sabato 16 marzo 2013

La paletta del destino

Lungo la schiena scorre lenta la goccia di sudore. L'abbiamo scampata. Adesso il piede è più pesante sull'accelleratore, ma l'ultimo chilometro è stato interminabile. Certo, andare in Facoltà con la macchina che ti ha prestato mamma dovrebbe rappresentare un'ottima alternativa all'autobus dell'Arpa, reso simile, a causa dei semafori francavillesi, ad una carovana andina con tanto di pollame sul portapacchi. Senza togliere la possibilità di farsi quei trenta km con gli Slayer a palla. Nel 1990 sono al massimo della forma, nelle vesti di metallaro truzzo e cotonato. Vado a comprare le mie scarpe da basket da Challenge che, a quei tempi, era un piccolo negozietto alle porte di Pescara. Arrivo con la mia copia di Metal Shock e chiedo alla proprietaria se ha le scarpe come quelle di Hetfield in copertina o come quelle di Steve Harris. Sono un bel grezzone. Il capello è ancora folto e mi permette qualche pettinatura hard con tanto di bigodini. L'aspetto generale è quello di un ventenne tipica preda degli spacciatori ed ambìto per la pratica della perquisizione anale da parte delle forze dell'Ordine. La macchina di mammà è una A112 elite, che sgomma anche in seconda, con due adesivoni degli Slayer e dei Gun'n'Roses, sullo sportellone posteriore. La dotazione amp è composta da una autoradio Bandrige più piccola del vano radio, la quale rimane attaccata ad esso solo per i cavi. La Radio, acquistata da tale Rosvelto (così battezzato in onore del Presidente americano), per la modica cifra di lire venticinquemila, riproduce solo audiocassette. Così, esco di casa quel pomeriggio, per andare a prendere il mio compagno di studi, Cristian. Cristian ed io ci siamo conosciuti in facoltà e condividiamo qualche lezione. Cristian è tutto il mio opposto: sempre vestito in modo adeguato, lavora già per qualche cooperativa di servizi e si sa muovere molto bene nell'ambito politico. Spesso ci troviamo a discutere per le differenze di vedute ma ,tutto sommato, siamo complementari. vado a prendere Cristian e, nell'impeto della sboronaggine, giro in Piazza Plebiscito, presso la fermata del bus, per vedere se possiamo caricare qualcun altro. Alla fermata dell'autobus troviamo Nico L., nostro amico comune. Nico è un palestrato col capello più lungo del mio ed un vistoso orecchino. Porta uno di quegli orribili spolverini tipo Raf anni 80 ma , considerando i crimini della società negli anni seguenti (vedi le versioni sado maso di Irene Pivetti) è un orrore sopportabile. La macchina, così assortita, potrebbe già costituire di per sè, oggetto di studi da parte di volanti della polizia e finanzieri travestiti da tossici. Una A112 con due capelloni ed un pseudo boss stile Al Capone, ha poche motivazioni per viaggiare lungo la costa: trasporto di carico fresco erbe ed affini, riscossione pizzo macellerie e pizzicagnoli, spedizione punitiva zingari ad importunatori sorelle. Niente di tutto questo. Tre ignari cazzoni che non hanno nulla da nascondere. Ma il destino è treccartista. Subito dopo avera caricato Nico ed ingranata la marcia, un omaccione corpulento si pianta contro il cofano anteriore dell'auto, costringendomi ad una frenata che manco Raikkonen. Trattasi di tal A. Mistror., noto tossicodipendente ortonese, a