando e uno scalpiccio
di tacchi in cuoio. Mi giro. Un ometto, baffi riportino e occhiale di foggia
antica, sta correndo verso la scena dell’incidente mentre le altre auto passano
oltre, curiosando noiosamente. “La stavo solo aiutan…” Non riesco a finire la
frase “ Lei stia zitto!” mi apostrofa il tipo, rivolgendosi alla ragazza “Cosa
è successo, signorina”? Il tizio interroga la giovane ma lei piange e riesce
solo a bofonchiare qualcosa. Rimango senza parole e non mi rendo conto subito
della situazione” Io…”, vengo nuovamente interrotto. “Non l’ho interrogata,
deve essere la ragazza a dirmi cosa è successo veramente!”. Poi si rivolge
nuovamente a lei “ Su, mi dica, sono un assicuratore”. In questo momento
comprendo quale ipotesi, questo ometto, venuto dal nulla, abbia potuto
formulare nella sua testa: Io, individuo fuori dall’aspetto standard di persona
di cui fidarsi, ho causato la caduta della giovane dallo scooter e ora sto
approfittando per inquinare la scena del
sinistro rialzando la suddetta moto e lasciando la giovane al suo destino. Per
fortuna, la ragazza ha il buon senso di rispondere al tizio. Discolpandomi completamente.
Aspetto invano delle scuse ma ricevo solo le sue spalle. Ho troppa fretta per
acchiapparlo per il bavero e insegnarli l’educazione, sono impietrito, non so
cosa dire. La scena in sé stessa ha occupato il tempo di un minuto ma le azioni
e le intenzioni mi hanno raccontato tutta la vita di quell’uomo e come egli si
ponga nei confronti degli altri. Mentre mi rimetto alla guida, allontanandomi,
guardo lo specchietto retrovisore per sincerarmi che la ragazza stia bene. L’uomo
le è ancora vicino. A questo punto mi viene il dubbio che la mia innocenza
possa trasformarsi in una colpa. Quell’uomo, quel piccolo essere dal riporto
leccato, potrebbe spingere oltre il limite la sua attitudine a ricercare la
situazione nella quale sguazzare, me lo immagino dire alla ragazza: “Mettiamoci
d’accordo, io sono assicuratore, posso testimoniare, dichiariamo che quel
furgone , con una mossa azzardata, ti ha fatto sbandare e diamo la colpa a quel
barbuto con gli orecchini. Secondo me è disonesto già dall’aspetto, forse usa
droga e maltratta figli e moglie, forse è un ladro. Vedrai, caveremo soldi
dalla sua assicurazione. Si vede dalla faccia quanto sia colpevole
geneticamente.” No, la mia mania di persecuzione non può spingersi oltre. Forse
sono colpevole veramente, quel tizio ha ragione. Non avrei dovuto fermarmi,
avrei dovuto farmi i cazzi miei, perché c’è sempre un assicuratore fermo ad
accorrere sulla scena dell’incidente per dare la colpa a qualcuno. Adesso torno
indietro e mi invento qualcosa tipo: in effetti l’ho fatta cadere io la ragazza
e l’ho minacciata in modo che lei desse la colpa dell’incidente all’asfalto
bagnato e alla sua imperizia. L’ho fatto perché avevo fretta, non avevo la
patente in regola oppure stavo trasportando della droga ed un contrattempo
avrebbe rovinato i miei piani criminosi. </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiUihyjPZq1AherI1EPdra7wJpTjLme_p_8Ai9jV4ipvFkHxHh_sIurIbySnDkBiReXdbCWq8rXbLSBm2fTS3lPCMz4JPCHQEJHyoqy8ukIwJqgAfGHjwShCAwz96AObcr-UE0UXPJzeQ4/s1600/peppino-de-filippo+%25283%2529.png" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="342" data-original-width="364" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiUihyjPZq1AherI1EPdra7wJpTjLme_p_8Ai9jV4ipvFkHxHh_sIurIbySnDkBiReXdbCWq8rXbLSBm2fTS3lPCMz4JPCHQEJHyoqy8ukIwJqgAfGHjwShCAwz96AObcr-UE0UXPJzeQ4/s320/peppino-de-filippo+%25283%2529.png" width="320" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Potrei vedere così, il volto dell’assicuratore
illuminarsi, per il fatto che aveva ragione a non fidarsi, perché quelli con il
mio aspetto sono tutti dei poco di buono. Avrebbe chiamato i carabinieri per
verbalizzare la mia confessione ed essere sempre più convinto che la sua
condotta fosse quella giusta. Sarebbe stata la glorificazione della sua faccia
schifata quando mi ha apostrofato. Lo vedo, seduto davanti al televisore, vomitare
improperi contro il malcostume di quelli come me, con l’aspetto di sovversivi,
pronti a sfidare l’ordine costituito in virtù del loro aspetto, gente che non
oserebbe mai celare la calvizie come fa lui, sotto un riportino appiccicato
sulle tempie con il gel, uomini pronti ad ostentare un’oscena calvizie, una
scoppatura eversiva.Per fortuna sono oltre l’incrocio e l’impossibilità di
poter fare un’inversione a “u” mi salva dal mio proposito suicida. Immagino l’assicuratore
dagli occhiali alla Rick Moranis, tenere sulle sue ginocchia i suoi figli ed
insegnar loro i rudimenti della diffidenza verso il prossimo, dell’andare in
culo agli altri per avere successo, della sopraffazione, del saper riconoscere
l’abominio da un abito, un pelo fuori posto, una maglia peccaminosa, una scarpa
pornografica. L’assicuratore è un Tognazzi in un episodio di un film di Risi: “Educazione
sentimentale”. All’improvviso, il suo volto mi riconduce alla sua prole! Sì, io
conosco i suoi figli, in particolar modo una, la quale ha intrapreso una
carriera politica con i mezzi più squallidi. Come riavvolgessi un nastro, tutto
diventa più coerente con quello che conosco di questa persona quasi che,
conoscendo la sua progenie, avessi dovuto prevedere il comportamento del padre.
Se avessi avuto più spirito e più memoria, avrei potuto girarmi, dopo l’incidente
e prevedere, dal rumore dei suoi passi e dal suo riporto, quello che mi avrebbe
detto. Lo avrei dovuto anticipare, urlando: “So chi è sua figlia quindi lei ora
mi dirà delle cose di merda!” Sarebbe rimasto basito, muto, in mezzo alla
strada, distrutto da una verità la quale invece si è tramutata in menzogna nei
miei confronti. La colpa di un figlio sarebbe potuta ricadere, per la prima
volta, sul padre.</div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<o:p></o:p></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-46435604213743039332019-10-09T13:42:00.002-07:002019-10-09T13:42:42.408-07:00La settimana delle uova<br />
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Arial","sans-serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Essere dei poveri, di questi
tempi, è un lusso proprio di coloro che vogliono provare il brivido della
caducità. Non si tratta di essere poveri come nei quadri del verismo dove,
madri morenti allattano al seno bimbi smunti, mentre il padre, alla porta della
baracca, si attacca impudicamente ad un fiasco di vino. Oggi la povertà ha un
suo stile, possiede linguaggi, che possono essere utilizzati a proprio favore,
trasformando un povero vero, in un uomo assolutamente anonimo all’interno di un
gruppo, nell’illusione di condividere lo stesso tenore di vita. In questo tempo
sospeso, tra gli altri, un povero come me, si muove, sfruttando al massimo
tutte le risorse che ha perché la sua sciatteria sia considerata un atteggiamento
neodandista, talmente portato all’estremo da risultare invidiato da persone
facoltose ma prive di qualsiasi qualità umana. Ho fatto il classico, questo può
deporre a mio favore quando si tratta di ricordare passaggi di testi classici,
da recitare rigorosamente in greco antico. La cosa non funziona quando vado al
cementificio perché, in genere, il mio interlocutore, un magazziniere con
l’occhio iniettato di sangue per l’abuso di pessimo vino da discount,
preferisce vantarsi del suo novissimo calendario da camionista nel quale, la
pratica della depilazione femminile, è cosa misconosciuta. Per mimetizzare le
povertà, con gli altri, si può ricorrere alla boutique cinese. Basta acquistare
svariati capi, per pochi euro. Si otterrà, dopo qualche tempo, la possibilità
di sfoggiare indumenti sempre diversi ma si riempirà l’armadio di inutile
ciarpame il quale, a causa del pessimo tessuto, anche dopo lavato, continuerà a
puzzare di calzini sudati. Le caratteristiche dei locali, oggi, fanno sì che io
possa rimanere fuori da essi, per ore, senza per questo consumare nulla,
approfittando per chiacchierare con qualche amico. L’importante è che la gente
mi veda. Tuttavia, è in casa, che la povertà non può essere nascosta. Il
frigorifero è la bocca della verità, che si spalanca impietosa, su di me e sui
miei familiari, ogni volta che le finanze languono. Le prime cose che si
notano, nel frigorifero del povero, sono due mele rinsecchite e mezzo limone,
nello scompartimento frutta. Di seguito, sullo sportello, alcuni barattoli
smezzati, dalla maionese ad un recipiente nel quale, l’ultima alice è
pietrificata nell’olio addensato e giallastro. Su tutto, la cosa più
importante: le uova.</span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhfgWu_y35S2igmryhc_vTRJVByjkUnzGJgGYISuM23cYXpux33S6usXFv7_eRShZOFQTioypJmU_ismz0V7WSIQnbc8O15ZVBsTRKz0z06un_qSIxOyJ5e6nQwzARQUe7JmMUUmNo_YyM/s1600/luis+cifer.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="164" data-original-width="306" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhfgWu_y35S2igmryhc_vTRJVByjkUnzGJgGYISuM23cYXpux33S6usXFv7_eRShZOFQTioypJmU_ismz0V7WSIQnbc8O15ZVBsTRKz0z06un_qSIxOyJ5e6nQwzARQUe7JmMUUmNo_YyM/s1600/luis+cifer.jpg" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Arial","sans-serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;"> Questo alimento può rappresentare la salvezza per una
famiglia di quattro persone, quando viene gestito in larghezza come nel caso di
una frittata. Non importa lo spessore, la cosa essenziale è l’estensione dello
spicchio spettante ad ogni commensale. E’ dimostrato, infatti, che l’occhio
riesce ad inviare la sensazione di sazietà allo stomaco, quando viene
ingannato. Se nel frigo c’è un cespo di lattuga, il piatto è pieno.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-70671933754839355152019-09-15T10:54:00.001-07:002019-09-15T10:54:42.774-07:00La faccia di Roma<br />
<br />
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-size: large;"><b>Era</b></span> da tanto che non visitavo
Roma con questi occhi. Anni fa, quando la città era completamente diversa
eppure immota con la sua immagine di un’isola delle meraviglie, ad ogni angolo,
tra una foglia scolpita da Borromini ed una bottega polverosa, si potevano
ascoltare le voci schiette dei pizzicagnoli. Tutto mi sembrava perfetto per i
miei diciott’anni che poi sono diventati venti, ventiquattro, ventotto. In
quegli anni di gioventù, ogni volta che visitavo la città, cercavo le mie bolle
di felicità, percorrendo i vicoli, fotografando le facciate barocche,
rifugiandomi tra le colonne di San Pietro, passeggiando a sera lungo il Tevere,
commuovendomi come un vecchio nei tramonti di Villa Borghese. Una metropoli di
campagna nella quale perdersi , dove non eri nessuno e per questo potevi
diventare qualcuno. In questi trentacinque anni di continuo prendersi e
lasciarsi, l’ultimo incontro fu pieno di emozioni e sofferenze allo stesso
tempo. Era un Capodanno piovoso: lo trascorremmo tra una mostra di
Caravaggio e i luoghi di una città totalmente trasformata da una
antropizzazione multietnica e alienante. Roma mi appariva proprio come un’opera
di un’artista in cerca di segni e simboli. Dove erano i miei vicoli pieni di
voci dalle botteghe, dai portoni tarlati, dalle vespette attaccate ad un palo
con la catena? Una sola cosa mi rimaneva ancora: i campanili alti che si
stagliavano da una folla eterna di cerulei turisti, di filippini che ti
volevano appioppare ombrellini inutilizzabili e rose, l’odore di cipolla come
in qualsiasi posto del mondo e i sacchi di riso per le famiglie numerose. L’altro ieri ci sono tornato, dopo tanto tempo. Questa volta i monumenti li ho lasciati stare. Incomincio ad essere vecchio per commuovermi davanti a pietre disposte in modo regolare. Ho voluto osservare le persone. Gente che si muove lungo le strade, che scende le scale, uomini e donne che aspettano un mezzo pubblico. Nei segni del tempo sulle guance, nelle rughe della fronte, negli occhi , si possono ascoltare le storie di una città. Ho scoperto un’altra Roma, quella</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiSAiYaGVeh_kLhtHbtoZtKk4RxB8ugMZDNLrNHjcCKByyUQFLW1M3cx2dr_BRT9CkfphwezlrpCmYUUpgr4v9luqn4shu91Sq6aGfDkDL_BN04_EYMksc_iHfHOcZsKQrryKIwHfn5mpA/s1600/interno-busroma+%25282%2529.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="763" data-original-width="1200" height="201" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiSAiYaGVeh_kLhtHbtoZtKk4RxB8ugMZDNLrNHjcCKByyUQFLW1M3cx2dr_BRT9CkfphwezlrpCmYUUpgr4v9luqn4shu91Sq6aGfDkDL_BN04_EYMksc_iHfHOcZsKQrryKIwHfn5mpA/s320/interno-busroma+%25282%2529.jpg" width="320" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>dei colori diversi, dei linguaggi più
incomprensibili. Mi sono perso nello sguardo degli indiani con le buste della
spesa che tornavano a casa, seduti nella metro, dei senegalesi vestiti come dei
rapper, dei pakistani nelle fritterie, dei filippini che parlavano quattro
lingue mentre servivano in pizzeria. Roma è il centro del mondo perché il mondo
sta dentro Roma. Ho immaginato la stessa scena qualche millennio fa, quando la
città era la capitale dell’Impero e moltitudini di uomini da tutte le terre
conosciute, giravano per le sue strade in una Babele di lingua e costumi. I
veli cobalto che incorniciavano i volti delle donne indiane sono gli stessi che
scendono da un autobus di linea. Nei quartieri ottocenteschi dove le fontane
funzionano ancora, gli atrii dei palazzoni, ospitano accademie, fondazioni,
famiglie borghesi con il terrazzino pieno di rose. Al piano terra i parrucchieri
cinesi accolgono chiassosi ragazzi di colore. Il sole taglia le chiome degli
alti platani mentre i vecchi portano i cani a spasso e le badanti polacche
spingono pesanti portoni. Su tutto rimarrà un’immagine, quella sì commovente:
la piccola donna di servizio messicana, seduta davanti a me sull’88. Da un
cellulare con il vetro rotto, guarda sorridendo le foto del nipotino lasciato
dall’altra parte dell’oceano, il quale avrà un futuro grazie anche a questa
nonna che lavora, instancabile, nella casa di una famiglia romana. Nei suoi
occhi forse ho visto il Dio che non conosco ma è più forte di qualsiasi odio
per lo straniero.<o:p></o:p></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-54012807311145033832019-05-21T11:18:00.000-07:002019-05-21T11:18:10.153-07:00Born to be coglione<br />
<br />
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEibutTQpse9S0yKwiaQ5ePT1_ltC7R-p_tD6F-IF0lfdRlXRqKw8XcoxUGjvi3bsiW8Hifdehcd_Xan2GFCPRu2QFPGLds5Yw-0qYuME7Lv9CpUMh3Krj50cHJCFJ7enDs8H2a_qCeVTqY/s1600/penny.JPG" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="252" data-original-width="300" height="167" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEibutTQpse9S0yKwiaQ5ePT1_ltC7R-p_tD6F-IF0lfdRlXRqKw8XcoxUGjvi3bsiW8Hifdehcd_Xan2GFCPRu2QFPGLds5Yw-0qYuME7Lv9CpUMh3Krj50cHJCFJ7enDs8H2a_qCeVTqY/s200/penny.JPG" width="200" /></a><span style="font-size: large;">L</span>o sguardo perso tra un Oscar
Giannino al quale abbiano ammazzato il gatto e l’espressione di Austin Powers
mentre guarda Madonna che canta “Beautiful stranger”. La stagione non
decolla.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>In attesa che qualcuno venga a
dirmi che il furgone funziona e di non preoccuparmi che tanto “ i soldi per la
bolletta sono nel cassetto della scrivania”. No, non ci sono riuscito, in
cinquant’anni a diventare una persona seria. A patto che ci si metta d’accordo
sull’accezione del termine. Gli amici mi dicono di scrivere: non ci fu persona
più indisciplinata di me nel buttare al vento questa possibilità, visto che riesco
a scrivere un racconto da capo a piedi in solo venti minuti, salvo poi perdere
il resto del tempo libero a disposizione, smanettando sui siti di silver porn.
