Era da tanto che non visitavo
Roma con questi occhi. Anni fa, quando la città era completamente diversa
eppure immota con la sua immagine di un’isola delle meraviglie, ad ogni angolo,
tra una foglia scolpita da Borromini ed una bottega polverosa, si potevano
ascoltare le voci schiette dei pizzicagnoli. Tutto mi sembrava perfetto per i
miei diciott’anni che poi sono diventati venti, ventiquattro, ventotto. In
quegli anni di gioventù, ogni volta che visitavo la città, cercavo le mie bolle
di felicità, percorrendo i vicoli, fotografando le facciate barocche,
rifugiandomi tra le colonne di San Pietro, passeggiando a sera lungo il Tevere,
commuovendomi come un vecchio nei tramonti di Villa Borghese. Una metropoli di
campagna nella quale perdersi , dove non eri nessuno e per questo potevi
diventare qualcuno. In questi trentacinque anni di continuo prendersi e
lasciarsi, l’ultimo incontro fu pieno di emozioni e sofferenze allo stesso
tempo. Era un Capodanno piovoso: lo trascorremmo tra una mostra di
Caravaggio e i luoghi di una città totalmente trasformata da una
antropizzazione multietnica e alienante. Roma mi appariva proprio come un’opera
di un’artista in cerca di segni e simboli. Dove erano i miei vicoli pieni di
voci dalle botteghe, dai portoni tarlati, dalle vespette attaccate ad un palo
con la catena? Una sola cosa mi rimaneva ancora: i campanili alti che si
stagliavano da una folla eterna di cerulei turisti, di filippini che ti
volevano appioppare ombrellini inutilizzabili e rose, l’odore di cipolla come
in qualsiasi posto del mondo e i sacchi di riso per le famiglie numerose. L’altro ieri ci sono tornato, dopo tanto tempo. Questa volta i monumenti li ho lasciati stare. Incomincio ad essere vecchio per commuovermi davanti a pietre disposte in modo regolare. Ho voluto osservare le persone. Gente che si muove lungo le strade, che scende le scale, uomini e donne che aspettano un mezzo pubblico. Nei segni del tempo sulle guance, nelle rughe della fronte, negli occhi , si possono ascoltare le storie di una città. Ho scoperto un’altra Roma, quella
dei colori diversi, dei linguaggi più
incomprensibili. Mi sono perso nello sguardo degli indiani con le buste della
spesa che tornavano a casa, seduti nella metro, dei senegalesi vestiti come dei
rapper, dei pakistani nelle fritterie, dei filippini che parlavano quattro
lingue mentre servivano in pizzeria. Roma è il centro del mondo perché il mondo
sta dentro Roma. Ho immaginato la stessa scena qualche millennio fa, quando la
città era la capitale dell’Impero e moltitudini di uomini da tutte le terre
conosciute, giravano per le sue strade in una Babele di lingua e costumi. I
veli cobalto che incorniciavano i volti delle donne indiane sono gli stessi che
scendono da un autobus di linea. Nei quartieri ottocenteschi dove le fontane
funzionano ancora, gli atrii dei palazzoni, ospitano accademie, fondazioni,
famiglie borghesi con il terrazzino pieno di rose. Al piano terra i parrucchieri
cinesi accolgono chiassosi ragazzi di colore. Il sole taglia le chiome degli
alti platani mentre i vecchi portano i cani a spasso e le badanti polacche
spingono pesanti portoni. Su tutto rimarrà un’immagine, quella sì commovente:
la piccola donna di servizio messicana, seduta davanti a me sull’88. Da un
cellulare con il vetro rotto, guarda sorridendo le foto del nipotino lasciato
dall’altra parte dell’oceano, il quale avrà un futuro grazie anche a questa
nonna che lavora, instancabile, nella casa di una famiglia romana. Nei suoi
occhi forse ho visto il Dio che non conosco ma è più forte di qualsiasi odio
per lo straniero.
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