quei tempi benvoluto da tutte le questure del chietino, famigerato per il suo famelico appetito. Ero stato testimone, qualche anno prima, di una serata presso una tristissima festa dell'Unità, nella quale, piantatosi presso lo stand nel quale lavoravo, aveva ingurgitato centoventi arrosticini e cinque litri di birra. A. M. si fa un sacco di pere ed è la punta di diamante degli strafattoni ortonesi. Ora me lo trovo a sbarrarmi la strada. La A112 emette un rantolo come volesse dire: "Ejacrist!". Senza preamboli A.M. mi dice di abbassare il finestrino e mi apostrofa con parole che sembrano più una minaccia che una supplica: "Uagliù, dovete portarmi a Pescara!". Guardo velocemente nello specchietto retrovisore: il volto di Cristian ha lo stesso colore del suo cappotto grigio ed il cranio si è visibilmente rimpicciolito tanto che il cespo dei suoi riccioli sembra grande come il suo barboncino Popi. Non percepisco più la temperatura di Nico, seduto al mio fianco, sento solo il raschiare del suo pomo d'Adamo sulla gola, come a voler disperatamente cercare l'ultima goccia di saliva. meccanicamente, come un condannato a morte si alza, si mette dietro e lascia sedere il tossicone. Così inizia il nostro viaggio verso l'ignoto, insieme a Caronte che, a differenza di quello di Dante, lascia a me la guida verso l'Averno. Nella macchina non vola una mosca, posso percepire soltanto il respiro pesante dei miei due compagni di sventure,seduti dietro. C'è un sole nitido e lucente, ma scende il buio sui miei occhi, il buio quando vedo,ungo il rettilineo del Riccio, un posto di blocco dei caramba, con tanto di brigadiere in stivaloni mitraglia e paletta , sul ciglio della strada. Sudo come un Cristo prima che lo inchiodino. Percepisco uno strano nervosismo da parte di questo obeso Lou Reed. Si è accorto dell pattuglia ed inizia a mettersi le mani sulla faccia, tentando di aggiustarsi sul sedile, quasi volesse farsi più alto per nascondere la faccia sul bordo superiore della carrozzeria. Di colpo abbassa il parasole. E' certo. A.M. ha qualcosa da nascondere. Due le opzioni: ho non può andare a Pescara per qualche ragione legale o deve andare a Pescara perchè deve vendere qualcosa. Ma le porte dell'inferno non sono abbastanza larghe, perchè si aprono sotto di noi, nonostante si tenti di rimanere attaccati alle maniglie della mia A112. Così, ad appena duecento metri dal caramba palettato, A.M. visibilmente bianco in volto, si gira verso di noi e con voce simile a quelle di un dottore che vi diagnostica il tumore, ci dice: "Uagliù, se ci fermano, è finita." Anche il rombo del motore è muto, le mie orecchie sono ovattate. Guardo per inerzia lo specchietto retro e scorgo lo sguardo vitreo e perso nel vuoto dei miei fratelli di sventura, che leggono gli ultimi istanti della loro vita per bene sul ciglio della strada. Arrivo a cinque metri dalla pattuglia. Guardo una sola cosa: la paletta rossa stretta nelle mani del carabiniere, pronta ad alzarsi con gesto meccanico. Ma questo non avviene. Probabilmente qualcuno scoreggia in macchina, perchè la tensione degli orifizi si allenta di colpo. Il resto del viaggio, non lo ricordo. So solamente questo: da quel giorno, quando vedo uno strafattone sul bordo della strada, cerco di finirlo, sterzando di colpo.