Altri miei simili, totalmente privi di talento ma disposti a tenere il sedere
attaccato sulla sedia della scrivania per ore, costruiscono fame e fortune per
le quali varrebbe la pena mandare affanculo le fabbrichette nelle quali
lavorano. Io non sono mai riuscito a disintossicarmi dal libro più importante
della mia vita: “Martin Eden” di Jack London. Ho perseguito, con estrema
caparbietà, le strade dei bassifondi e dei lavori umilianti, pensando che
questa sorta di espiazione ascetica, avrebbe contribuito ad intagliare la
grezza scorza del mio io letterario, fino a ricavarne un puro diamante. La
storia finisce male perché Eden e London scompariranno nel grande nulla dei
loro suicidi, una volta presa coscienza che più di così non si possa. Qui siamo
ancora all’anno mille, tra una fogna da sturare e l’attesa di qualcuno che
venga a caricare i tuoi bidoni vuoti. Allora ti adatti, al romanzo per anziani,
mentre moriture lettrici lasciano sale ricche di quadri romantici, perché il
pannolone è ormai pieno e la dentiera si è staccata. Confido ancora che
qualcuno venga a dirmi in faccia che è meglio lasciar perdere, perché i sogni
hanno una loro scadenza come il latte della centrale e bisogna capire il
momento della ritirata prima che tutto diventi stracchino. Praticare l’arte del
coglione consente di passare indenne attraverso le crisi del padre non più
giovane il quale, benevolmente, si bea dei piccoli complimenti paraculi, fatti
dalla prole, il tutto per vedersi estorcere fine settimane a scopacchiare con
fidanzati e affini. Articoli dentro periodici locali tra la ricetta del porco
in umido e le notizie sul calcio a cinque dei finanzieri in pensione. Essendo
tristemente esaurito il filone della politica locale, il <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>tentativo è stato quello di passare agli
editoriali sui grandi temi della vita o la bellezza delle aiuole. La pletora
dei concorsi letterari diviene l’ultima spiaggia sulla quale approdare per dare
una spennellata all’autostima, contendendo le semifinali al bancario in
pensione che si è fatto raccontare le storie dal vicino bersagliere nella
campagna di Russia. In premio, al vincitore, una targa in silver plated,
raffigurante una veduta di Posillipo vecchia ed uno scatolone di pasta senza
glutine. MI chiedo quale senso abbia scrivere se non ho le pene d’amore o so
non partecipo, con sdegno, alla lotta proletaria, contro un imprecisato pericolo
che mette duramente a rischio i diritti del varano di Comodo. Provo a scrivere
lettere minatorie conto terzi, stando attento a ritagliare dai quotidiani, le
lettere da incollare con la coccoina. Anche lo stile nei preventivi mi sta
abbandonando. Anni fa, nell’innamoramento dell’edilizia, ero all’elenco
dovizioso e particolareggiato di materiali e lavorazione, illudendomi che il
cliente avrebbe apprezzato. Oggi, sono una frase mi rende contento: “non si fa
credito a nessuno”. Non più.<o:p></o:p></div>
<br />laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-66888127206890896082019-04-06T10:38:00.002-07:002019-04-06T10:38:48.630-07:00Il cavaliere rosso<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhZ0AuFtzhozHTomb99B5MdvdorM6YPTBlucmTYhZJlCPRuZaHPKYRyNXp_9ZusXNtPgmeNy9YINTJ5KdymbKAKNkJh7pB8hkmOaAt9NPIKC_u9Ekbvjt2d2ze0CrCdgnj2fMssytwDLkE/s1600/20190406_192953.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1600" data-original-width="900" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhZ0AuFtzhozHTomb99B5MdvdorM6YPTBlucmTYhZJlCPRuZaHPKYRyNXp_9ZusXNtPgmeNy9YINTJ5KdymbKAKNkJh7pB8hkmOaAt9NPIKC_u9Ekbvjt2d2ze0CrCdgnj2fMssytwDLkE/s320/20190406_192953.jpg" width="180" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
La prima memoria che ho di un
oggetto a ruote è di un ciuchino di plastica rosso con le orecchie che si
giravano. Il giochino che dovevo spingere con i piedi, mi consentiva grandi
avventure lungo il corridoio dell’appartamento in via Ronchi a Milano. Non era
facile, a quell’epoca avevo due o tre anni. Il problema era dato dal fatto che
fosse consuetudine per le brave padrone di casa, passare la cera sul lugubre
pavimento di marmo e questo impediva il giusto grip che mi consentisse di darmi
una spinta sufficiente. Mia zia e mia madre, un giorno, si divertirono a vestirmi
con una ridicola cuffietta che mi faceva sembrare uno di quei cicciobelli da
collezione. Avevo dei lacrimoni incredibili. Fu quella l’occasione per
fotografarmi in quella tenuta che mi avrebbe lasciato un trauma per il resto
della mia vita insieme a un desiderio represso di fare la drag queen. Le
orecchie di quel cavallo fungevano da calmante per il dolore causato dai miei
denti che crescevano in modo disordinato. Le masticai fino a scolorirle. Tuttavia
l’asinello fu un buon inizio. La sorpresa maggiore si presentò quando ci
trasferimmo in un appartamento al piano terra, sempre nella stessa via. L’appartamento
aveva un giardino, nel quale era piantata una bellissima magnolia. Il piccolo
pezzo di terra, relativamente spoglio si affacciava direttamente sul
marciapiede e sulla strada. Andavo ancora all’asilo e, in quel periodo, mio
padre aveva acquistato un maggiolino rosso. Una sera i miei genitori si presentarono
a casa con uno scatolone enorme. Figuratevi il mio stupore quando, aperto il
contenitore, vidi quella bellissima replica della macchina di papà, dotata di
un paio di pedali di ferro. Quello che diede da pensare ai miei familiari fu
che, passati i primi attimi di gioia, riversai la mia attenzione verso lo
scatolone, lasciando perdere per una decina di giorni il contenuto. Della
macchinina non me ne fregava niente. Volevo inventarmi le avventure più incredibili
in quello scatolone. Mi sono sempre chiesto cosa mi passasse per la testa:
preferire in contenitore al contenuto. La scelta, cosa che ho realizzato dopo
tanto tempo, non fu dettata dalla superficialità tipica di un atteggiamento
infantile ma dallo scoprire le potenzialità creative dello scatolone: con quel
coso a forma di cubo inventai le migliore avventure che un bimbo solo, nella sua
cameretta, di pomeriggio, avrebbe potuto inventare. Una nave, un castello, un
rifugio, un fortino. Un oggetto che nella sua essenzialità era potenzialmente
trasformabile in tante cose. Scesi nuovamente sul piano terra quando mio nonno acquistò
per me la prima bicicletta: era una Graziella blu con un paio di rotelline
grigie. Rimasi sconcertato che fosse piegata in due, in seguito scoprì che si
poteva congiungere tramite una cerniera al centro del telaio. Scorazzavo intorno
alla palazzina del Torrione a L’Aquila, insieme ai miei amici dell’estate:
Patrizio, Stefano, Cesare e Mauro. Fino a quella sera quando, levate le
rotelline laterali, dopo vari tentativi, riuscì a pedalare tenendomi in
equilibrio. Capì che era iniziato qualcosa d'importante per me nel momento in
cui, per l’emozione, un piccolo rivolo caldo mi scese lungo una gamba..</div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<o:p></o:p></div>
<br />laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-74392207802871032772019-03-14T13:39:00.002-07:002019-03-14T13:39:36.949-07:00La nuotata del bradipo<br />
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-size: large;">H</span>o sempre avuto una sorta di
trasporto per due animali in particolare: l’elefante e l’asino. L’elefante è
l’animale che più di tutti rappresenta per me, il tempo. L’asino invece ha un
valore affettivo. Sull’asino rivedo i miei bisnonni e l’origine della mia
famiglia. Quando vedo un ciuco provo una sorta di raptus. Se sono in macchina o
in bici, devo fermarmi. Nel caso di questi due animali, il mio corpo si
comporta stranamente: mi estraneo dal contesto, sono tutto concentrato sull’animale.
Nulla è più importante del cercare un contatto. Per l’asino è facile:
ultimamente molte case di campagna hanno iniziato ad averne uno. Incontrare un
elefante è più complicato, l’ultimo l’ho visto allo zoo di Napoli e non era per
nulla contento della sua condizione. In ogni caso, ho provato a cercare delle
ragioni per le quali io sarei così attratto da queste bestie. Non ho nulla che
mi accomuna nell’atteggiamento e nel carattere. Solo di recente ho trovato un
quadrupede che ha cambiato il mio modo di pensare nel profondo: il bradipo.
Mentre facevo dello zapping, ho trovato un documentario che parlava delle
grandi città del sud America, così vicine alle foreste e di come, talvolta, la
fauna selvatica, potesse occupare alcuni territori fortemente antropizzati,
subendone le conseguenze. Si parlava appunto del bradipo e di una associazione
che li salva, quando attraversano, a rischio della vita, delle strade
fortemente trafficate. </div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Chi ha visto un bradipo conosce la sua proverbiale
lentezza e l’impossibilità di reagire velocemente ai pericoli imminenti. Il
bradipo è una sorta di drugo, che vive la sua dimensione di animale lento e
assolutamente vulnerabile. Qualsiasi altro essere vivente , nei millenni,
avrebbe potuto trasformare le sue debolezze, per istinto di sopravvivenza. Il
bradipo no. Quello che mi ha colpito di più, nel documentario, è stata una
ripresa fatta dal fondo di un fiume impetuoso, di un bradipo che nuotava da una
sponda all’altra. Sono rimasto estasiato dall’eleganza distaccata delle sue
bracciate lentissime, con queste zampe dotate di unghie enormi. Il bradipo era
totalmente impermeabile all’urgenza del cercare una salvezza. Nuotava quasi al
rallentatore con una regolarità ed una calma, dovuta alla sua natura di animale
quasi rassegnato ad una probabile sconfitta da parte degli elementi naturali.
Non c’era alcuna urgenza: l’animale era cosciente della sua essenza di essere
indifeso e ostinatamente praticava la lentezza come inevitabile, un piacere nel
lasciarsi andare a qualsiasi destino gli si sarebbe prospettato con quella
condotta al limite dell’inerzia. La nuotata di quel bradipo somigli alla mia
vita: ho deciso che gli sforzi, gli affanni non siano utili se la nostra natura
non è destinata a sopportare determinati ritmi. Così nuoto nel fiume in piena,
sperando di cogliere il meglio nella lentezza, nella pausa che mi permette di
osservare piccoli cambiamenti del cielo o il sapore di un vino fresco da bere.
