Uscire da un social network dopo
tanti anni è operazione dolorosa. Nel 2006, complice la facilità di accedere
alla rete da parte di mio fratello, usavo passare il dopocena in camera sua
davanti al computer. Avevo già avuto qualche approccio con internet nel 1996,
collaborando con un ufficio comunale della mia città. Fu solo dieci anni dopo
che mi avvicinai a questa neonata “piattaforma di socialità virtuale”. La
possibilità di caricare foto, scambiare commenti su fatti o persone,
condividere passioni o desideri, mi illuse sul fatto che avrei potuto parlare
con i miei conoscenti o amici anche solo rimanendo seduto a casa davanti al pc.
Credevo che il mondo intero mi leggesse e qualsiasi cosa avessi detto, avrebbe
influenzato l’opinione pubblica quasi che fossi un oratore sul piedistallo ad
arringare una folla immensa. Iniziai così a regolare la mia vita in base a
ritmi che mi avrebbero consentito di ritagliare del tempo da dedicare alla
rete. Dapprima con discrezione e goffaggine, in seguito con assiduità quasi
maniacale. Con gli anni non stavo cambiando solo io ma anche quelli che come
me, erano dentro il social. Si andava
sviluppando una sorta di luogo nel quali tutti, complice la mancanza di
corporalità dei rapporti, avevano la possibilità di sfogare le proprie
frustrazioni sugli altri: dalle insoddisfazioni sentimentali ai problemi di
lavoro e di salute, alle difficoltà economiche dovute alla crisi che sarebbe
esplosa alla fine del decennio. La mancanza di corporalità e quindi l’impossibilità
di provare dolore fisico, spingeva le persone ad andare oltre il normale dibattito
civile, sicuri di non essere colpiti o feriti. Una sorta di invulnerabilità da
schermo che spingeva a disertare il lettino dello psicologo per risolvere
tensioni e incomprensioni contro la sagome-bersaglio degli altri. Nonostante ne
percepissi il pericolo, per un certo periodo, mi sono fatto coinvolgere in
discussioni sterili nelle quali, per quanto apportassi contributi interessanti
e ne ricevessi altrettanti, nessuno cambiava idea, nessuno era capace di
confessare l’errore o il malinteso, spingendosi verso la pratica della
negazione della verità pur di non essere perdente. Ci fu il periodo dell’autoscatto
che accrebbe il proprio io, spazio atemporale nel quale proiettare la propria
immagine filtrata dallo specchio di Dorian Gray. Piacersi, amarsi, venerare la
propria opinione, cercando di essere migliori della propria intima natura,
terrorizzati dallo scoprire sul tavolo le proprie debolezze, i propri limiti, i
propri no. Così il tempo è passato, rinunciando a qualche passeggiata, un buon
libro, un centimetro in più nell’altezza dei figli, una ruga che veniva scavata
ai lati della bocca. Ci sono stati momenti piacevoli nei quali, ho ritrovato
lontanissimi amici con i quali mi impacchettavo nelle cabine telefoniche per
dare appuntamento agli altri il sabato pomeriggio. Qualcuno mi ha mandato foto
di cose che avevo dimenticato, di persone scomparse, di avventure vissute
veramente. Tutto si è appiattito nell’abitudine allo stupore, nel qualunquismo
del dolore, nell’assuefazione alla vanità scomposta. Ho vinto e ho perso un’elezione
sulla rete. Ho perso l’umanità sulla rete, sono stato sempre sul pezzo nella
rete. Un giorno, dopo aver passato a sguazzare nel grottesco dei commenti, nell’analfabetismo
come caratteristica vincente, nell’allarmismo bigotto, nella deitalianizzazione
dello scritto, ho capito che, quando sarei stato troppo vecchio, non avrei
potuto raccontare agli altri cosa avevo fatto in questi ultimi quattordici anni ma come li avevo passati stando davanti al
computer. Ho detto basta, sono uscito senza salutare, ho lasciato i miei mal di
stomaco nell’account. Ho deciso di ritornare alle mie pagine sul blog dove
ognuno e nessuno è il benvenuto.
Ben fatto Non te ne pentirai....
RispondiEliminaGianluca, leggerti è sempre un piacere e un onore per me. Sul blog, social carta pergamena o altro... Non smettere mai di scrivere. 😘
RispondiEliminaPurtroppo un veritiero spaccato della realtà è quello che emerge dai social.
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