domenica 17 febbraio 2013

I'm out of touch


Domenica di febbraio. C'è qualcosa che attrae in modo irresistibile verso il mare. E' come se le mura di casa, l'orizzonte chiuso ti soffocassero; devi assolutamente cercare un luogo aperto alla visuale, per poter respirare. Se non vado in bici per i miei soliti allenamenti, vado al mare. Il cane mi guarda, è pronto per entrare nel furgone, lo sa che andremo in spiaggia.
 E' strano notare la stessa ansia in lui, la stessa voglia di fare quattro passi sulla riva, la mattina presto. Non c'è nessuno. La spiaggia è ancora "fuori uso", ad aprile ci saranno i primi preparativi per la nuova stagione. Metto in cuffia un pò di musica e passeggio guardando i primi chiarori. Questa mattina è stato diverso. Mentre ero assorto nei miei pensieri, nel succedersi dei brani in sequenza non ordinata, mi è capitato un pezzo particolare, che mi ha fatto ritornare con la mente ad un determinato periodo, un pezzo di Dayl Hall & John Oates: "Out of touch".

 Di colpo mi sono trovato nella camera di questo mio amico quasi ventinove anni fa. Non ero solo, con me c'erano Marco, Andrea, Antonio, Eugenio. Era un momento particolare della nostra adolescenza. Vivevamo quel passaggio che precede le scelte per la vita che dovevamo vivere, dagli studi, al militare, alla possibilità di imbarcarsi, al continuare le attività di famiglia. Nella stanza c'era un Commodore 64, con il quale giocavamo a "Ghostbusters". La grafica era terribile, ma per noi era come vivere nell'era spaziale. Era il periodo dell'Impavida pallavolo in serie A1 e delle grandi seghe sulle ragazze del paese che ci piacevano. Febbraio era anche il periodo che precedeva le gite lunghe della scuola. A tale proposito si formulavano progetti astrusi sul comportamento da adottare durante il viaggio d'istruzione. Ci dividevamo in chi aveva il motorino e chi no. Io ero posto in una via di mezzo. Avevo restaurato una Graziella, verniciandola di nero e customizzandola con il mio nome "anglofonizzato": Jan Lucky. Ci andavo a scuola e qualche volta al mare. Era bruttissima, tanto che, una volta, la lasciai per il corso e ritornai a casa a piedi, scordandomi di lei. Me ne accorsi la mattina dopo e una volta arrivato sul posto, col timore che l'avessero rubata, la trovai appoggiata sui bidoni dell'immondizia. A quei tempi ascoltavamo di tutto: io ero quello della compagnia, dai gusti più estremi., Eugenio era il raffinato, Marco amante della musica italiana. Avevo comprato un bootleg rarissimo degli X, si chiamava "Angry young lovin'", lo avevo passato su cassetta e lo avevo mischiato ad altre cose che non c'entravano niente tipo "Pyromania" dei Def Leppard e "Waiting for the sun" dei Doors. Eugenio era in pieno trip post Police e ci sfiatava con il primo di Sting. Chi ascoltava Sting, Sade, Lloyd Cole & The Commotions era giusto, chi come me ascoltava Accept, Ozzy Osbourne e Joy Division era un truzzone.


Proporre ad Eugenio sul suo megastereo Kyocera un lp heavy metal, era impossibile. Tuttavia adottai la tecnica dell'adattamento al nemico per potermi infiltrare nella sua retroguardaia. Lasciai i miei lp a casa sua, chiedendo di passarmeli su musicassetta e di registrarmi qualcosa della sua discografia. La strategia fu vittoriosa ed in poco tempo le barriere musicali fra noi si sgretolarono. Un altro pezzo che mi è tornato in mente è "New year's day" degli U2, uno dei pezzi più belli della musica rock. Mi ricordo che vidi un live da Red Rocks su Rai tre, ma questo risale al 1983 circa. Li conobbi così e per delle vecchie recensioni su "Mucchio Selvaggio".  Altre meraviglie del periodo che ho riportato alla memoria sono il Farewell Concert degli Who da Toronto e le dirette live dalla Germania di concerti heavy metal. Sempre a Febbraio la Rai tre trasmetteva esibizioni dei Judas Priest, dei Def Leppard, di Michael Schenker, degli Iron Maiden. Quello che mi colpiva di quel periodo è come già amassi trascorrere pomeriggi ancora freddi, passeggiando lungo le banchine o sulla spiaggia. Già andavo in cerca di qualcosa, non cosa, forse l'urgenza di veder cosa mi avrebbe riservato il futuro. Il ricordo che mi riempie di commozione è quello della "Roulette russa con le onde". A volte con il mare in tempesta, le onde erano talmente alte da scavalcare il muro di protezione del molo nord. Si trattava di correre rasente al muro con la speranza di non venire beccati dall'ondata. Spesso tornavamo a casa bagnati fradici anche a dicembre. Questo mi è tornato in mente stamattina, ricordi e basta, senza nostalgia per quel periodo, perchè la nostalgia ed il rimpianto portano alla tomba. Se dovessi passare i miei quarant'anni a ricordare i miei venti, cosa farò a sessant'anni? Ricorderò di quando avevo quarant'anni e passavo il tempo a ricordare i miei venti?