Se suona il telefono e ho appena acceso un sigaro, preferisco gustare la prima
boccata piuttosto che rispondere. Voglio sentire l’umido della sera, quando
vado a correre magari rallentando il mio passo, lasciando che la corsa sia solo
il contorno di un momento da ricordare. Lavoro passando il pennello una volta
in più, quando la vernice fa rumore sul muro e colore riempie la parete. Come
il bradipo sull’albero, resto aggrappato a questa vita, intuendo che non sarà
ancora per molto. Tuttavia voglio tagliare i miei giorni a fondo come si fa con
un cocomero ghiacciato pregustandone il sapore, nel momento in cui le labbra si
stringono sulla polpa.<o:p></o:p></div>
<br />laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-23539586414411081752019-03-04T10:33:00.000-08:002019-03-04T10:39:09.529-08:00L'accendino rosa<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiPpixGsp2NKFbVNMsx7PS3AALMUjwI0FL70Qtc0HwVZ1900TcYsxZWliqJGXYst8OoePVKZdct4d9Nbkce2ijTLAHCBa-A-wNgSEbwBI75rv5em7ZAC4YCnY_FRUv1tueSvFDahODGJdo/s1600/20190302_234736.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1600" data-original-width="900" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiPpixGsp2NKFbVNMsx7PS3AALMUjwI0FL70Qtc0HwVZ1900TcYsxZWliqJGXYst8OoePVKZdct4d9Nbkce2ijTLAHCBa-A-wNgSEbwBI75rv5em7ZAC4YCnY_FRUv1tueSvFDahODGJdo/s320/20190302_234736.jpg" width="180" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "calibri" , "sans-serif"; font-size: 11.0pt; line-height: 115%;">Ho un
vizio, tra gli innumerevoli, che mi porto dietro da oltre vent’anni. E’ un
vizio ad intermittenza, nel senso che ne rimango vittima per alcuni mesi salvo
poi starne lontano per altrettanto tempo: mi piace fumare i toscani. All’inizio
lo consideravo più un vezzo, dato che il modo di fumare un sigaro richiede una
certa dimestichezza, essendo totalmente diverso dalla sigaretta. Durante i
primi anni, quelli della passione pura, aderii persino ad un sedicente club del
Toscano, andando in giro per l’Abruzzo a sfumacchiare insieme ad altri,
accompagnando il tutto con distillati e cioccolati. Arrivavano gli esperti
dalle concerie lucchesi, a spiegarci lavorazioni delle foglie di tabacco, le
stagionature e gli abbinamenti con gli alcolici. Per farla breve: una setta di
crapuloni nella quale mi confondevo bellamente, nonostante non avessi una lira
già da quei tempi lontani. L’illusione di essere un manager rampante con tanto
di barca ormeggiata al porto di Pescara e il maseratino per andare a sciare a Chamonix.
Facevo i salti mortali per nascondere la mia Ford station wagon di seconda
mano, nei parcheggi dei locali adibiti a cotali riunioni del vizio. Spesso mi
colpiva un aspetto, che avevo notato in altri consessi quali le fiere dei
materiali edili: la donna utilizzata come hostess di bella presenza, la quale
andava in giro per i tavoli a dispensare i sigari scelti all’uopo per procedere
alla degustazione. I più smaliziati nell’accettare quei sigari, già formulavano
improbabili congiunzioni carnali con le suddette ragazze, in un clima nel quale
l’odore del testosterone superava quello pur deciso del Toscano. Ero colpito
dal capitolo riguardante il mezzo per accendere il sigaro: mai utilizzare gli
accendini a benzina che avrebbero impregnato il sigaro irrimediabilmente,
preferibili erano i fiammiferi, ma bisognava aspettare che la fiamma arrivasse
al legno del bastoncino per evitare che la prima fumata sapesse di zolfo. Un
buon compromesso era dato dagli accendini a gas, visti senza infamia ne’ lode
dai puristi. Il sigaro ha la forma del pene: nel vizio del fumo si concentra un
insieme di visioni, desideri, aspettative e soprattutto attese che
caratterizzano una combustione la quale ha inizio e , irrimediabilmente, un
termine, proprio come nell’atto sessuale. Non ci ho mai pensato veramente in
questi ventidue anni. Ho vissuto alcuni momenti belli della mia vita
soprattutto perché sapevo che dopo avrei acceso un bel Toscano a completamento
della splendida giornata. Dopo il periodo della passione è arrivato quello
della consapevolezza e dell’abitudine, tempo nel quale dovevo decidere orari e
qualità della mia fumata: un Toscano Garibaldi o extravecchio poteva andare se
avevi iniziato la giornata con focaccia e prosciutto, un Antico era più gradito
dopo un pasto. Avevo aperto una parentesi con i cubani ma i sigari sudamericani
hanno bisogno di lentezza e ozio, come
se tenere in bocca un Macanudo ti facesse uscire da un romanzo di Amado. I
toscani li preferivo, perché potevo lavorare in mezzo alla polvere con il
mozzicone spento tra le labbra, una sorta di antidoto alla sporcizia, al puzzo
delle vernici, agli schizzi di cemento, alla segatura. Guardavo con una sorta
di venerazione, le fotografie contenuti nei libri sul Toscano che avevo
collezionato durante gli anni, mi colpivano i volti ruvidi dei contadini, dei
pescatori salernitani con i loro ammezzati in bocca, mentre tiravano su le
reti, dopo aver fatto colazione con le alici sul pane ed un bicchiere di vino.
Il tutto in un clima maschiale, peloso e volitivo. Con il tempo, feci una
cernita dei tabaccai migliori nei quali acquistare i sigari ( guai a comprarli
nei bar!), rivendite nelle quali avrei potuto trovare il mobiletto
deumidificatore. Riuscivo a capire da subito la qualità del tabacco, premendo
leggermente la pancia del sigaro, se troppo stagionato o troppo fresco.
Abbandonai le scatole di fiammiferi, per questioni di praticità e comodità,
preferendo l’utilizzo del semplice accendino a gas. Adesso, nonostante tanti
anni di fumate e tante storie ad esse legate, la cosa che più mi è rimasta
impressa è il momento dell’acquisto dell’accendino. Può sembrare strano ma,
ogni volta che chiedo un accendino al tabaccaio, egli direttamente evita di
darmi quello colorato di rosa e dirige la sua scelta verso altre tonalità. Perché?
Cosa c’è di strano in un accendino rosa? Vi posso assicurare che questa cosa mi
accade sistematicamente ad ogni acquisto di accendini. All’inizio la cosa non
mi turbava, ora rappresenta un gesto insopportabile tanto è vero che io rifiuto
la scelta arbitraria fatta dal tabaccaio e chiedo espressamente il rosa, sotto
lo sguardo attonito del commerciante, spiazzato da un muratore sporco di
cemento con mezzo toscano in bocca. Ciò accade anche se chi è addetto alla
vendita è una donna. Perché il rosa alle femmine e l’azzurro ai maschi? Nella
vendita di un oggetto si nasconde la forma mentis della persona e non è
necessario indagare oltre per capire che le categorie si precostituiscono già
dalla più tenera età, con la colpevole responsabilità dei genitori e degli
educatori. Il maschio è l’azzurro, come il principe, come il blaue reiter, come
il fiocco sul grembiule delle elementari. Il rosa è femmina, come la carne, come la
rosa rosa, come il Monte Rosa. “ Questa cosa mi sembra un po’ da femmine,
questa invece un po’ da maschi”. Che significa? Nello sguardo stranito del
tabaccaio che rimette a posto l’accendino, scelto al posto mio e prende quello
rosa, noto tutta l’impossibilità di costruire i rapporti umani basati
esclusivamente sul rispetto delle dignità altrui. L’ultima volta, una
ragazzina, forse figlia del titolare della tabaccheria, con la gioia di chi ha
appena iniziato a lavorare, alla mia richiesta di un accendino, ha allungato la
mano sul contenitore nel quale tre accendini rosa erano lì da soli, distanti
dagli altri diversamente colorati, prendendo quello nero che era in ultima
fila. Ho gelato le sue sicurezze dicendole: “ Non fa niente, mi dia quello
rosa, non diventerò frocio solo per questo</span></div>
laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-28818450751779808502019-02-23T00:30:00.000-08:002019-02-23T00:30:05.671-08:00Il puzzo della vittoria<br />
<br />
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Sto gonfiando il karma. Mi sto
preparando psicologicamente. Tutto accadrà quanto prima. Ho già allenato la
mente con una serie di sogni di felicità distribuiti, in ordine sparso, durante
le mie notti disturbate. Sono progetti di cose concrete che realizzerò non
appena<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>quello che ho previsto,
succederà, stravolgendo la mia vita e quella dei miei cari: vincerò all’Enalotto
o trovando il Gratta e Vinci fortunato. Non sono quando ma sarà così. Non una
cifra esorbitante ma la giusta quantità di denaro, sufficiente a coprire i miei
debiti e realizzare le cose che mi permetteranno di vivere in serenità l’ultima
parte della mia vita. C’è solo un ostacolo da superare: non gioco. Il fatto è
che costa troppo e ogni volta che entro in un bar o una tabaccheria e potrei
acquistare un biglietto vincente, evito di farlo, preferendo tenere in tasca i
miei soldi. Per ottenere risultati ci vogliono disciplina, impegno e
caparbietà, tutte doti che a me mancano. Dovrei minimizzare i costi, facendo
leva sull’ispirazione che mi condurrà senza grande esborso economico, ad
entrare in una rivendita e acquistare, al primo colpo, il tagliando che mi
cambierà la vita.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjBmJ6yzoefYZNaKMfE5bU4mgiMprU3ZsQn8XAuZgYnTK39KhK63Z3nUClerSCfxeVftzDQRGZxh20Mxzyd_Oincz-ZJJxFMFkfghLQLWRmfkETlIiX6asOfiQiFYjgzl8O74pzTbosOhA/s1600/126+copia.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="1005" data-original-width="946" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjBmJ6yzoefYZNaKMfE5bU4mgiMprU3ZsQn8XAuZgYnTK39KhK63Z3nUClerSCfxeVftzDQRGZxh20Mxzyd_Oincz-ZJJxFMFkfghLQLWRmfkETlIiX6asOfiQiFYjgzl8O74pzTbosOhA/s320/126+copia.jpg" width="301" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Mi vedo varcare la soglia di questo bar dove, muratori e
camionisti sono intenti a guardare lo schermo sul quale, i n continuazione,
vengono estratti numeri che non si allineeranno sulle loro schedine. Li vedrò
accartocciare le loro matrici con una smorfia di disappunto. Sarà in quel preciso
momento, il quale precede la formulazione di una nuova sequenza numerica da
parte loro e la fila presso la ricevitoria, che si creerà un vuoto nel flusso
dei desideri e delle speranze altrui. In questo nulla, sgombro dai sogni degli
altri, io avrò i numeri giusti. La sequenza scorrerà inesorabile sullo schermo,
mentre guarderò attonito l’allineamento astrale sulla mia schedina. Sarò
percorso da un rush caldo e tuttavia dovrò camuffare una certa indifferenza
nonostante la felicità inizi a pervadere la mia anima. In quel momento avrò gli
occhi puntati addosso e dovrò stare attento perché i miei contendenti potranno
circondarmi e, in combutta tra loro, strapparmi dalle mani la cedola vincente,
per appropriarsi dei miei denari e sotterrarmi nel retro del bar, dopo aver
fatto a pezzi il mio cadavere. Dovrò uscire dal locale con calma, entrare nel
furgone, mettere la sicura e allontanarmi senza andare troppo di fretta,
assicurandomi che i suddetti muratori e camionisti, accortisi in ritardo della
vittoria, mi possano inseguire e buttare la mia macchina sotto un fosso.
Arrivato a casa, potrò sfogare la mia gioia, urlando a squarciagola, nello sgabuzzino.
In seguito, arriverà il mome<o:p></o:p></div>
nto delle decisioni su come e se condividere la
vittoria con la mia famiglia. Potrei comprare una buona bottiglia e annunciare
l’accaduto a cena o realizzare tutto quello che ho progettato, di nascosto,
simulando ancora per qualche periodo lo stato di indigenza, per poi fare una
sorpresa agli altri. Ultima possibilità: potrei fare armi e bagagli, lasciare
la maggior parte della cifra a mia moglie e alle mie figlie e fuggire nello Sri
Lanka per realizzare il mio sogno di lavare elefanti per il resto della mia
vita. Lontano da casa però, abbandonerei la mia famiglia nelle mani dei soliti
muratori e camionisti i quali, dopo essere venuti a conoscenza del fatto che,
nel bar da loro frequentato, c’è stata una grossa vincita, potrebbero risalire
a me e oserebbero tenere in ostaggio i miei cari, costringendomi a tornare
dallo Sri Lanka, lasciando i miei elefanti insaponati. Una volta tornato, sarei
costretto, a cedere i denari vinti a questa banda di manovali, abbrutiti da
anni di sconfitte alle slot machine, incattiviti da Gratta e Vinci grattati
male, da numeri arrivati in sogno da zie e padri tornati dall’aldilà.
