domenica 15 settembre 2019

La faccia di Roma



Era da tanto che non visitavo Roma con questi occhi. Anni fa, quando la città era completamente diversa eppure immota con la sua immagine di un’isola delle meraviglie, ad ogni angolo, tra una foglia scolpita da Borromini ed una bottega polverosa, si potevano ascoltare le voci schiette dei pizzicagnoli. Tutto mi sembrava perfetto per i miei diciott’anni che poi sono diventati venti, ventiquattro, ventotto. In quegli anni di gioventù, ogni volta che visitavo la città, cercavo le mie bolle di felicità, percorrendo i vicoli, fotografando le facciate barocche, rifugiandomi tra le colonne di San Pietro, passeggiando a sera lungo il Tevere, commuovendomi come un vecchio nei tramonti di Villa Borghese. Una metropoli di campagna nella quale perdersi , dove non eri nessuno e per questo potevi diventare qualcuno. In questi trentacinque anni di continuo prendersi e lasciarsi, l’ultimo incontro fu pieno di emozioni e sofferenze allo stesso tempo. Era un Capodanno piovoso: lo trascorremmo tra una mostra di Caravaggio e i luoghi di una città totalmente trasformata da una antropizzazione multietnica e alienante. Roma mi appariva proprio come un’opera di un’artista in cerca di segni e simboli. Dove erano i miei vicoli pieni di voci dalle botteghe, dai portoni tarlati, dalle vespette attaccate ad un palo con la catena? Una sola cosa mi rimaneva ancora: i campanili alti che si stagliavano da una folla eterna di cerulei turisti, di filippini che ti volevano appioppare ombrellini inutilizzabili e rose, l’odore di cipolla come in qualsiasi posto del mondo e i sacchi di riso per le famiglie numerose. L’altro ieri ci sono tornato, dopo tanto tempo. Questa volta i monumenti li ho lasciati stare. Incomincio ad essere vecchio per commuovermi davanti a pietre disposte in modo regolare. Ho voluto osservare le persone. Gente che si muove lungo le strade, che scende le scale, uomini e donne che aspettano un mezzo pubblico. Nei segni del tempo sulle guance, nelle rughe della fronte, negli occhi , si possono ascoltare le storie di una città. Ho scoperto un’altra Roma, quella
 dei colori diversi, dei linguaggi più incomprensibili. Mi sono perso nello sguardo degli indiani con le buste della spesa che tornavano a casa, seduti nella metro, dei senegalesi vestiti come dei rapper, dei pakistani nelle fritterie, dei filippini che parlavano quattro lingue mentre servivano in pizzeria. Roma è il centro del mondo perché il mondo sta dentro Roma. Ho immaginato la stessa scena qualche millennio fa, quando la città era la capitale dell’Impero e moltitudini di uomini da tutte le terre conosciute, giravano per le sue strade in una Babele di lingua e costumi. I veli cobalto che incorniciavano i volti delle donne indiane sono gli stessi che scendono da un autobus di linea. Nei quartieri ottocenteschi dove le fontane funzionano ancora, gli atrii dei palazzoni, ospitano accademie, fondazioni, famiglie borghesi con il terrazzino pieno di rose. Al piano terra i parrucchieri cinesi accolgono chiassosi ragazzi di colore. Il sole taglia le chiome degli alti platani mentre i vecchi portano i cani a spasso e le badanti polacche spingono pesanti portoni. Su tutto rimarrà un’immagine, quella sì commovente: la piccola donna di servizio messicana, seduta davanti a me sull’88. Da un cellulare con il vetro rotto, guarda sorridendo le foto del nipotino lasciato dall’altra parte dell’oceano, il quale avrà un futuro grazie anche a questa nonna che lavora, instancabile, nella casa di una famiglia romana. Nei suoi occhi forse ho visto il Dio che non conosco ma è più forte di qualsiasi odio per lo straniero.

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