venerdì 30 gennaio 2009

Death of a tree

Morte di un albero
Avete mai provato ad essere un albero? Nessuno, oggi, riesce a sentirsi un albero. A percorrere le strade del mondo, delle storie, si finisce in posti dove, un albero, è al centro delle vite. Il legnatico. Il diritto di disporre di alberi per sopravvivere. La certezza di sapere che la morte di un albero sarà la nascita di uno nuovo. Ricordavo l’immenso, secolare Gelso (perché l’albero si scrive con la Maiuscola), al centro dell’aia del casolare, di uno dei tanto nonni che ho avuto ed ai quali devo gratitudine perché hanno creato la mia storia. Sotto questo Gelso, ho visto le stagioni della campagna, della natura. Intorno all’albero, si sviluppava una vita di lavoro, emozioni, giochi. Lì ho imparato a lavorare il tabacco, a fare i pomodori, a fare i canestri. Appeso a quell’albero c’era il maiale da ammazzare. Sopra quell’albero passavamo i giorni ad essere i cavalieri rampanti. Seduti sotto l’albero ascoltavamo le foglie ed il silenzio dei venti che venivano dal mare a farle vibrare. Sotto l’albero le feste dell’estate, con una tavola lunga ed i sorrisi dei contadini, per il buon raccolto e per il vino. L’albero guardava. Ho sempre capito che l’albero assisteva in silenzio. Ora sono in un altro giardino. Il vecchio Ciliegio, dritto, mi guarda, mentre gioco sul muretto con dei robot di latta a molla. Mi aspetta il Ciliegio. A Maggio mi regala, io bambino, i lunghi momenti dei suoi frutti. Sotto il ciliegio c’è il calderone, dove nonno mette a bollire le conserve per l’inverno. All’imbrunire, il Ciliegio è una guardia, ci aiuta nel lavoro, è un uomo dalle spalle larghe, presente in silenzio. Il Ciliegio guarda la nostra famiglia, la benedice. Un bambino, al tramonto, non è stanco. La nonna lo chiama dalla finestra. Passano gli alpini con i muli, tornano in caserma. Sono di nuovo nell’orto di un nonno. Il Limone, contorto sotto l’oscuro muro di pietre non ha pietà dei vivi. La vecchia bisnonna, passo lento, distende le braccia per cogliere un aspro frutto al figlio morente. L’albero è duro come una pietra della Majella. L’albero è uguale ad un sasso lucano. L’asino docile volge lo sguardo a Nicola. Nicola è bambino e guarda la luce alla finestra di chi lo ha accudito. Ora non più. Ancora bambino. Lungo la strada, in autunno, la struggente voce dell’Ippocastano, cadute le foglie ai primi umidi aliti di nebbia, accompagna il traffico distratto dei milanesi. Giochiamo sotto l’albero, vicino il fiume gonfio, sul prato ordinato, una palla. L’albero è in file, regolari, settentrionali, si concede di rado ai raggi del sole opaco, respira muto le grida dei bimbi. E’ solido l’Ippocastano, immenso agli occhi di un bambino, ha memorie del secolo di carri coi sacchi di riso dalle pianure inondate. Sono di nuovo nel bosco di Querce, sul lago a meridione. La vecchia capanna di pietre, il forno di nonna. Ma un’ombra lo copre, come una nuvola. L’immensa chioma ricciuta, regolare, della Quercia madre. E’ l’albero degli alberi. Ha fondato il paese delle grigie rocce a picco sul torrente, come uno Stige per vivi. E’ l’albero che esiste prima dei tempi, non ha da raccontare, la Quercia è da cinque secoli. Ma l’uomo non è un albero. Non è mai stato un albero. Non ha paura della Quercia madre. Nel mattino di un inverno senza neve, la Quercia esplode sotto le cariche, in un funerale di polvere e scintille. Ora sono un ragazzo. Un ragazzo che corre lungo il viale di questa marina. Il piccolo Pino , apre le braccia alla vita dei venti di maestro. E’ dritto, ma presto si piegherà ai voleri del mare e delle stagioni. Evito i suoi rami chinandomi, al passaggio. Ora sono un uomo. L’albero una volta virgulto, ora mi guarda dall’alto del suo tronco contorto. Ha vissuto i miei passi, continui, lungo questa strada. Abbiamo visto i tramonti, i caldi dal fosso, i miraggi sulla strada d’estate. Ha visto le mie figlie che tenevo per mano. L’albero è felice, mi saluta come un amico. Lo guardo con distratta riconoscenza. Mi ricorda chi sono stato, nascosto in uno dei suoi anelli. Seguo ancora il tramonto. E’ scomparsa la grande Palma che rinfrescava le nostre serate al giardino, dopo il mare. L’uomo non è un albero. Come un giardino arabo, di racconti, la Palma si stende a proteggere la statua di bronzo che guarda il passante. E’ triste ora il passaggio, senza la grande palma. Passo senza guardare. I compagni in fila, sipari per la città senza bellezza, maschere contro la mediocre visuale di cemento senza forma, cadono perché l’uomo non è un albero. Non ha mai provato ad essere un albero. Un albero morente, non avrà più un nuovo se stesso, per vivere questa vita insieme, per raccontare chi siamo, e quando saremo, chi siamo stati prima.
Gianluca

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