Camionisti convinti che numeri ritardatari, prima o poi debbano uscire, in
barba alle leggi del calcolo delle probabilità, come se i numeri avessero un’anima
o fossero benevolenti verso chi li invoca continuamente. I numeri non sono
riconoscenti, i numeri sono impietosi come quelli che contano gli anni passati
a sognare dei sogni che ti permettono di sopravvivere, sperando in un domani
migliore, domani che è appunto uno , il quale sommato ad un altro domani fa
due. A forza di contare si arriva al giorno in cui, non avendo mai giocato, per
paura di perdere, si è perso tempo e l’ultimo desiderio è quello che un bravo
artigiano faccia un buon lavoro, quando verrai tumulato nel loculo. Lo sapevo:
alla fine bisogna sempre fare i conti con un muratore.<br />
<br />laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-74364108355265558642017-02-03T09:14:00.001-08:002017-02-03T09:14:15.804-08:00Il Grande bianco<!--[if gte mso 9]><xml>
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-family: "Arial","sans-serif"; font-size: 10.0pt;"><span style="font-size: large;"><b>V</b></span>elia stava seduta
sul mucchio di pietra solitario, al centro del grande stazzo, vicino a
Beffi.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Si muoveva con prudenza, in quella
primavera del 51’, aspettava un bambino. Non importava se maschio o femmina,
l’importante era che Antonino non sarebbe andato a lavorare fuori dalla provincia,
per stare vicino a lei, almeno il giorno del parto. La donna era lì, sotto al
sole, Antonino era andato a prendere un po’ d’acqua da bere, in attesa della
Littorina che li avrebbe riportati a L’Aquila. Dal vecchio rudere vicino
udirono dei guaiti. Velia vinse la riluttanza del marito e si avvicinò al
vecchio capanno. Accanto al corpo di una femmina di pastore abruzzese morente,
c’era un cuccioletto in cerca del seno della madre. Velia si commosse ed il suo
pensiero si rivolse immediatamente alla creatura che aveva in grembo: “Se
anch’io morissi, cosa succederebbe a mio figlio?”. A sera sul treno verso
L’Aquila, il suo grosso cesto di vimini nascondeva le vivande ed il piccolo
cucciolo addormentato. Gli inquilini del casolare sotto la Stazione alla
Rivera, dissero che quel cane lì non ci poteva stare. Antonino, decise di
portarlo dall’amico, che aveva un orto proprio sotto il fiume Aterno. Lui e
Velia andavano spesso a trovare il cucciolo ed il cane ricambiava le loro
attenzioni con affetto smisurato, soprattutto nei confronti di lei. Si avvicinava
a Velia e posava delicatamente il testone sulla pancia quasi percepisse la
presenza di una piccola vita. In autunno Antonino e Velia si trasferirono su in
città, il parto era imminente e decisero, a malincuore, che il cane non sarebbe
venuto insieme a loro. Il cucciolone era lì, ogni giorno, vicino al cancello ed
aspettava invano l’arrivo di Velia per poterle mettere la sua testa nel suo
grembo. La piccola Rosaria nacque. Fu un parto difficile. La bambina fu
estratta con il forcipe e l’operazione le causò danni permanenti alla vista.
L’ortolano li venne a trovare in Ospedale e raccontò ai due genitori un fatto
strano: il cane, proprio il giorno della nascita della bambina, aveva iniziato
ad ululare ininterrottamente per tutto il giorno. </span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-family: "Arial","sans-serif"; font-size: 10.0pt;">Quando la piccola
Rosaria fu in grado di camminare, Antonino pensò bene di scendere verso
l’Aterno per andare a trovare il cane, che ormai era diventato un enorme
pastore, candido come la neve del Gran sasso.</span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi0qm2DzxWFDl5aVqwmnlbcx3_26uZSez3Tuck8oirO2Q4BSRMQYZVo5_M_8QfqxEcouH2jkVarMah0yOETGXILrUBBTaIohXqfjMzQhabIWmc7h7mMTPefq1GpxL1FudBjEMoIxnv5Qss/s1600/pastore-maremmano-morte-padrone-a-maiolo.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="177" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi0qm2DzxWFDl5aVqwmnlbcx3_26uZSez3Tuck8oirO2Q4BSRMQYZVo5_M_8QfqxEcouH2jkVarMah0yOETGXILrUBBTaIohXqfjMzQhabIWmc7h7mMTPefq1GpxL1FudBjEMoIxnv5Qss/s320/pastore-maremmano-morte-padrone-a-maiolo.jpg" width="320" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-family: "Arial","sans-serif"; font-size: 10.0pt;">All’inizio la piccola
Rosaria, la quale, al cospetto dell’animale, appariva minuscola, era intimidita
da quell’essere gigantesco le girava intorno scodinzolando. Lo stupore di Antonino
e dell’ortolano fu grande quando, approfittando di un momento di distrazione
dei due uomini, il cane si avvicinò alla bambina e si gettò a pancia all’aria,
per farsi coccolare, tra le risate argentine di Rosaria…</span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify; text-autospace: none;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-family: "Arial","sans-serif"; font-size: 10.0pt;"><span style="font-size: small;">1955</span>. Nevicò per
quasi dieci giorni. Non era stato un dicembre freddo, quello. Tutto lasciava
presagire ad un inverno come gli altri. Qualche fiocco, ma niente a cui la
popolazione aquilana non fosse abituata. Rosaria, guardava la neve, scendere
dalla finestra della camera, con le gambe poggiate contro il termosifone,
scaldato dalla grande caldaia a cherosene. Sulla rosa canina , che formava una
tettoia naturale, tra il muro della casa ed il recinto vicino la strada, si
posavano i grandi fiocchi. La neve faceva contrasto con il grande muro della
caserma degli alpini di fronte. “Quando torna papà?” si girava verso la madre
china sull’uncinetto, seduta accanto a lei. Rosaria non aveva ancora cinque
anni e già portava dei pesanti occhialoni da vista. Era una bimba precoce e già
leggeva qualche parolina. Si divertiva, con il suo atlante, a ripetere a
memoria tutte le capitali degli stati del mondo. Non era stata bene Rosaria.
Soffriva di frequenti ed abbondanti epistassi e questo preoccupava molto
Antonino. Cresciute le altre tre sorelle, era Laura l’ultima nata da Osvalda, a
prendersi cura ed a giocare con Rosaria. L’aspetto indifeso della bambina ed il
fatto che fosse la minore, faceva rivivere a Laura il momento in cui lei aveva
perso sua madre e di quanto lei fosse piccola in quel periodo. Passò Gennaio.
Il freddo si fece molto intenso ed il riscaldamento non bastava a mantenere una
temperatura soddisfacente in casa. Le ragazze si scaldavano avvolgendo la borsa
dell’acqua calda nelle coperte, oppure facendosi scaldare un mattone e
mettendolo sotto le lenzuola. Poi arrivò quella nevicata. Il quartiere si
trovava sotto le propaggini del Gran Sasso e la casa di Antonino era una delle
ultime case popolari prima della campagna aperta. La neve superò presto il
metro e mezzo. In quelle condizioni era difficile persino uscire di casa.
L’ultima notte, Rosaria iniziò a sanguinare dal naso. Un fiotto inarrestabile,
continuo. La neve cadeva sempre più abbondante, altissima, una muraglia. Nel
silenzio, ovattato della neve cadente, all’improvviso, ululati. Antonino si
fermò ad ascoltare, poi aprì la finestra della cucina: lupi!</span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify; text-autospace: none;">
<span style="font-family: "Arial","sans-serif"; font-size: 10.0pt;">Erano scesi, spinti
dalla fame ed ora si trovavano a poche centinaia di metri dal quartiere.
Rosaria peggiorava. Bisognava fare in fretta. Antonino vestì la bambina, la
avvolse in una coperta ed uscì. La strada fino al Torrione ed all’incrocio era
una distesa bianca. Sarebbe stato difficile camminare sulla neve fresca,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>non battuta per almeno tre km, fino alla
fontana luminosa e poi, da lì, fino all’Ospedale. I lupi sembravano vicini od
era la paura, la solita paura di Antonino, quella che lo aveva salvato tante
volte? In realtà, tra la neve non c’era nulla. Quegli ululati li aveva sentiti
solo lui. I lupi era i demoni, i demoni che bussavano alla porta, quando la
bambina stava male, oppure quando compariva nel sonno il volto di sua moglie
Osvalda. Antonino, riuscì a cacciare le vecchie racchette da neve dalla cantina
e si incamminò. Avvolse la piccola Rosaria in una pesante coperta di lana ed
inizio ad inoltrarsi nella muraglia di neve fresca che lo separava
dall’Ospedale. Stava salendo la strada che costeggiava il castello quando,
delle ombre veloci lo circondarono. I lupi avevano seguito le sue tracce ed ora
i loro occhi brillavano come fiamme nella notte biancastra. Ringhiavano, erano
pronti ad attaccare per saziare la loro fame. Tonio stringeva Rosaria al petto.
Giurò che avrebbe venduta cara la pelle, prima di cedersi alle fauci di quei
predatori. All’improvviso, dal nulla, un enorme pastore abruzzese, si avventò
contro le bestie, ingaggiando una sanguinaria lotta contro il capobranco.
Antonino guardava, paralizzato dalla paura. Il cane riuscì mettere i lupi in
fuga. Si avvicinò, il manto bianco inzuppato di sangue, al piccolo fagotto che
Antonino stringeva a sé. Strofinò delicatamente il suo muso sul corpicino
tremante di Rosaria quindi si girò e scomparve nella tormenta. Antonio arrivò
in Ospedale a notte fonda. La bambina era quasi congelata, ma questo aveva
bloccato in parte l’epistassi. Giorni dopo, Antonino scese al rione Rivera, per
andare a trovare il suo cane. Non c’era più.</span></div>
laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-70259856513521748032016-01-02T01:45:00.003-08:002016-01-02T01:45:31.807-08:00Il Panettone di Don Rocco.<!--[if gte mso 9]><xml>
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<b><span style="font-size: large;">I</span></b><span style="font-size: large;"><span style="font-size: small;">l</span></span> panettone troneggiava sul
piccolo piedistallo di porcellana finissima,<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>nella vetrina<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>dell’Antica
Pasticceria Fratelli Cenci. Tutti i paesani si fermavano a guardare quella meraviglia.
Uno zuccotto bronzeo, tenuto stretto da una carta decorata in motivi natalizi.
Anche Don Rocco Mariotti, il medico del paese ,tornando dall’ambulatorio, si
bloccò, attratto da quello visione Il dottore diede un tiro al suo mezzo
toscano, alzando il sopracciglio sinistro. Sì, era proprio un bel dolce. Non i soliti
dolci che la moglie Ida usava preparare sotto le feste. Quel panettone lo aveva
già visto, in televisione, nelle pubblicità del Carosello, al bar, quando tutto
il paese si riuniva per vedere Mike Bongiorno.<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>“Essè, lu galiuppe!” esclamava il barista. Tutti i presenti
favoleggiavano sulla bontà di quel panettone che il comico piemontese brandiva,
nello sketch in bianco e nero. “ Ci stanno pure i canditi dentro!” diceva
Pasquale la “Chi Chi”, lo stupido del paese “Me lo ha detto il mio compare, che
sta a Milano!”. Don Rocco aveva deciso: doveva avere quel dolce per Natale. Dall’altra
parte della vetrina, Nonna Adele, continuava a prendersela con il marito. “Possibile?
A momenti arriviamo sulla luna e siamo costretti ad andare in bagno, sotto in
cantina?” Il Cavalier Pietro Cenci, titolare della blasonata pasticceria, ormai
rimasto solo al comando, dopo la morte del fratello, ascoltava quella tiritera
da qualche mese a questa parte. “Adè, il balcone della camera da letto, già lo
abbiamo chiuso con la vetrata, il lavandino ci sta. Manca solo la tazza;
vedrai, prima di Natale arriva e la montiamo giusto in tempo per le feste!” Ma
Adele non volle sentire ragione. Costrinse<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>Pietro ad andare a sollecitare Terenzio, proprietario della bottega
“Merce Varia”, una sorta di magazzino, allestito in un vecchio fondaco, dove si
poteva trovare di tutto, dai mattoni alle olive in salamoia. “Cavaliè,
purtroppo i cessi buoni non mi sono arrivati, il Trigno ha straripato ed il
camion che veniva da Vasto è rimasto in panne. C’ho qualche tazza, ma è di
quelle di pessima qualità: una porcellana sottile che sembra la carta velina.
Va bene per il bagno della stalla ma, per una casa no.” Il Cavalier Cenci
mostrò tutto il suo disappunto. Poi, dopo aver considerato, le conseguenze di
un mancato montaggio del sanitario, sui rapporti coniugali, decise” “ Vabbuò,
prendo quello che avete! L’importante è che chistu’ ciesso venga pronto per
Natale”. Nel pomeriggio il bagno fu montato per la gioia della famiglia, la
quale, tutta al completo, volle presenziare alla “quagliatura” del nobile
presidio igienico. La notizia del “montaggio” arrivò perfino al bar del paese,
dove qualche temerario espresse forti <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>dubbi sul fatto che un donnone come Adele
avrebbe potuto usufruire del gabinetto lungo e stretto, costruito sul balcone.
Donna Adele era stata una bella donna molti anni prima, ma ora… I seni
prosperosi, con gli anni ed il lavoro vicino al forno, era diventati delle
zavorre pesanti e cadenti, tenute da reggiseni rinforzati. I fianchi
mediterranei erano deragliati in un ciambellone di ciccia che contrastava la
gravità solo grazie alle “panziere” di lana marrone.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Quello che impressionava di più era l’enorme
sederone, cresciuto negli anni a forza di assaggiare dolci. Le uniche vestigia
di gioventù erano le gambe: snelle nervose, dalla caviglia sottile,
miracolosamente scampate a questo naufragio corporale. I nipoti la chiamavano
“Nonna Tacchina” perché, sembrava proprio un volatile da cortile. La sera della
Vigilia, Donna Adele e il Cav. Pietro erano stati fino a tardi in pasticceria a
preparare le ordinazioni per il pranzo del giorno dopo. Don Rocco era passato
ad ordinare il panettone, raccomandando di impacchettarlo in una confezione, da
poter ostentare a tavola, per l’invidia dei parenti. I coniugi Cenci andarono
alla messa di Natale in fretta e furia. Donna Adele commise l’imprudenza di
coprirsi poco.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Quella notte di Natale fu
particolarmente fredda.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Tutti dormivano.
Tutti tranne Adele. La temperatura e la fatica avevano risvegliato le sue
coliche intestinali. Si rigirava nel letto in preda ai dolori. Il marito non si
accorse di nulla, tanto era sotterrato dal rantolio profondo del suo russare.
Adele non ce la faceva più. Una fitta più dolorosa delle altre , la fece
scattare dal letto. Non poteva fare in tempo ad arrivare fino al bagno del
piano terra. Aprì, la porta del balcone, sollevando velocemente la vestaglia.
