sabato 14 dicembre 2019

Barbarism begins at home


Uscire da un social network dopo tanti anni è operazione dolorosa. Nel 2006, complice la facilità di accedere alla rete da parte di mio fratello, usavo passare il dopocena in camera sua davanti al computer. Avevo già avuto qualche approccio con internet nel 1996, collaborando con un ufficio comunale della mia città. Fu solo dieci anni dopo che mi avvicinai a questa neonata “piattaforma di socialità virtuale”. La possibilità di caricare foto, scambiare commenti su fatti o persone, condividere passioni o desideri, mi illuse sul fatto che avrei potuto parlare con i miei conoscenti o amici anche solo rimanendo seduto a casa davanti al pc. Credevo che il mondo intero mi leggesse e qualsiasi cosa avessi detto, avrebbe influenzato l’opinione pubblica quasi che fossi un oratore sul piedistallo ad arringare una folla immensa. Iniziai così a regolare la mia vita in base a ritmi che mi avrebbero consentito di ritagliare del tempo da dedicare alla rete. Dapprima con discrezione e goffaggine, in seguito con assiduità quasi maniacale. Con gli anni non stavo cambiando solo io ma anche quelli che come me, erano dentro il social.  Si andava sviluppando una sorta di luogo nel quali tutti, complice la mancanza di corporalità dei rapporti, avevano la possibilità di sfogare le proprie frustrazioni sugli altri: dalle insoddisfazioni sentimentali ai problemi di lavoro e di salute, alle difficoltà economiche dovute alla crisi che sarebbe esplosa alla fine del decennio. La mancanza di corporalità e quindi l’impossibilità di provare dolore fisico, spingeva le persone ad andare oltre il normale dibattito civile, sicuri di non essere colpiti o feriti. Una sorta di invulnerabilità da schermo che spingeva a disertare il lettino dello psicologo per risolvere tensioni e incomprensioni contro la sagome-bersaglio degli altri. Nonostante ne percepissi il pericolo, per un certo periodo, mi sono fatto coinvolgere in discussioni sterili nelle quali, per quanto apportassi contributi interessanti e ne ricevessi altrettanti, nessuno cambiava idea, nessuno era capace di confessare l’errore o il malinteso, spingendosi verso la pratica della negazione della verità pur di non essere perdente. Ci fu il periodo dell’autoscatto che accrebbe il proprio io, spazio atemporale nel quale proiettare la propria immagine filtrata dallo specchio di Dorian Gray. Piacersi, amarsi, venerare la propria opinione, cercando di essere migliori della propria intima natura, terrorizzati dallo scoprire sul tavolo le proprie debolezze, i propri limiti, i propri no. Così il tempo è passato, rinunciando a qualche passeggiata, un buon libro, un centimetro in più nell’altezza dei figli, una ruga che veniva scavata ai lati della bocca. Ci sono stati momenti piacevoli nei quali, ho ritrovato lontanissimi amici con i quali mi impacchettavo nelle cabine telefoniche per dare appuntamento agli altri il sabato pomeriggio. Qualcuno mi ha mandato foto di cose che avevo dimenticato, di persone scomparse, di avventure vissute veramente. Tutto si è appiattito nell’abitudine allo stupore, nel qualunquismo del dolore, nell’assuefazione alla vanità scomposta. Ho vinto e ho perso un’elezione sulla rete. Ho perso l’umanità sulla rete, sono stato sempre sul pezzo nella rete. Un giorno, dopo aver passato a sguazzare nel grottesco dei commenti, nell’analfabetismo come caratteristica vincente, nell’allarmismo bigotto, nella deitalianizzazione dello scritto, ho capito che, quando sarei stato troppo vecchio, non avrei potuto raccontare agli altri cosa avevo fatto in questi ultimi quattordici anni  ma come li avevo passati stando davanti al computer. Ho detto basta, sono uscito senza salutare, ho lasciato i miei mal di stomaco nell’account. Ho deciso di ritornare alle mie pagine sul blog dove ognuno e nessuno è il benvenuto.

3 commenti:

  1. Gianluca, leggerti è sempre un piacere e un onore per me. Sul blog, social carta pergamena o altro... Non smettere mai di scrivere. 😘

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  2. Purtroppo un veritiero spaccato della realtà è quello che emerge dai social.

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