domenica 20 gennaio 2013

Appunti per il Capodanno definitivo



Niente da fare. R. getta disperato la fronte sul volante. L’ennesimo tentativo. Il furgone non parte. Nel silenzio della notte, solo il rantolo di un motore imballato viene restituito dai ripidi versanti di roccia della gola nella quale siamo chiusi da ore. Sinceramente, non ci aspettavamo un epilogo così tragico di queste due giornate, ma il peggio è accaduto. Mi giro, verso la vecchia Ford, nella quale mia moglie e W. Si battono le braccia sul petto per darsi un po’ di calore. Fuori ci sono tredici gradi sotto zero. “Li muorte di’Criste!” Bestemmia R., mentre la sua voce si perde lungo la pietra. Non parte, non parte, il diesel è ghiacciato. Inutile tentare ancora. Non passa nessuno. Non passerà nessuno. Non può passare nessuno alle 4 di mattina del 1° Gennaio 2000. Non passerà nessuno nel primo giorno del primo anno del terzo millennio Dopo Cristo. “Mannaggiasanda!”. Se ora ci vedesse un satellite dall’alto di questo cielo, terso, senza una nube, trasmetterebbe lo svolgersi di questa tragicommedia che neanche i fratelli Cohen, neanche i Monthy Piton, neanche Villaggio… E pensare che tutto era iniziato nel migliore dei modi.
Riusciamo ad ottenere la possibilità di suonare durante le celebrazioni del capodanno. Di solito il musicista non definisce la sua carriera solo in base al successo che viene decretato dal pubblico, ma anche dagli eventi base ai quali è tenuto a partecipare, per avere il titolo di “uno che ha fatto la gavetta”. Così io il Deg e Di Tokio, riusciamo a passare i tanti esami dell’artista acciaccatutto, grazie alle esibizioni live nei più disparati contesti: si va dalla Festa della Lega Navale, al matrimonio con rito civile, alle feste di partiti della prima e seconda Repubblica fino all’intervallo musicale tra uno spettacolo porno fist fucking e l’altro, con tanto di mixer montato vicino al tavolino con falli in gomma di varie misure. Leggende metropolitani si vanno così, ad accumulare nel sottoscala dei nostri ricordi. Tra i must del gavettaro c’è indubbiamente il “suonare a Capodanno”. Per l’occasione si assemblano formazioni musicali variamente assortite. Nella band di solito, al musicista di professione si affiancano strimpellatori per necessità e vecchi amici messi lì a fare presenza, con il volume dello strumento rigorosamente a zero. Arriva così il gran giorno. Il nostro Manager Alessandro ci segnala per la serata di capodanno 99/2000 presso un noto locale a Scanno, dove si terrà una megafesta di fine anno e dove non ci sono particolari esigenze danzerecce. Stiliamo quindi un repertorio misto tra successi pop del periodo e sempreverdi brani rock.  Per arrivare a Scanno, si prende l’A24 e si esce a Cocullo ( nota per la processione dei serpari). Si passa quindi per Anversa degli Abruzzi e, attraverso le inquietanti Gole del Sagittario, si arriva a Scanno. Avendo un po’ di parenti ad Anversa, riesco ad ottenere da parte di un cugino di mammà, l’utilizzo di un paio di stanze che potranno essere utili per riposare, quando torneremo dalla serata e per non fare tutta una tirata fino ad Ortona. Partiamo il pomeriggio. Deg si fa prestare il furgone dallo zio che ha un’attività sotto il porto.  