Dondolando, si lasciò cadere sulla tazza. Il rumore del sanitario in frantumi,
fu sordo. Subito dopo, un urlo di dolore, intenso, lungo, lancinante, squarciò
il silenzio della Santa notte. Il sederone bollente di Adele aveva avuto un
effetto dirompente sulla tazza di pessima qualità, ghiacciata a causa del gelo
notturno. Il Cav Cenci saltò dal letto. La scena che si trovò di fronte, una
volta entrato nel stretto bagno, superò la sua fantasia: Donna Adele seduta per
terra, a culo nudo, sul cumulo di frantumi di coccio. Don Rocco Mariotti ebbe
il suo panettone quella notte. Ma non fu quello che aveva visto in vetrina. Fu
il sederone di donna Adele sotto i riflettori del suo ambulatorio, sederone dal
quale, il dottore, passò tutta la notte a levare, con la pinza, decine di pezzi
di porcellana.</div>
laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-48492067139676294142015-01-09T07:31:00.001-08:002015-01-09T07:31:09.434-08:00Il Fattore Umano<!--[if gte mso 9]><xml>
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<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<b><span style="font-size: large;">Non</span></b> era questo, ci</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhGe7a8MoC9kkqksj0t7v_Zv7bJcBNOyb-CoDr1q2QBTDhLdSUMPFRvBdixSHHfclbfT0rWr4xMGtTO4UUyl0qKR8LdOSN8dtuVfulRsjl8MpDxJNR_vEzOIylM9ujHO6CcGiDLnkMK_yM/s1600/piedi.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhGe7a8MoC9kkqksj0t7v_Zv7bJcBNOyb-CoDr1q2QBTDhLdSUMPFRvBdixSHHfclbfT0rWr4xMGtTO4UUyl0qKR8LdOSN8dtuVfulRsjl8MpDxJNR_vEzOIylM9ujHO6CcGiDLnkMK_yM/s1600/piedi.jpg" height="300" width="400" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
ò che avevate
promesso. Ricordo ancora quelle parole, noi, seduti tra i banchi di scuola. Una
professoressa occhialuta, di quelle che avevano studiato Kant ed Hegel, solo
per scappare dalla durezza di una vita, altrimenti relegata a far da moglie ad
un pescatore di una sperduta isola dell’Adriatico. “Ricordate – sentenziava –
ciò che conterà nel lavoro dei prossimi anni, sarà il fattore umano!” . Lo
diceva a noi, poveri studenti del liceo classico, pieni di brufoli e alquanto
arroganti, convinti di frequentare una scuola di elite, di quelle che “aiutano
a ragionare”. I genitori rincaravano la dose, ostacolando qualsiasi deviazione
dal percorso, tipo frequentare coetanei di istituti professionali. La manualità
era bandita, quasi fosse una colpa grave, per un giovane, amare le scintille di
una saldatrice o emozionarsi al suono di un motore riparato. La lingua greca
avrebbe vinto, ne eravamo tutti convinti. Tutti ad aspettare l’avvento delle
nuove stoà, delle agorà, delle piazze ove noi, spiriti illuminati, avremmo
vissuto, parlando dell’amor che move il sole e l’altre stelle. Eravamo pronti
costruire i ponti con l’aiuto di Cicerone, discutendo di Lucrezio con il
capomastro. Questo credevamo e questo ci avete fatto credere. Nel Falansterio,
nel Familisterio, dove sarebbero cresciuti amore ed empatia, le moderne
fabbriche, liberate dal peso del capitale, sarebbero state produttrici di aretè
anche per gli operai più umili. Tutti avrebbero mangiato, avrebbero fatto all’amore,
avrebbero vissuto dignitosamente e sarebbero invecchiati aspettando la buona
morte con un testo di Italo Calvino fra le mani rugose. La società che ci
avevate prospettato, era lì, sotto i nostri occhi ed avrebbe concesso i suoi
doni una volta che avessimo conseguito la nostra laurea, da esibire al popolo
tutto, come razza eletta. Le prime crepe nel muro le notammo sul finire degli
anni ’80 quando, le mura vere crollarono, portando con loro polvere e macerie e
liberando i demoni chiuse nelle segrete dei popoli costretti ad impossibili
convivenze. Così, ci siamo trascinati, ventenni e poi trentenni, alla ricerca
di questo fattore umano, quasi fosse un santo Graal, tra le pulizie etniche,
uomini barbuti con i turbanti, segretari di partito pigliatutto ed organizzazioni
criminali con pulsioni da finanza creativa. Sono arrivati i quarant’anni e
molti di noi hanno rinunciato. Alcuni hanno capito il meccanismo ed ora ci
guardano dalle loro scrivanie con la lampada verde, dagli sportelli dei Suv con
gli sci dell’ultima vacanza a Cortina, dai banchi di una chiesa durante il
tempo libero. Noi siamo ancora qui a chiederci il significato di quelle parole
rivolte a noi studenti perché avessimo fiducia nel futuro, nell’avvento della società
dei giusti, noi, a bocca spalancata nell’udire le meraviglie prospettate dalla
nostra professoressa…cara professoressa…non potevi farti i cazzi tuoi?</div>
laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-44932601951929737582014-09-25T06:28:00.001-07:002014-09-26T13:03:33.146-07:00Pissin' in a bottle<!--[if gte mso 9]><xml>
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<b><span style="font-size: large;">N</span></b>on parlo mai del mio lavoro. Non
c’è niente di speciale, in fondo. E’ un ‘attività che ho intrapreso,
agli inizi per divertimento e per tirar fuori qualche soldo che mi consentisse
di tirare avanti, nell’attesa della laurea. Con gli anni si è sostituito alle
mie ambizioni da architetto, per assumere un ruolo centrale nel sostentamento
della famiglia che si stava formando. E’ stato facile iniziare come ho fatto
io. Una scala, due pennelli, pinza e martello e la voglia di imbrattarsi di
vernice. Poi è arrivata la fase “professionale”, quella in cui si seguono
corsi, si prende la partita Iva, si va in banca a chiedere prestiti per il
furgone, per i trapani, per i trabattelli, per saldare i fornitori. Ho pagato
personalmente gli errori, imparando da essi, continuando a sbagliare. Mi
piaceva il mio lavoro. E’ un po’ come un’amante. Dapprima la passione,
l’applicazione, la dedizione, poi la routine, il lavorare di “mestiere”. Ora
questa attività mi procura amarezze. Non è più ciò che speravo. Paradossalmente,
all’esperienza, la quale mi permette di essere “efficace” più che “efficiente”
, non corrisponde un miglior tenore di vita, anzi. <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Ora che riesco a fare le cose a "regola d'arte", senza quegli sforzi che mi tenevano in cantiere fino alla domenica,
qualche anno fa, sento che c’è il vuoto. L’unica cosa che vivo con piacere, del
mio lavoro, è la possibilità di entrare nell’animo dei miei clienti, di
studiarne, la psicologia, le nevrosi, i gusti, talvolta anche i piccoli drammi
familiari. Negli oggetti posati sugli scaffali, nei quadri, nelle piccole cose
sistemate in cucina, nella disposizione dei letti, leggo la vita delle persone.
Niente è più rivelatore dell’intimità umana, quanto ciò che è contenuto in un
appartamento. Spesso maledico la mia sorte quando, realizzo cose stupende, le
quali non potrò mai replicare in una casa mia, perché vivo in affitto. In
questo senso, la mia amarezza sale in proporzione alla<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>qualità di ciò che mi viene richiesto e di
cui non godrò mai i frutti. A parte qualche foto, sono costretto a rimuovere
dalla mia memoria il senso di compiuto , di fresco, di comodo, di bello, ogni
volta che riconsegno un appartamento o vedo il sorriso sul volto dei miei
clienti. A volte ci sono problemi. Se è vero che riesco a decifrare la psicologia di chi mi commissiona un lavoro, ogni lavoro allo stesso tempo, mette a nudo i miei
limiti e mi indica cosa posso e so fare e cosa non riesco a fare bene.<span style="mso-spacerun: yes;"> Quello</span> che riuscirò a ricordare
veramente, di ciò che ho creato, prima di lasciare questa terra,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>sarà la quantità di bottiglie piene di urina di cui ho disseminato i cantieri, nel corso degli ultimi venti anni. Non è un sorta
di turba sessuale od una pratica feticista: è pura necessità. Mi è capitato di
lavorare in cantieri nei quali non fosse possibile usufruire dei servizi
igienici, per molte ragioni: sia perché i sanitari non erano ancora stati
montati, sia perché si trattava di case isolate. Tuttavia una volta si è
presentata una situazione differente. Ho esaminato superficialmente il cliente,
scambiando la sua ossessività per zelo. Sbagliavo. Si è trattato di una
casalinga con manie igieniste e nevrosi compulsive. I nodi sono venuti al
pettine, alla prima richiesta di poter usufruire delle “infrastrutture
igieniche”, la signora, con piglio fermio e deciso, mi ha negato la possibilità
di accesso alle “facilities” , senza addurre motivazioni plausibili. Non
esistendo pubblici esercizi nelle vicinanze e lavorando in altra città, ho
tentato di “contenere” il problema il più possibile ma, solo una voce insistente
ha iniziato a prendere corpo nella mia mente: quella di mia nonna. Nonna è
stata per decenni una “stitica” da record ma una cosa spesso mi diceva: “ se
non cachi, cacherai, ma se non pisci, creperai”. Così ho deciso. Dovendo
eseguire lavori per un mese in quell’appartamento, senza inimicarmi i proprietari
e senza potermi allontanare dal luogo di lavoro, ho iniziato a pisciare
regolarmente nelle bottiglie dell’acqua minerale, dopo averle bevute. Risultato
alla consegna dei lavori e dell’assegno da parte della signora, dodici bottiglie
da un litro e mezzo di urina di pittore. Alle vive proteste del cliente, ho
risposto con una sola frase: quella che mi ripeteva nonna Velia.</div>
laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-73492843231280842492013-11-29T23:42:00.001-08:002013-11-29T23:43:29.474-08:00L'ultimo bicchiere<!--[if gte mso 9]><xml>
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Arial,Helvetica,sans-serif;"><span style="font-size: large;"><b>L</b></span>’uomo tirò fuori dalla sacca
sgualcita, un cartoccio dalla forma allungata. Il terrazzo che si affacciava
sulla grande piazza era illuminato dal sole filtrato dalle nubi grigie dei
palazzi in fiamme. Una nebbia giallastra sul lastrico sottostante, avvolgeva le
carcasse delle auto e le carlinghe degli aerei anneriti dalle esplosioni. – Ti
aspettavo- disse al suo ospite – E’ la nostra ultima occasione per stare
insieme-. Preparò il tavolino ottenuto da una portiera di una utilitaria. Sulla
catasta di legna ardente, stava un pentolone malconcio. Il liquido nella tanica
bolliva , lasciando trasparire tranci di carne, il cui odore copriva a sprazzi
le mefitiche esalazioni dei fuochi sottostanti. L’uomo si alzò per andare a
girare , con amorevole attenzione il bollente intingolo. Mancava solo un’ora e
tutto sarebbe finito, per tutti. Ma l’uomo aveva calcolato i tempi di cottura.
Il suo ospite di spalle non si muoveva, come aspettasse solo il momento di
mangiare. Da lontano si udivano le esplosioni ed il cielo era tagliato dagli
aerei che precipitavano al suolo con schianti fragorosi. I due esseri
guardavano quello che accadeva con indifferenza sorprendente, tornando subito a
porre la loro attenzione sulla pentola che bolliva. Da una radiolina giungevano
le voci dei cronisti i quali descrivevano le scene apocalittiche con voci
congestionate dalla disperazione, per coloro che erano rimasti. No, non c’era
più nessuno. I pochi superstiti, girovagano tra le macerie di quelle che erano
state fino a poco tempo prima le loro città.<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>Nel cielo le astronavi stavano abbattendo i pochi aerei rimasti. Tra
qualche ora tutto sul pianeta terra sarebbe cambiato. L’uomo, ultimo superstite
della sua razza, aveva di fronte il primo essere che avrebbe sostituito i terrestri,
ma sembrava non preoccuparsi della sua sorte. Tenendo stretto il suo cartoccio,
continuava a girare il sugo. –Vedi- disse<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>– era l’ultima lepre che correva libera nel prato vicino la mia vigna. Avevo
un solo colpo nel fucile. Ho preferito usarlo per lei piuttosto che per uno di
voi, altrimenti non mi avreste mai preso-. L’ospite emise un grugnito metallico.
– Ma questo ti farà peggio della mia pallottola – lo interruppe l’uomo. L’ospite
si irrigidì: dai monti all’orizzonte, il grosso fungo si alzò nel cielo, lento,
enorme. – Abbiamo mezz’ora prima che le radiazioni arrivino fino qui, passami
il piatto- L’ospite tese una mano artigliata. L’uomo iniziò a posare i pezzi di
carne ancora fumanti, bagnandoli con il sugo. – stai attento perché scotta-
avvertì il suo ospite. Poi con un gesto ieratico, scoprì quello che il
cartoccio nascondeva: una bottiglia di vetro verdastro. – Porgimi il tuo
bicchiere- disse. Il gorgoglio, del liquido violaceo, sembrò per un attimo
zittire le esplosioni lontane. L’ospite fissò il bicchiere, i cui riflessi
erano esaltati dai lampi dell’artiglieria extraterrestre. – Qui su la terra
usavamo brindare con questo liquido, alla nostra vita … Ora brinderemo anche a
voi, nuovi padroni della terra! L’uomo ,dopo aver fatto roteare il bicchiere
sotto il suo naso, chiuse gli occhi, quindi sorseggiò lentamente. L’ospite dopo
aver assistito alla scena, fece la stessa cosa. Mentre l’extraterrestre beveva,
l’uomo lo osservava. – Che ne dici? – disse. L’ospite emise un verso che non
aveva bisogno di traduzioni. Ormai la grande radiazione era vicina e la
bottiglia era finita. - Ti ho voluto fare questo dono per farti capire cosa è
stato capace di creare l’essere umano: il vino. – Disse l’uomo. L’ospite rise. –
Ma c’è un particolare –. Quella che avete distrutto, quando mi avete catturato,
era l’ultima vigna esistente sul pianeta terra è questa era l’ultima bottiglia.
