Quella fu la prima volta che lo vide.
Gironzolava sotto la Font a
balle, come può fare un ragazzino troppo piccolo per fare il contadino e troppo
grande per stare davanti casa. La discesa non era ancora coperta dai canneti e
dalle acacie. Ai lati della discesa, fossi scavati dalle bombe di mortaio,
pietre, pezzi di ferro e quella specie di pigna che attrasse la sua attenzione.
Giggino la prese in mano. Era una pigna di ferro con un anello in cima. Giggino
ne aveva viste tante. Tirò con forza l’anello. Fu allora che lo sentì arrivare.
Era un’onda, una folata di vento tra le foglie, un ansimare di bestia, un
ringhio feroce, un tuonare di zoccoli. Le urla si sentirono fino alla piazza,
tra le macerie delle case di San Leonardo, nella navata della chiesa sventrata
dalle bombe. A sera il Dott. Gaeta riuscì a salvargli solo un occhio. La mamma
guardava Giggino sconsolata. Dall’unico occhio rimasto, di un azzurro intenso,
nascosto a malapena dai lunghissimi capelli ricci, spuntavano lacrime di dolore
copiose. Fu così che Giggino rimase con quell’orbita vuota. Non avevano i soldi,
nel dopoguerra, per ricostruirsi la casa, a San Leonardo, figuriamoci per
comprare un occhio di vetro a Giggino. Ma Giggino la notte, lo sentiva passare
quel cinghiale sotto casa, lo sentiva passare il giorno, quando giocava con gli
altri bambini ed inciampava, perché non metteva bene a fuoco gli ostacoli. Non
ne poteva più Giggino di quella bestia e si ripromise, quando fosse stato
possibile, di cambiare vita, di scappare in Germania. Gli italiani andavano per
la maggiore, in Germania. Erano lavoratori indefessi e si abituavano a vivere
come bestie, sopportando silenziosamente il disprezzo dei tedeschi, che ancora
li ritenevano dei traditori e dei voltagabbana. Trovò subito lavoro nelle
acciaierie di Dusseldorf, Giggino. Pur di riuscire a comprarsi un occhio di
vetro faceva due turni consecutivi da otto ore. I compagni di lavori lo
consideravano una bestia. Dalla visiera del casco spuntava, accanto ad una
benda nera sull’occhio, l’altro occhio come un fanale carico di rabbia. Pochi
si avvicinano a Giggino e lui li ricambiava con la stessa moneta. Ma, a sera,
nella sua baracca, seduto sulla branda, tirava fuori da sotto il cuscino una
vecchia foto di San Leonardo, una foto scattata in un campo sulla strada per
Villa Torre, dentro l’oliveto secolare di Tommaso. Anche Tommaso era emigrato,
in Canada e gli aveva lasciato l’orto e l’uliveto da accudire. Giggino lo aveva
fatto fino a pochi giorni prima di partire per la Germania. Giggino lavorava
ormai ininterrottamente da due anni nella fonderia, per due turni al giorno,
senza fare un giorno di vacanza. Fu proprio la mattina della viglia di Natale
che lo vide di nuovo. Durante la fase della colata, lui e suoi compagni si
apprestavano a far saltare i residui liquidi di acciaio che ostruivano la bocca
dell’altoforno quando, una bolla di gas trasformò la colata in un’esplosione.
Giggino udì altissimo il rantolo della bestia ed i suoi zoccoli sulla schiena.
Fece appena in tempo a saltare lontano. Il getto incandescente travolse i suoi
tre compagni, carbonizzandoli. Erano italiani e la tragedia non scosse più di
tanto i superiori né fece interrompere la produzione. Ma Giggino si svegliò da
quella trance fatta di lavorò massacrante, calore e fumo. Il giorno dopo prese
la valigia e scappò in Belgio. “Vedrai, si sta bene nelle miniere” gli diceva
l’amico Peppone, che ormai ci lavorava da qualche anno. Giggino fu spedito dopo
qualche giorno, a trecento metri di profondità. Mentre l’ascensore veniva
inghiottito dalla terra, iniziò a sentire, flebile, il sottile respiro della bestia.
Non poteva essere, anche lì, lontano centinaia di km da casa, il cinghiale lo
aveva trovato. Si tappò le orecchie per non sentire. Alla fioca luce della
lampade dei caschi, gli operai vennero indirizzato nei culi, all’interno dei
quali doveva estrarre il carbone, allungati con un piccolo trapano pneumatico
in mano. Lì sotto, allungato, con centinaia di metri sopra la testa, respirando
carbone e aria malata, lo sentì, il morso della bestia. Il cinghiale gli aveva
afferrato le caviglie e le dilaniava. Giggino fu preso dal panico, ma così
allungato, con la schiena puntata contro la roccia, poteva solo urlare di
disperazione. Svenne. Si risvegliò e decise che quello non era posto per lui.
Era tempo di tornare a casa, a San Leonardo.
Con i soldi racimolati, riuscì finalmente a comprare un occhio di vetro.
In Abruzzo qualcosa stava cambiando. Iniziavano a sorgere le prime industrie Giggino trovò lavoro in una fabbrica di
vernici. Si facevano gli scherzi tra di loro, rendendo più leggero quel lavoro
velenoso, senza maschere di protezione, senza occhiali, senza guanti. Ficcavano
sotto il naso, ai malcapitati, stracci imbevuti di ammoniaca pura, senza
prevedere quello che sarebbe accaduto in seguito. Lo capiva ora, Giggino, quando si svegliava la mattina e si
toglieva la maschera dell’ossigeno, quando sentiva mancare il fiato, per fare
due scale, quando sveniva anche solo per stare seduto sulla tazza del cesso.
Era lui ora, ad avere il rantolo della bestia, quella bestia che aveva creduto
di scorgere poche volte, ma la cui presenza, avevo sentito tutta la vita. Era
vecchio ormai Giggino e passava le sue giornate tra la piazzetta di San
Leonardo, con gli amici e il piccolo pezzo di terra da curare, sotto alla
Font’a balle. Il viso segnato dalle rughe di un respiro ormai strozzato in
gola, a cercare aria in quei polmoni colabrodo. Su tutte una ruga come un nervo
riottoso, gli tendeva la palpebra sotto quell’occhio di vetro, tenendolo ancora
più fisso, inquietante, mentre il resto del volto si muoveva in altre direzioni.
Fu così che guardò per l’ultima volta Mariano, mentre scendeva a prendere
l’acqua alla fonte, con il suo trattore. Ma lì, da una siepe, Giggino non vide
arrivare la bestia dalla parte dell’occhio finto e quando gli fu davanti,
all’improvviso lo aggredì con la furia di un demonio che non esiste. Sbandò
Giggino, cadde dal trattore ed il trattore, come un grosso cinghiale abbattuto,
gli si rovesciò addosso.
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