Deg fa il pieno presso il distributore sulla banchina, lo stesso dove i pescherecci si riforniscono per le loro battute si pesca. Errore fatale. Dopo aver caricato gli strumento partiamo alla volta di Anversa. Arrivati, giretto per il paese, incontro con il lontano cugino, accesso all’abitazione, accensione riscaldamento, rilascio chiavi, saluti e baci. Partenza alla volta di Scanno. Le gole del Sagittario sono uno stretto budello scavato nella roccia, nel quale si snoda una piccola strada asfaltata carrabile quasi come quelle andine.  Passando sotto la diga del lago arriviamo a destinazione presso il locale dell’Evento. La sera è limpida ma già fredda e questo potrebbe destare non poca preoccupazione se non fossimo affaccendati con l’attrezzatura. Dopo il cenone si attacca. Della serata, dal punto di vista musicale, non ho un gran ricordo. Forse una versione di “Back in Black” abbastanza squallida ed un “Flaca” ripetuta almeno 3 o 4 volte. Già dal primo pit stop, la temperatura si aggira intorno ai cinque gradi sotto zero. Dopo il tanto temuto passaggio del millennio, così carico di profezie nefaste che manco Umberto Eco, suoniamo fino alle tre. Pagamento cachet, saluti, baci e partenza alla volta di Anversa dove, una casa ben riscaldata, ci aspetta per farci godere un meritato riposo. Io e la mia signora andiamo avanti mentre il DEg e W. Ci seguono con il furgone a due tre minuti di distanza. Di Tokio invece, è partito prima con la sua vecchia Peugeot a recuperare la sua consorte russa, in un locale della costa dove si esibisce. Costeggio lentamente il lago. Il cielo è terso, la strada è ghiacciata, ci sono tredici gradi sottozero. La notte è assolutamente silenziosa. Al di fuori del rumore della nostra auto. Sul lato della carreggiata ci sono due auto ferme, in panne. Non possiamo aiutarli, anzi, quasi ci viene da ridere. Non sappiamo cosa ci aspetta. Mentre scendiamo oltre la diga, uno squillo al cellulare. Il Deg. “Giallù, il furgone non cammina! Pare che vada a tre cilindri!” Spinto fino ad adesso da una leggera discesa, il Ducato ci è stato dietro anche se distante. Ora è fermo al lato della strada ed a nulla valgono i tentativi di rianimarlo. Intanto la temperatura nell’abitacolo scende. Dopo un’ora siamo qui, in quattro, al centro d’Italia, che poi per gli italiani sarebbe il centro del mondo, al freddo, nella notte tra un millennio e l’altro, alle quattro del mattino, senza un’anima, con la possibilità che qualche branco di lupi del vicino Parco Nazionale ci sbranino, con una casa non molto distante che ci aspetta , calda ed  accogliente e non possiamo fare nulla per cambiare la nostra situazione. Alte si levano bestemmie d’Ognissanti. Riemergono vecchi rancori tra musicisti. Tutti maledicono tutti, il freddo obnubila le menti, si cerca di menar le mani, si rimpiange di aver imparato lo strumento, si impreca il divino immacolato cuore della divinità madre, si giura al cielo, etrna vendetta agli dei immortali. Solo la mia vecchia ford, a benzina riesce a fare spola tra Anversa ed il luogo del delitto. Al mattino, un benzinaio crumiro, con l’alito di stracotti all’aglio e spumanti dolci, ci vende a caro prezzo un litro di verde. Deposto il sacro liquido nel serbatoio del cassone morente, avviene il miracolo sotto il sole del primo gennaio. Una botta di vita. Parte il furgone ma ormai tutto è perduto: amici, felicità, riposo, possibilità del paradiso dopo la morte.