L’ospite emise un ruggito rabbioso. – Avete perso, anche se occuperete il
pianeta terra e l’uomo non ci sarà più. Avete perso ed io ora vi ho fatto
comprendere cosa avete per…- La grande radiazione coprì la sua voce.</span></div>
laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-84759195483244275742013-08-27T14:54:00.004-07:002013-08-27T14:54:47.700-07:00Il Cinghiale<!--[if gte mso 9]><xml>
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<br />
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "Helvetica Neue",Arial,Helvetica,sans-serif;">Quella fu la prima volta che lo vide.</span></div>
<span style="font-family: "Helvetica Neue",Arial,Helvetica,sans-serif;">
</span><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEitqlkKI9VzMWFPU32OERuQXUjsbkHG9zc7WRGXl3HzDQPKNZJ6jZk8KlhnKmSgVMLjrWiduIKHg84S8ULx5SfU56PYksVEBgtsAyKpZ92Ocuvn51KvBrg8t6ju8gYWs8GB8D-qw0mfMjw/s1600/cinghi.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="97" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEitqlkKI9VzMWFPU32OERuQXUjsbkHG9zc7WRGXl3HzDQPKNZJ6jZk8KlhnKmSgVMLjrWiduIKHg84S8ULx5SfU56PYksVEBgtsAyKpZ92Ocuvn51KvBrg8t6ju8gYWs8GB8D-qw0mfMjw/s400/cinghi.jpg" width="400" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Helvetica Neue",Arial,Helvetica,sans-serif;">Gironzolava sotto la Font a
balle, come può fare un ragazzino troppo piccolo per fare il contadino e troppo
grande per stare davanti casa. La discesa non era ancora coperta dai canneti e
dalle acacie. Ai lati della discesa, fossi scavati dalle bombe di mortaio,
pietre, pezzi di ferro e quella specie di pigna che attrasse la sua attenzione.
Giggino la prese in mano. Era una pigna di ferro con un anello in cima. Giggino
ne aveva viste tante. Tirò con forza l’anello. Fu allora che lo sentì arrivare.
Era un’onda, una folata di vento tra le foglie, un ansimare di bestia, un
ringhio feroce, un tuonare di zoccoli. Le urla si sentirono fino alla piazza,
tra le macerie delle case di San Leonardo, nella navata della chiesa sventrata
dalle bombe. A sera il Dott. Gaeta riuscì a salvargli solo un occhio. La mamma
guardava Giggino sconsolata. Dall’unico occhio rimasto, di un azzurro intenso,
nascosto a malapena dai lunghissimi capelli ricci, spuntavano lacrime di dolore
copiose. Fu così che Giggino rimase con quell’orbita vuota. Non avevano i soldi,
nel dopoguerra, per ricostruirsi la casa, a San Leonardo, figuriamoci per
comprare un occhio di vetro a Giggino. Ma Giggino la notte, lo sentiva passare
quel cinghiale sotto casa, lo sentiva passare il giorno, quando giocava con gli
altri bambini ed inciampava, perché non metteva bene a fuoco gli ostacoli. Non
ne poteva più Giggino di quella bestia e si ripromise, quando fosse stato
possibile, di cambiare vita, di scappare in Germania. Gli italiani andavano per
la maggiore, in Germania. Erano lavoratori indefessi e si abituavano a vivere
come bestie, sopportando silenziosamente il disprezzo dei tedeschi, che ancora
li ritenevano dei traditori e dei voltagabbana. Trovò subito lavoro nelle
acciaierie di Dusseldorf, Giggino. Pur di riuscire a comprarsi un occhio di
vetro faceva due turni consecutivi da otto ore. I compagni di lavori lo
consideravano una bestia. Dalla visiera del casco spuntava, accanto ad una
benda nera sull’occhio, l’altro occhio come un fanale carico di rabbia. Pochi
si avvicinano a Giggino e lui li ricambiava con la stessa moneta. Ma, a sera,
nella sua baracca, seduto sulla branda, tirava fuori da sotto il cuscino una
vecchia foto di San Leonardo, una foto scattata in un campo sulla strada per
Villa Torre, dentro l’oliveto secolare di Tommaso. Anche Tommaso era emigrato,
in Canada e gli aveva lasciato l’orto e l’uliveto da accudire. Giggino lo aveva
fatto fino a pochi giorni prima di partire per la Germania. Giggino lavorava
ormai ininterrottamente da due anni nella fonderia, per due turni al giorno,
senza fare un giorno di vacanza. Fu proprio la mattina della viglia di Natale
che lo vide di nuovo. Durante la fase della colata, lui e suoi compagni si
apprestavano a far saltare i residui liquidi di acciaio che ostruivano la bocca
dell’altoforno quando, una bolla di gas trasformò la colata in un’esplosione.
Giggino udì altissimo il rantolo della bestia ed i suoi zoccoli sulla schiena.
Fece appena in tempo a saltare lontano. Il getto incandescente travolse i suoi
tre compagni, carbonizzandoli. Erano italiani e la tragedia non scosse più di
tanto i superiori né fece interrompere la produzione. Ma Giggino si svegliò da
quella trance fatta di lavorò massacrante, calore e fumo. Il giorno dopo prese
la valigia e scappò in Belgio. “Vedrai, si sta bene nelle miniere” gli diceva
l’amico Peppone, che ormai ci lavorava da qualche anno. Giggino fu spedito dopo
qualche giorno, a trecento metri di profondità. Mentre l’ascensore veniva
inghiottito dalla terra, iniziò a sentire, flebile, il sottile respiro della bestia.
Non poteva essere, anche lì, lontano centinaia di km da casa, il cinghiale lo
aveva trovato. Si tappò le orecchie per non sentire. Alla fioca luce della
lampade dei caschi, gli operai vennero indirizzato nei culi, all’interno dei
quali doveva estrarre il carbone, allungati con un piccolo trapano pneumatico
in mano. Lì sotto, allungato, con centinaia di metri sopra la testa, respirando
carbone e aria malata, lo sentì, il morso della bestia. Il cinghiale gli aveva
afferrato le caviglie e le dilaniava. Giggino fu preso dal panico, ma così
allungato, con la schiena puntata contro la roccia, poteva solo urlare di
disperazione. Svenne. Si risvegliò e decise che quello non era posto per lui.
Era tempo di tornare a casa, a San Leonardo.<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>Con i soldi racimolati, riuscì finalmente a comprare un occhio di vetro.
In Abruzzo qualcosa stava cambiando. Iniziavano a sorgere le prime industrie <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Giggino trovò lavoro in una fabbrica di
vernici. Si facevano gli scherzi tra di loro, rendendo più leggero quel lavoro
velenoso, senza maschere di protezione, senza occhiali, senza guanti. Ficcavano
sotto il naso, ai malcapitati, stracci imbevuti di ammoniaca pura, senza
prevedere quello che sarebbe accaduto in seguito. Lo capiva ora,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Giggino, quando si svegliava la mattina e si
toglieva la maschera dell’ossigeno, quando sentiva mancare il fiato, per fare
due scale, quando sveniva anche solo per stare seduto sulla tazza del cesso.
Era lui ora, ad avere il rantolo della bestia, quella bestia che aveva creduto
di scorgere poche volte, ma la cui presenza, avevo sentito tutta la vita. Era
vecchio ormai Giggino e passava le sue giornate tra la piazzetta di San
Leonardo, con gli amici e il piccolo pezzo di terra da curare, sotto alla
Font’a balle. Il viso segnato dalle rughe di un respiro ormai strozzato in
gola, a cercare aria in quei polmoni colabrodo. Su tutte una ruga come un nervo
riottoso, gli tendeva la palpebra sotto quell’occhio di vetro, tenendolo ancora
più fisso, inquietante, mentre il resto del volto si muoveva in altre direzioni.
Fu così che guardò per l’ultima volta Mariano, mentre scendeva a prendere
l’acqua alla fonte, con il suo trattore. Ma lì, da una siepe, Giggino non vide
arrivare la bestia dalla parte dell’occhio finto e quando gli fu davanti,
all’improvviso lo aggredì con la furia di un demonio che non esiste. Sbandò
Giggino, cadde dal trattore ed il trattore, come un grosso cinghiale abbattuto,
gli si rovesciò addosso.</span></div>
<span style="font-family: "Helvetica Neue",Arial,Helvetica,sans-serif;">
</span><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-40032093150040805822013-03-16T09:09:00.003-07:002013-03-16T09:09:42.100-07:00La paletta del destino<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjITkgfj2MQAFNezjQFZqBAb4Bszyp6vH934ZxTXZuG_bkMCT96tW7f46ApB4i27URDZaH28chbgZk6CsTLP9XUv_sxkI0C6kJfcTEFcezumYQsBlvgPkv2fvwMVOWSTa7dRwTGwGH12n0/s1600/blog+one.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjITkgfj2MQAFNezjQFZqBAb4Bszyp6vH934ZxTXZuG_bkMCT96tW7f46ApB4i27URDZaH28chbgZk6CsTLP9XUv_sxkI0C6kJfcTEFcezumYQsBlvgPkv2fvwMVOWSTa7dRwTGwGH12n0/s320/blog+one.jpg" width="255" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<b><span style="font-size: x-large;">L</span></b>ungo la schiena scorre lenta la goccia di sudore. L'abbiamo scampata. Adesso il piede è più pesante sull'accelleratore, ma l'ultimo chilometro è stato interminabile. Certo, andare in Facoltà con la macchina che ti ha prestato mamma dovrebbe rappresentare un'ottima alternativa all'autobus dell'Arpa, reso simile, a causa dei semafori francavillesi, ad una carovana andina con tanto di pollame sul portapacchi. Senza togliere la possibilità di farsi quei trenta km con gli Slayer a palla. Nel 1990 sono al massimo della forma, nelle vesti di metallaro truzzo e cotonato. Vado a comprare le mie scarpe da basket da Challenge che, a quei tempi, era un piccolo negozietto alle porte di Pescara. Arrivo con la mia copia di Metal Shock e chiedo alla proprietaria se ha le scarpe come quelle di Hetfield in copertina o come quelle di Steve Harris. Sono un bel grezzone. Il capello è ancora folto e mi permette qualche pettinatura hard con tanto di bigodini. L'aspetto generale è quello di un ventenne tipica preda degli spacciatori ed ambìto per la pratica della perquisizione anale da parte delle forze dell'Ordine. La macchina di mammà è una A112 elite, che sgomma anche in seconda, con due adesivoni degli Slayer e dei Gun'n'Roses, sullo sportellone posteriore. La dotazione amp è composta da una autoradio Bandrige più piccola del vano radio, la quale rimane attaccata ad esso solo per i cavi. La Radio, acquistata da tale Rosvelto (così battezzato in onore del Presidente americano), per la modica cifra di lire venticinquemila, riproduce solo audiocassette. Così, esco di casa quel pomeriggio, per andare a prendere il mio compagno di studi, Cristian. Cristian ed io ci siamo conosciuti in facoltà e condividiamo qualche lezione. Cristian è tutto il mio opposto: sempre vestito in modo adeguato, lavora già per qualche cooperativa di servizi e si sa muovere molto bene nell'ambito politico. Spesso ci troviamo a discutere per le differenze di vedute ma ,tutto sommato, siamo complementari. vado a prendere Cristian e, nell'impeto della sboronaggine, giro in Piazza Plebiscito, presso la fermata del bus, per vedere se possiamo caricare qualcun altro. Alla fermata dell'autobus troviamo Nico L., nostro amico comune. Nico è un palestrato col capello più lungo del mio ed un vistoso orecchino. Porta uno di quegli orribili spolverini tipo Raf anni 80 ma , considerando i crimini della società negli anni seguenti (vedi le versioni sado maso di Irene Pivetti) è un orrore sopportabile. La macchina, così assortita, potrebbe già costituire di per sè, oggetto di studi da parte di volanti della polizia e finanzieri travestiti da tossici. Una A112 con due capelloni ed un pseudo boss stile Al Capone, ha poche motivazioni per viaggiare lungo la costa: trasporto di carico fresco erbe ed affini, riscossione pizzo macellerie e pizzicagnoli, spedizione punitiva zingari ad importunatori sorelle. Niente di tutto questo. Tre ignari cazzoni che non hanno nulla da nascondere. Ma il destino è treccartista. Subito dopo avera caricato Nico ed ingranata la marcia, un omaccione corpulento si pianta contro il cofano anteriore dell'auto, costringendomi ad una frenata che manco Raikkonen. Trattasi di tal A. Mistror., noto tossicodipendente ortonese, a quei tempi benvoluto da tutte le questure del chietino, famigerato per il suo famelico appetito. Ero stato testimone, qualche anno prima, di una serata presso una tristissima festa dell'Unità, nella quale, piantatosi presso lo stand nel quale lavoravo, aveva ingurgitato centoventi arrosticini e cinque litri di birra. A. M. si fa un sacco di pere ed è la punta di diamante degli strafattoni ortonesi. Ora me lo trovo a sbarrarmi la strada. La A112 emette un rantolo come volesse dire: "Ejacrist!". Senza preamboli A.M. mi dice di abbassare il finestrino e mi apostrofa con parole che sembrano più una minaccia che una supplica: "Uagliù, dovete portarmi a Pescara!". Guardo