L’esimio professor Jubatti,
docente di lettere e storia presso il nostro pregiatissimo Liceo, avvolto nella
sua nube di dopobarba dolciastro, alle
ore undici e trenta del 10 maggio
millenovecentottantasei, ci aveva ufficialmente rotto le balle. Durante l’ennesima presa di coscienza di Zeno
Cosini, del quale condividevamo solo il piacere della sigaretta, ci rendemmo conto che la letteratura
contemporanea serviva solo a far sì che gli angoli dei libri fossero buoni per
farci passare le unghie sporche attraverso. Decidemmo di passare a l’azione. Il
sottoscritto, Rocco “lu Gnè Gne”, Carlo detto anche “Acqua da li cujune” e
Pierpaolo, stendemmo il filo della tenda posta a protezione degli enormi
finestroni, in modo che potesse costituire un limite aereo per le nostre
evoluzioni pallavolistiche. Così, mentre l’illustrissimo docente di cui sopra,
continuava imperterrito a chiedersi se il fumatore triestino e Svevo fossero la stessa
persona, noi quattro ci producevamo in un piccolo torneo di simil beach volley,
con tanto di bestemmie. Jubatti non proferì verbo ma covò una vendetta
silenziosa di cui fummo vittima durante lo scritto degli esami di
maturità. Stavamo sudando su Tacito, in
quel giugno ventilato, brancolando su quattro righe di versione che non
rendevano decifrabile il resto della consegna. I commissari di esame erano
particolarmente distratti. Fu allora che il nostro prode membro interno, parve
venirci in soccorso. Si avvicinò a noi quattro componenti del “quartetto” e
suggerì la traduzione, illudendoci sul fatto che ci fossimo tratti
da l’impaccio. Sotto l’occhiale dal vetro antiproiettili di quel ex allievo
ufficiale di complemento, sposato con tanto di tocco dello spadino, sbarcato
con ignominia da una lanciaerei solo per il fatto di aver festeggiato la sua promozione
in un locale della costa ligure, tirando l’alba con quattro zoccole brasiliane
e una bottiglie di Cristal versione magnum, si nascondeva il principe del male,
il quale aveva architettato per noi “ribelli” la traduzione giusta per
inchiodarci con un bel quattro allo scritto.
Se avessi ascoltato “mammà” a quei
tempi, mi sarei applicato a di più sulle depressioni di Svevo, lasciando
perdere i miei brufoli da un chilo e le tecniche per lasciare fuori le scarpe a
far loro prendere aria senza seccare le piante.
Fu solo davanti alla commissione, durante gli orali, che ci rendemmo
conto del i frutti amari delle vendetta professorale. Neanche una giaculatoria
ciceroniana avrebbe potuto colmare il sottovuoto cosmico della nostra media.
Sbattemmo i denti, annaspammo, supercazzolammo, maledicendo gli dei immortali e
le idi di marzo. Ci promossero solo perché avevamo rotto il cazzo e non ci
volevano tra i piedi, l’anno seguente. Di quella mattina, ricordo il ritardo
con il quale arrivai a scuola e Jubatti alla finestra che mi incitava a far
presto per non aver la sconfitta due a zero a tavolino. Mi presentai con una
paio di Clark rosse e blu, jeans scoloriti e la t-shirt di un gruppo rock
tedesco, il look giusto per far raggrinzire il contorno labbra della professoressa
di storia, una vecchia zitella teramana la quale, mi raccontava chi mi aveva
preceduto, gradisse fare colazione con salamelle a base d’aglio. Dell’esame ricordo poco ma quello che mi
rimase impresso per il resto dei miei giorni fu quando, una volta terminata la
prova e uscito da l’edificio, mi voltai per salutare la mia vecchia scuola con
il gesto dell’ombrello: alla finestra c’era Jubatti il quale, ormai libero da
ogni apparente impegno morale verso i suoi studenti, anticipo il mio saluto con
un ghigno rivolto alla mia persona mentre con la mano, stringeva i suoi
attributi, sventolandoli in mia direzione, quasi volesse esortare il
sottoscritto ad usarli come appiglio.
Sarò noioso ma questo Gianluca , dalla penna facile, è un GRANDE SCRITTORE!
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