domenica 1 marzo 2020

L'incoscienza di Zeno


L’esimio professor Jubatti, docente di lettere e storia presso il nostro pregiatissimo Liceo, avvolto nella sua nube di dopobarba dolciastro,  alle ore undici e trenta del 10 maggio  millenovecentottantasei, ci aveva ufficialmente rotto le balle.  Durante l’ennesima presa di coscienza di Zeno Cosini, del quale condividevamo solo il piacere della sigaretta,  ci rendemmo conto che la letteratura contemporanea serviva solo a far sì che gli angoli dei libri fossero buoni per farci passare le unghie sporche attraverso. Decidemmo di passare a l’azione. Il sottoscritto, Rocco “lu Gnè Gne”, Carlo detto anche “Acqua da li cujune” e Pierpaolo, stendemmo il filo della tenda posta a protezione degli enormi finestroni, in modo che potesse costituire un limite aereo per le nostre evoluzioni pallavolistiche. Così, mentre l’illustrissimo docente di cui sopra, continuava imperterrito a chiedersi se il fumatore triestino e Svevo fossero la stessa persona, noi quattro ci producevamo in un piccolo torneo di simil beach volley, con tanto di bestemmie. Jubatti non proferì verbo ma covò una vendetta silenziosa di cui fummo vittima durante lo scritto degli esami di maturità.  Stavamo sudando su Tacito, in quel giugno ventilato, brancolando su quattro righe di versione che non rendevano decifrabile il resto della consegna. I commissari di esame erano particolarmente distratti. Fu allora che il nostro prode membro interno, parve venirci in soccorso. Si avvicinò a noi quattro componenti del “quartetto” e suggerì la traduzione, illudendoci sul fatto che ci fossimo tratti da l’impaccio. Sotto l’occhiale dal vetro antiproiettili di quel ex allievo ufficiale di complemento, sposato con tanto di tocco dello spadino, sbarcato con ignominia da una lanciaerei solo per il fatto di aver festeggiato la sua promozione in un locale della costa ligure, tirando l’alba con quattro zoccole brasiliane e una bottiglie di Cristal versione magnum, si nascondeva il principe del male, il quale aveva architettato per noi “ribelli” la traduzione giusta per inchiodarci con un bel quattro allo scritto. 
Se avessi ascoltato “mammà” a quei tempi, mi sarei applicato a di più sulle depressioni di Svevo, lasciando perdere i miei brufoli da un chilo e le tecniche per lasciare fuori le scarpe a far loro prendere aria senza seccare le piante.  Fu solo davanti alla commissione, durante gli orali, che ci rendemmo conto del i frutti amari delle vendetta professorale. Neanche una giaculatoria ciceroniana avrebbe potuto colmare il sottovuoto cosmico della nostra media. Sbattemmo i denti, annaspammo, supercazzolammo, maledicendo gli dei immortali e le idi di marzo. Ci promossero solo perché avevamo rotto il cazzo e non ci volevano tra i piedi, l’anno seguente. Di quella mattina, ricordo il ritardo con il quale arrivai a scuola e Jubatti alla finestra che mi incitava a far presto per non aver la sconfitta due a zero a tavolino. Mi presentai con una paio di Clark rosse e blu, jeans scoloriti e la t-shirt di un gruppo rock tedesco, il look giusto per far raggrinzire il contorno labbra della professoressa di storia, una vecchia zitella teramana la quale, mi raccontava chi mi aveva preceduto, gradisse fare colazione con salamelle a base d’aglio.  Dell’esame ricordo poco ma quello che mi rimase impresso per il resto dei miei giorni fu quando, una volta terminata la prova e uscito da l’edificio, mi voltai per salutare la mia vecchia scuola con il gesto dell’ombrello: alla finestra c’era Jubatti il quale, ormai libero da ogni apparente impegno morale verso i suoi studenti, anticipo il mio saluto con un ghigno rivolto alla mia persona mentre con la mano, stringeva i suoi attributi, sventolandoli in mia direzione, quasi volesse esortare il sottoscritto ad usarli come appiglio.

1 commento:

  1. Sarò noioso ma questo Gianluca , dalla penna facile, è un GRANDE SCRITTORE!

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