velocemente nello specchietto retrovisore: il volto di Cristian ha lo stesso colore del suo cappotto grigio ed il cranio si è visibilmente rimpicciolito tanto che il cespo dei suoi riccioli sembra grande come il suo barboncino Popi. Non percepisco più la temperatura di Nico, seduto al mio fianco, sento solo il raschiare del suo pomo d'Adamo sulla gola, come a voler disperatamente cercare l'ultima goccia di saliva. meccanicamente, come un condannato a morte si alza, si mette dietro e lascia sedere il tossicone. Così inizia il nostro viaggio verso l'ignoto, insieme a Caronte che, a differenza di quello di Dante, lascia a me la guida verso l'Averno. Nella macchina non vola una mosca, posso percepire soltanto il respiro pesante dei miei due compagni di sventure,seduti dietro. C'è un sole nitido e lucente, ma scende il buio sui miei occhi, il buio quando vedo,ungo il rettilineo del Riccio, un posto di blocco dei caramba, con tanto di brigadiere in stivaloni mitraglia e paletta , sul ciglio della strada. Sudo come un Cristo prima che lo inchiodino. Percepisco uno strano nervosismo da parte di questo obeso Lou Reed. Si è accorto dell pattuglia ed inizia a mettersi le mani sulla faccia, tentando di aggiustarsi sul sedile, quasi volesse farsi più alto per nascondere la faccia sul bordo superiore della carrozzeria. Di colpo abbassa il parasole. E' certo. A.M. ha qualcosa da nascondere. Due le opzioni: ho non può andare a Pescara per qualche ragione legale o deve andare a Pescara perchè deve vendere qualcosa. Ma le porte dell'inferno non sono abbastanza larghe, perchè si aprono sotto di noi, nonostante si tenti di rimanere attaccati alle maniglie della mia A112. Così, ad appena duecento metri dal caramba palettato, A.M. visibilmente bianco in volto, si gira verso di noi e con voce simile a quelle di un dottore che vi diagnostica il tumore, ci dice: "Uagliù, se ci fermano, è finita." Anche il rombo del motore è muto, le mie orecchie sono ovattate. Guardo per inerzia lo specchietto retro e scorgo lo sguardo vitreo e perso nel vuoto dei miei fratelli di sventura, che leggono gli ultimi istanti della loro vita per bene sul ciglio della strada. Arrivo a cinque metri dalla pattuglia. Guardo una sola cosa: la paletta rossa stretta nelle mani del carabiniere, pronta ad alzarsi con gesto meccanico. Ma questo non avviene. Probabilmente qualcuno scoreggia in macchina, perchè la tensione degli orifizi si allenta di colpo. Il resto del viaggio, non lo ricordo. So solamente questo: da quel giorno, quando vedo uno strafattone sul bordo della strada, cerco di finirlo, sterzando di colpo.</div>
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laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-19501836592259312812013-02-17T14:02:00.000-08:002013-02-17T14:02:03.202-08:00I'm out of touch<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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<b><span style="font-size: large;">D</span></b>omenica di febbraio. C'è qualcosa che attrae in modo irresistibile verso il mare. E' come se le mura di casa, l'orizzonte chiuso ti soffocassero; devi assolutamente cercare un luogo aperto alla visuale, per poter respirare. Se non vado in bici per i miei soliti allenamenti, vado al mare. Il cane mi guarda, è pronto per entrare nel furgone, lo sa che andremo in spiaggia.</div>
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E' strano notare la stessa ansia in lui, la stessa voglia di fare quattro passi sulla riva, la mattina presto. Non c'è nessuno. La spiaggia è ancora "fuori uso", ad aprile ci saranno i primi preparativi per la nuova stagione. Metto in cuffia un pò di musica e passeggio guardando i primi chiarori. Questa mattina è stato diverso. Mentre ero assorto nei miei pensieri, nel succedersi dei brani in sequenza non ordinata, mi è capitato un pezzo particolare, che mi ha fatto ritornare con la mente ad un determinato periodo, un pezzo di Dayl Hall & John Oates: "Out of touch".</div>
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Proporre ad Eugenio sul suo megastereo Kyocera un lp heavy metal, era impossibile. Tuttavia adottai la tecnica dell'adattamento al nemico per potermi infiltrare nella sua retroguardaia. Lasciai i miei lp a casa sua, chiedendo di passarmeli su musicassetta e di registrarmi qualcosa della sua discografia. La strategia fu vittoriosa ed in poco tempo le barriere musicali fra noi si sgretolarono. Un altro pezzo che mi è tornato in mente è "New year's day" degli U2, uno dei pezzi più belli della musica rock. Mi ricordo che vidi un live da Red Rocks su Rai tre, ma questo risale al 1983 circa. Li conobbi così e per delle vecchie recensioni su "Mucchio Selvaggio". Altre meraviglie del periodo che ho riportato alla memoria sono il Farewell Concert degli Who da Toronto e le dirette live dalla Germania di concerti heavy metal. Sempre a Febbraio la Rai tre trasmetteva esibizioni dei Judas Priest, dei Def Leppard, di Michael Schenker, degli Iron Maiden. Quello che mi colpiva di quel periodo è come già amassi trascorrere pomeriggi ancora freddi, passeggiando lungo le banchine o sulla spiaggia. Già andavo in cerca di qualcosa, non cosa, forse l'urgenza di veder cosa mi avrebbe riservato il futuro. Il ricordo che mi riempie di commozione è quello della "Roulette russa con le onde". A volte con il mare in tempesta, le onde erano talmente alte da scavalcare il muro di protezione del molo nord. Si trattava di correre rasente al muro con la speranza di non venire beccati dall'ondata. Spesso tornavamo a casa bagnati fradici anche a dicembre. Questo mi è tornato in mente stamattina, ricordi e basta, senza nostalgia per quel periodo, perchè la nostalgia ed il rimpianto portano alla tomba. Se dovessi passare i miei quarant'anni a ricordare i miei venti, cosa farò a sessant'anni? Ricorderò di quando avevo quarant'anni e passavo il tempo a ricordare i miei venti?</div>
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laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-74550992078381402892013-01-20T07:57:00.002-08:002013-01-20T07:57:38.841-08:00Appunti per il Capodanno definitivo<!--[if gte mso 9]><xml>
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: Verdana,sans-serif;"><b><span style="font-size: x-large;">N</span></b>iente da fare. R. getta
disperato la fronte sul volante. L’ennesimo tentativo. Il furgone non parte.
Nel silenzio della notte, solo il rantolo di un motore imballato viene
restituito dai ripidi versanti di roccia della gola nella quale siamo chiusi da
ore. Sinceramente, non ci aspettavamo un epilogo così tragico di queste due
giornate, ma il peggio è accaduto. Mi giro, verso la vecchia Ford, nella quale
mia moglie e W. Si battono le braccia sul petto per darsi un po’ di calore.
Fuori ci sono tredici gradi sotto zero. “Li muorte di’Criste!” Bestemmia R.,
mentre la sua voce si perde lungo la pietra. Non parte, non parte, il diesel è
ghiacciato. Inutile tentare ancora. Non passa nessuno. Non passerà nessuno. Non
può passare nessuno alle 4 di mattina del 1° Gennaio 2000. Non passerà nessuno
nel primo giorno del primo anno del terzo millennio Dopo Cristo. “Mannaggiasanda!”.
Se ora ci vedesse un satellite dall’alto di questo cielo, terso, senza una
nube, trasmetterebbe lo svolgersi di questa tragicommedia che neanche i
fratelli Cohen, neanche i Monthy Piton, neanche Villaggio… E pensare che tutto
era iniziato nel migliore dei modi.</span></div>
<span style="font-family: Verdana,sans-serif;">
</span><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEil0-2rbOt5E1pCdcrOOzjx2QkIOcfqqvTleO2nAaEb6mnP0y5lxwxPL4rX71IhrK1YfSR7jWLkAu3LVlgLSvTjVob8F75L-NlOp3Zz9MSkUJ4F6WWhykWwN_9D4lwT0MiYINki-0eIZj4/s1600/appunti.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="192" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEil0-2rbOt5E1pCdcrOOzjx2QkIOcfqqvTleO2nAaEb6mnP0y5lxwxPL4rX71IhrK1YfSR7jWLkAu3LVlgLSvTjVob8F75L-NlOp3Zz9MSkUJ4F6WWhykWwN_9D4lwT0MiYINki-0eIZj4/s320/appunti.jpg" width="320" /></a><span style="font-family: Verdana,sans-serif;">Riusciamo ad ottenere la
possibilità di suonare durante le celebrazioni del capodanno. Di solito il
musicista non definisce la sua carriera solo in base al successo che viene
decretato dal pubblico, ma anche dagli eventi base ai quali è tenuto a
partecipare, per avere il titolo di “uno che ha fatto la gavetta”. Così io il
Deg e Di Tokio, riusciamo a passare i tanti esami dell’artista acciaccatutto,
grazie alle esibizioni live nei più disparati contesti: si va dalla Festa della
Lega Navale, al matrimonio con rito civile, alle feste di partiti della prima e
seconda Repubblica fino all’intervallo musicale tra uno spettacolo porno fist
fucking e l’altro, con tanto di mixer montato vicino al tavolino con falli in
gomma di varie misure. Leggende metropolitani si vanno così, ad accumulare nel
sottoscala dei nostri ricordi. Tra i must del gavettaro c’è indubbiamente il “suonare
a Capodanno”. Per l’occasione si assemblano formazioni musicali variamente
assortite. Nella band di solito, al musicista di professione si affiancano
strimpellatori per necessità e vecchi amici messi lì a fare presenza, con il
volume dello strumento rigorosamente a zero. Arriva così il gran giorno. Il
nostro Manager Alessandro ci segnala per la serata di capodanno 99/2000 presso
un noto locale a Scanno, dove si terrà una megafesta di fine anno e dove non ci
sono particolari esigenze danzerecce. Stiliamo quindi un repertorio misto tra
successi pop del periodo e sempreverdi brani rock.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Per arrivare a Scanno, si prende l’A24 e si
esce a Cocullo ( nota per la processione dei serpari). Si passa quindi per
Anversa degli Abruzzi e, attraverso le inquietanti Gole del Sagittario, si
arriva a Scanno. Avendo un po’ di parenti ad Anversa, riesco ad ottenere da
parte di un cugino di mammà, l’utilizzo di un paio di stanze che potranno
essere utili per riposare, quando torneremo dalla serata e per non fare tutta
una tirata fino ad Ortona. Partiamo il pomeriggio. Deg si fa prestare il
furgone dallo zio che ha un’attività sotto il porto. <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Deg fa il pieno presso il distributore sulla
banchina, lo stesso dove i pescherecci si riforniscono per le loro battute si
pesca. Errore fatale. Dopo aver caricato gli strumento partiamo alla volta di
Anversa. Arrivati, giretto per il paese, incontro con il lontano cugino,
accesso all’abitazione, accensione riscaldamento, rilascio chiavi, saluti e
baci. Partenza alla volta di Scanno. Le gole del Sagittario sono uno stretto
budello scavato nella roccia, nel quale si snoda una piccola strada asfaltata
carrabile quasi come quelle andine. <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Passando sotto la diga del lago arriviamo a
destinazione presso il locale dell’Evento. La sera è limpida ma già fredda e
questo potrebbe destare non poca preoccupazione se non fossimo affaccendati con
l’attrezzatura. Dopo il cenone si attacca. Della serata, dal punto di vista
musicale, non ho un gran ricordo. Forse una versione di “Back in Black”
abbastanza squallida ed un “Flaca” ripetuta almeno 3 o 4 volte. Già dal primo
pit stop, la temperatura si aggira intorno ai cinque gradi sotto zero. Dopo il
tanto temuto passaggio del millennio, così carico di profezie nefaste che manco
Umberto Eco, suoniamo fino alle tre. Pagamento cachet, saluti, baci e partenza
alla volta di Anversa dove, una casa ben riscaldata, ci aspetta per farci
godere un meritato riposo. Io e la mia signora andiamo avanti mentre il DEg e
W. Ci seguono con il furgone a due tre minuti di distanza. Di Tokio invece, è
partito prima con la sua vecchia Peugeot a recuperare la sua consorte russa, in
un locale della costa dove si esibisce. Costeggio lentamente il lago. Il cielo
è terso, la strada è ghiacciata, ci sono tredici gradi sottozero. La notte è
assolutamente silenziosa. Al di fuori del rumore della nostra auto. Sul lato
della carreggiata ci sono due auto ferme, in panne. Non possiamo aiutarli,
anzi, quasi ci viene da ridere. Non sappiamo cosa ci aspetta. Mentre scendiamo
oltre la diga, uno squillo al cellulare. Il Deg. “Giallù, il furgone non cammina!
