giovedì 12 marzo 2009

La comunanza


C’è questo pomeriggio che fa rima con maggio. Faccio un conto dei pomeriggi che ricordo di più: sono quelli di maggio. Non me ne frega un cazzo di Nanni Moretti, probabilmente è questa cover di Starless two dei King Crimson rifatta da Craig Armstrong ,che sto ascoltando. Dicevo di questo pomeriggio. Tengo per mano mia moglie. E’ strano tenere per mano le mogli, nei racconti. Le mogli sono troppo ordinarie, di solito, per essere raccontate nei libri. Ma io, mia moglie, la tengo forte, per mano. Siamo sull’affaccio della Chiesa di san Miniato, a Firenze. La spalla mi fa male. Porto due macchine fotografiche e il cavalletto. Ci sediamo nel silenzio di quell’altezza, in lotta con il lontano vibrare di una città, tesa sotto una leggera foschia gassosa. Abbiamo fame. Forse l’odore di cripta gotica di quella chiesa poco frequentata da turisti pigri o la bottega dei frati, piena di finti amari, e liquirizie in svariate guise. Iniziamo a scendere la scalinata stretta fra cespugli che sporgono dalle villette sui lati. Alla fine delle scale c’è un’osteria. Chianti e lardo soffritto. Atterrano i nostri stomaci, pieni di arti e visioni. Di fronte a noi, al nostro appagarsi di bisogni primari e cartoline, sulle ultime scale, un ragazzo pallido, malridotto, si è levato delle vecchie scarpe da ginnastica, mettendo in mostra piedi sporchissimi e rovinati. Caccia dalla tasca una bella siringa e se la ficca con sicurezza nella vena sul dorso del piede. Capisco che la vastità dell’ingegno umano nelle opere di Firenze, può essere abilmente superata dal contenuto di quella iniezione. Metto in bocca, l’ultimo pezzo di pane bagnato in quel soffritto, realizzando che non lo cambierei neanche io, in quel momento, con qualsiasi visita guidata. In questo pomeriggio di maggio, mi interrogo sulla natura e sulla comunanza delle dosi.

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