Pare che vada a tre cilindri!” Spinto fino ad adesso da una leggera discesa, il
Ducato ci è stato dietro anche se distante. Ora è fermo al lato della strada ed
a nulla valgono i tentativi di rianimarlo. Intanto la temperatura nell’abitacolo
scende. Dopo un’ora siamo qui, in quattro, al centro d’Italia, che poi per gli
italiani sarebbe il centro del mondo, al freddo, nella notte tra un millennio e
l’altro, alle quattro del mattino, senza un’anima, con la possibilità che
qualche branco di lupi del vicino Parco Nazionale ci sbranino, con una casa non
molto distante che ci aspetta , calda ed <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>accogliente e non possiamo fare nulla per
cambiare la nostra situazione. Alte si levano bestemmie d’Ognissanti. Riemergono
vecchi rancori tra musicisti. Tutti maledicono tutti, il freddo obnubila le
menti, si cerca di menar le mani, si rimpiange di aver imparato lo strumento,
si impreca il divino immacolato cuore della divinità madre, si giura al cielo,
etrna vendetta agli dei immortali. Solo la mia vecchia ford, a benzina riesce a
fare spola tra Anversa ed il luogo del delitto. Al mattino, un benzinaio
crumiro, con l’alito di stracotti all’aglio e spumanti dolci, ci vende a caro
prezzo un litro di verde. Deposto il sacro liquido nel serbatoio del cassone
morente, avviene il miracolo sotto il sole del primo gennaio. Una botta di
vita. Parte il furgone ma ormai tutto è perduto: amici, felicità, riposo,
possibilità del paradiso dopo la morte. </span></div>
laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-34924427027630337802012-01-24T13:23:00.000-08:002012-01-24T13:43:32.870-08:00Fenomenologia del Sig. Peppe<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3bqZGujDSV_2J2zgbDg6JSRZCGO6VX0PQ7YziYPOJqfOnigYzI7k7-7YouTXgBnz5Zq67fRM_JKfinOyvKicljWmtaGAuf67b15OjkdDKJDSkr3w_q8_0DX2riPoKZ5wP4Itkf_w0-K8/s1600/131.JPG"><img style="display:block; margin:0px auto 10px; text-align:center;cursor:pointer; cursor:hand;width: 400px; height: 300px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3bqZGujDSV_2J2zgbDg6JSRZCGO6VX0PQ7YziYPOJqfOnigYzI7k7-7YouTXgBnz5Zq67fRM_JKfinOyvKicljWmtaGAuf67b15OjkdDKJDSkr3w_q8_0DX2riPoKZ5wP4Itkf_w0-K8/s400/131.JPG" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5701316561515525058" border="0" /></a><br /><span style="font-family:arial;">Signor Peppe è un uomo anziano travestito da cane. Rare volte ho potuto scorgere nello sguardo di un quadrupede una espressività simile a quella di un vecchio seduto alla panchina del parco. Sig. Peppe già ha organizzato la sua giornata; sa quello che vuole e quando lo vuole.<br />Sveglia ore 6,35: Sig. Peppe si lamenta dal fondo delle scale a causa della vescica piena. Guai a non accontentarlo, la farebbe in cucina.<br />Ore 6,40: Sig. Peppe, una volta aperto il cancelletto che gli impedisce di venire a dormire insieme a noi, sale nella zona notte e ad un mio cenno, si reca presso la padrona, ficcando il naso sotto le lenzuola. Simpatici effetti si possono ottenere quando, a causa della sua coda che l’allevatore ha avuto il buon gusto di non tagliare, scodinzolando, suona la chitarra che si trova appoggiata al muro, accanto al letto.<br />Ore 6,45: Sig. Peppe si indirizza verso il magazzino ove il padrone, calzati gli stivali di gomma onde evitare di bagnarsi per la uazza mattutina di campagna, appronta il guinzaglio più simile ad una gomena di veliero che ad un arnese per tener fermo un cane.<br />Ore 6,47: Primo incontro del Sig. Peppe con il suo acerrimo nemico: un gatto bianco e nero, perfetta copia di Gatto Silvestro. Se il sottoscritto non è attento, ne consegue una lussazione della spalla.<br />Ore 6,50: in prossimità dell’oliveto secolare, Sig. Peppe ha l’incontro con il secondo acerrimo nemico: un gatto nero che sosta tra le fratte e che fugge lasciando una traccia la quale provoca sul cane il risveglio dell’animo cacciatore (prime minzioni sul percorso)<br />Ore 7,00: atto grande del Sig. Peppe su zona di preferenza e tentativo di fare colazione con il resto delle olive cadute dagli alberi.<br />Ore 7,05: Seconda passata di saluti ai familiari e grandi aspettative per la colazione canina:<br />mattinata: tempo libero affacciato alla finestra su due zampe(giuro!), relax, gioco con i presenti a casa e furto di indumenti intimi sporchi dal cesto della biancheria.<br />Nel caso si trattasse di domenica mattina: passeggiata con extra trail sulla spiaggia, dove Sig. Peppe si lancia in corse forsennate e produce quintali di sterco che una mucca maremmana impallidirebbe. Momenti di empatia con cani e gente che cammina. Allenamento con lancio del bastone e riporto in puro stile filmetto americano di Walt Disney.<br />Ore 13,00: Sig. Peppe saluta calorosamente i familiari arrivati per il pranzo e si affaccia di nuovo al balcone del soggiorno, per dissuadere venditori ambulanti di colore che suonano alla porta.<br />Ore 13,05: Elemosina intorno al tavolo con sguardo rubato ai bambini di “we are the world”, frequenti posizionamenti del muso questuante sulle cosce e occhio da mendicante.<br />Ore13,30: seconda passata nell’oliveto, previa richiesta del servizio tramite l’appoggio della zampa sulla coscia del padrone<br />Ore14,30: riposo e meditazione<br />Ore18,30: Sig. Peppe saluta i presenti ed i convenuti e subito richiede con vigore l’accompagnamento al fine di svuotare le viscere.<br />Ore 19,00: Grattata sotto il muso o gioco con lotta e finti morsi, simpatico effetto trottola, girando su se stesso. Piccoli ruggiti di piacere<br />Ore 20,30: altra elemosina intorno al tavolo<br />Ore 22,00: Uscita notturna e svuotamento soporifero.<br />Ore 23,30: eventuale ultima uscita veloce, su richiesta esplicita del Sig. Peppe, per pisciatina di sicurezza.<br />Ore 24,00: grattatina e saluti sulla brandina.<br /><br />Questo programma è molto simile ad un orario di un qualsiasi ospizio, tranne i bisogni, che gli anziani purtroppo, sono costretti a farsi addosso.<br /><br /></span>laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-29483244380546015192011-02-19T13:56:00.001-08:002011-02-19T14:09:03.038-08:00Passare il sabato con i trichechi<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh_WOs0EaEQPPVoyd3IN83lczXfbwbGXbX2pQRfiWjjbbvT5bfpj2axoA76OqTCsGkiZV0qey01BWFLOWO86-TK2teUnSM3OU4zAtlH01-REOZSRFYZ4jueFESgKPmfGrCdgxoyyyvcdA8/s1600/Natale+nucleare.JPG"><img style="MARGIN: 0px 10px 10px 0px; WIDTH: 400px; FLOAT: left; HEIGHT: 267px; CURSOR: hand" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5575526051139994194" border="0" alt="" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh_WOs0EaEQPPVoyd3IN83lczXfbwbGXbX2pQRfiWjjbbvT5bfpj2axoA76OqTCsGkiZV0qey01BWFLOWO86-TK2teUnSM3OU4zAtlH01-REOZSRFYZ4jueFESgKPmfGrCdgxoyyyvcdA8/s400/Natale+nucleare.JPG" /></a><br /><div align="justify">Ho passato il sabato sera a guardare i trichechi. Penso sia giunto il momento di eliminare le cose superflue. Ma quali sono le cose superflue? Alcune persone che non mi hanno lasciato nulla da ricordare, alcuni oggetti inservibili, messi da parte, per anni, con l'idea che sarebbero serviti a qualcosa, alcuni giorni da dimenticare. Nessuno si mette più a guardare i trichechi. Servirebbe a concentrarsi sulle cose da fare, su cosa dire. Ma a chi lo dico che guardare i trichechi è utile?</div>laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6353747459153186682.post-44682031790231402212010-02-13T13:46:00.000-08:002010-02-14T00:54:13.905-08:00La messa di Natale<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_PcRj7YFX4lqaScZ3ENj8ihJImz3HRKHShTDlPBlhk8qvz5mYqC-HUBKSNZSHRq4OZP29q47Yy2P_9Y-xewfHL2OGyMG5Jb3tR2MPILi0pbgR3f-UU0sEgkusvW7SOzYShs7tbOki-OM/s1600-h/257+-+Copia.jpg"><img style="display: block; margin: 0px auto 10px; text-align: center; cursor: pointer; width: 587px; height: 295px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_PcRj7YFX4lqaScZ3ENj8ihJImz3HRKHShTDlPBlhk8qvz5mYqC-HUBKSNZSHRq4OZP29q47Yy2P_9Y-xewfHL2OGyMG5Jb3tR2MPILi0pbgR3f-UU0sEgkusvW7SOzYShs7tbOki-OM/s400/257+-+Copia.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5438019604204619858" border="0" /></a><br /><div style="text-align: justify;">Don Francesco era parroco di S. D., una piccola frazione dell’entroterra ortonese. Originario della Tuscia, aveva portato dal suo paese, una vecchia 126 color cacca di piccione che tentava invano di parcheggiare nelle vie limitrofe alla sua chiesetta, vie tutte intitolate, stranamente, a quanti lo avevano preceduto alla guida della parrocchia. Questa cosa lo preoccupava molto ed al tempo stesso gli procurava un po’ di invidia. Si vociferava, infatti, che si aggirasse di notte, nel suo catorcio, alla ricerca di una strada vergine od uno slargo che avrebbe potuto avere il suo nome, per quando lui non sarebbe stato più. Per questo molti lo avevano soprannominato “il piazzetta”. Statura bassa tarchiata, guance rubizze, scrima leccata ed appiccicata verso sinistra, una pancia che si allungava rotonda, contenuta da una vecchia cinta., colletto bianco che gli procurava un clamoroso triplo mento, quasi fosse un cappone in amore. Ma Don Francesco aveva una caratteristica saliente: era ingordo. Spesso lo si vedeva in gran fretta andare dalla perpetua verso mezzogiorno, pranzare velocemente, impastando frasi poco chiare riguardanti impellenti doveri ( in verità spazzolava sempre tutto) ed uscire prima che fosse l’una, per andare a scroccare un altro pasto completo ed abbondante da un suo parrocchiano, armatore di un piccolo peschereccio, con la scusa di benedirgli qualche cosa. Il parroco della frazione vicina, Don Igino, sibilava malignamente sulla porta della chiesa, quando lo vedeva passare: “ il battello è piccolino, ma che stiva capiente!”. Don Francesco, in ogni caso, aveva già fatto selezione di chi poteva essergli utile e di chi, invece, inquadrata la sua vera natura, avrebbe potuto dargli dei fastidi. Di solito, simili individui, avevano la stessa indole di quel prete. Attaccata alla canonica, c’era la piccola abitazione del Piazzetta: due stanze al piano terra, tenute pulite dalla perpetua ed un piccolo scantinato, dove Don Francesco, teneva i suoi tesori: prosciutti, formaggi, regali di vecchiette devote e soprattutto una riserva di vino da far invidia ad un Ricasoli. Trebbiano, Montepulciano, Pecorino, tutti vini abruzzesi, talmente raffinati e conservati bene al punto che lui li divideva tra la tavola e la funzione religiosa: egli sosteneva infatti che un vino cattivo avrebbe potuto invalidare la Messa. Con questa scusa, nelle varie celebrazioni della giornata, si scroccava un quartino alla volta, riempiendo la coppa dell’Eucarestia fino all’orlo. Ma, coerentemente con la sua figura di prelato, non era tenero con gli uomini dediti agli eccessi e specialmente con uno: Giuvannine Cendechioppe, un raggrinzito e maturo manovale, esperto soprattutto in lavori di “gomito”. Don Francesco era solito scagliarsi proprio contro Giuvannine nei sermoni della domenica, quando parlava di sobrietà e di vizio. Dopo aver preparato proprio uno di questi sermoni, si ritrovò, la sera di Natale, verso le dieci e mezzo, a scendere in cantina per prender il vino necessario alla celebrazione di quella Santa ricorrenza. Il Piazzetta, accesa la luce, ebbe una terribile sorpresa: la cantina era vuota come una zucca secca! Spariti prosciutti, formaggi ma soprattutto il vino! Barcollò come un pugile sotto i pugni dell’avversario…come avrebbe fatto adesso? I sospetti caddero subito su Giuvannine che proprio in quel momento passava per la strada vicina rivestito di tutto punto per la Messa. Don Francesco concluse immediatamente che quel furfante, per pagarsi il vestito buono, aveva barattato i tesori del suo scantinato con qualche pannazzaro del mercato al giovedì. Pensò immediatamente di vendicarsi. Ma il pretino non era uomo dai gesti eclatanti, era subdolo e non era capace di fare scenate, ma poteva essere mellifluo e suadente anche con il peggiore dei nemici. Ci voleva una scusa per attirare Giuvannine nella trappola. Decise di chiamarlo. Gli chiese: “Giovannino caro, vedo che sei vestito di tutto punto per questo Santo giorno, ma hai l’animo pulito?” “Frechete Don France’! ” gli rispose Giuvannine. “Giovannino” disse il parroco “ Io penso di poterti dare una indulgenza speciale per Natale, se compirai una buona azione, cenando con me in sagrestia prima della Messa. Sono molto solo e vorrei condividere con te questa ricorrenza. Dimentichiamo tutto il male che ti ho detto. In fondo sei un buon uomo.” Il povero Giuvannine che era sbevazzone ed anche un po’ fesso, cadde nella trappola. “Scine Don Francè! Lu vine li’ puorte ije!”. Detto questo corse a casa a prendere una bottiglia di Montepulciano, dalla sua, in verità, non molto fornita riserva. Un’oretta prima della messa eccoli, in sacrestia, Don Francesco e Giuvannine, imbandire la tavola su di un panchetto attrezzato all’uopo. Fu quando Giuvannine si mise di spalle per stappare la bottiglia di vino che il Piazzetta gli assestò un colpo sulla testa con un vecchio candelabro. Giuvannine cadde come un sacco di patate. Fatto questo, il parroco, lo spoglio, avendo cura di ripiegare per bene il vestito nuovo della vittima e ficcò con forza il corpo inerte del beone, in mutande, dentro un ripostiglio pieno di statue di gesso e vecchi paramenti. Eccolo Don Francesco, sull’altare durante la celebrazione dell’Eucarestia, nella messa del Santo Natale. La chiesa era piena di fedeli e di parenti ritornati al paese per le festività. Don Francesco celebrava con solennità. Stava lì con il calice in mano pronto per la formula del messale: “ Prendete e bevetene tutti…” Quando, fu interrotto da una voce che sembrava provenire dall’aldilà: “ Che ‘dda fè tu?” . Il parroco barcollò tra il brusìo generale. Poi si ricompose e tentò di continuare: “ Questo è il mio…” Ad un lato dell’altare era comparso Giuvannine, in mutande, con la stola sulle spalle ed una mitra presa dalla mano di chi sa quale statua di Santo. “Quessè iè lu vine mè!” . Nel boato di stupore di indignazione e di risate dei più maliziosi, Don Francesco svenne. La messa andò a monte e molti fecero in tempo ad andare nell’altra parrocchia, da Don Igino, per seguire la celebrazione. Il Piazzetta passò la notte delirando, con un febbrone da cavallo. La settimana dopo, dopo una sonora lavata di capo presso la curia vescovile, venne trasferito in un’altra parrocchia, questa volta vicino il suo paese. Il fattaccio fu argomento di conversazione nel bar per qualche tempo, poi fu dimenticato. Pochi, però, avevano notato quella famosa sera di Natale, all’entrata della chiesa, un uomo, mai visto prima, scuro, sopracciglia foltissime e barba puntuta, che uscì sogghignando, nella notte, lasciando dietro di sé una penetrante scia sulfurea. E’ inutile dire che, a Don Francesco, nessuno del paese aveva rubato nulla.<br /></div><br /><div style="text-align: justify;"><br /></div>laritornahttp://www.blogger.com/profile/05993762127122341527noreply@blogger.com2