martedì 24 gennaio 2012

Fenomenologia del Sig. Peppe


Signor Peppe è un uomo anziano travestito da cane. Rare volte ho potuto scorgere nello sguardo di un quadrupede una espressività simile a quella di un vecchio seduto alla panchina del parco. Sig. Peppe già ha organizzato la sua giornata; sa quello che vuole e quando lo vuole.
Sveglia ore 6,35: Sig. Peppe si lamenta dal fondo delle scale a causa della vescica piena. Guai a non accontentarlo, la farebbe in cucina.
Ore 6,40: Sig. Peppe, una volta aperto il cancelletto che gli impedisce di venire a dormire insieme a noi, sale nella zona notte e ad un mio cenno, si reca presso la padrona, ficcando il naso sotto le lenzuola. Simpatici effetti si possono ottenere quando, a causa della sua coda che l’allevatore ha avuto il buon gusto di non tagliare, scodinzolando, suona la chitarra che si trova appoggiata al muro, accanto al letto.
Ore 6,45: Sig. Peppe si indirizza verso il magazzino ove il padrone, calzati gli stivali di gomma onde evitare di bagnarsi per la uazza mattutina di campagna, appronta il guinzaglio più simile ad una gomena di veliero che ad un arnese per tener fermo un cane.
Ore 6,47: Primo incontro del Sig. Peppe con il suo acerrimo nemico: un gatto bianco e nero, perfetta copia di Gatto Silvestro. Se il sottoscritto non è attento, ne consegue una lussazione della spalla.
Ore 6,50: in prossimità dell’oliveto secolare, Sig. Peppe ha l’incontro con il secondo acerrimo nemico: un gatto nero che sosta tra le fratte e che fugge lasciando una traccia la quale provoca sul cane il risveglio dell’animo cacciatore (prime minzioni sul percorso)
Ore 7,00: atto grande del Sig. Peppe su zona di preferenza e tentativo di fare colazione con il resto delle olive cadute dagli alberi.
Ore 7,05: Seconda passata di saluti ai familiari e grandi aspettative per la colazione canina:
mattinata: tempo libero affacciato alla finestra su due zampe(giuro!), relax, gioco con i presenti a casa e furto di indumenti intimi sporchi dal cesto della biancheria.
Nel caso si trattasse di domenica mattina: passeggiata con extra trail sulla spiaggia, dove Sig. Peppe si lancia in corse forsennate e produce quintali di sterco che una mucca maremmana impallidirebbe. Momenti di empatia con cani e gente che cammina. Allenamento con lancio del bastone e riporto in puro stile filmetto americano di Walt Disney.
Ore 13,00: Sig. Peppe saluta calorosamente i familiari arrivati per il pranzo e si affaccia di nuovo al balcone del soggiorno, per dissuadere venditori ambulanti di colore che suonano alla porta.
Ore 13,05: Elemosina intorno al tavolo con sguardo rubato ai bambini di “we are the world”, frequenti posizionamenti del muso questuante sulle cosce e occhio da mendicante.
Ore13,30: seconda passata nell’oliveto, previa richiesta del servizio tramite l’appoggio della zampa sulla coscia del padrone
Ore14,30: riposo e meditazione
Ore18,30: Sig. Peppe saluta i presenti ed i convenuti e subito richiede con vigore l’accompagnamento al fine di svuotare le viscere.
Ore 19,00: Grattata sotto il muso o gioco con lotta e finti morsi, simpatico effetto trottola, girando su se stesso. Piccoli ruggiti di piacere
Ore 20,30: altra elemosina intorno al tavolo
Ore 22,00: Uscita notturna e svuotamento soporifero.
Ore 23,30: eventuale ultima uscita veloce, su richiesta esplicita del Sig. Peppe, per pisciatina di sicurezza.
Ore 24,00: grattatina e saluti sulla brandina.

Questo programma è molto simile ad un orario di un qualsiasi ospizio, tranne i bisogni, che gli anziani purtroppo, sono costretti a farsi addosso.

sabato 19 febbraio 2011

Passare il sabato con i trichechi


Ho passato il sabato sera a guardare i trichechi. Penso sia giunto il momento di eliminare le cose superflue. Ma quali sono le cose superflue? Alcune persone che non mi hanno lasciato nulla da ricordare, alcuni oggetti inservibili, messi da parte, per anni, con l'idea che sarebbero serviti a qualcosa, alcuni giorni da dimenticare. Nessuno si mette più a guardare i trichechi. Servirebbe a concentrarsi sulle cose da fare, su cosa dire. Ma a chi lo dico che guardare i trichechi è utile?

sabato 13 febbraio 2010

La messa di Natale


Don Francesco era parroco di S. D., una piccola frazione dell’entroterra ortonese. Originario della Tuscia, aveva portato dal suo paese, una vecchia 126 color cacca di piccione che tentava invano di parcheggiare nelle vie limitrofe alla sua chiesetta, vie tutte intitolate, stranamente, a quanti lo avevano preceduto alla guida della parrocchia. Questa cosa lo preoccupava molto ed al tempo stesso gli procurava un po’ di invidia. Si vociferava, infatti, che si aggirasse di notte, nel suo catorcio, alla ricerca di una strada vergine od uno slargo che avrebbe potuto avere il suo nome, per quando lui non sarebbe stato più. Per questo molti lo avevano soprannominato “il piazzetta”. Statura bassa tarchiata, guance rubizze, scrima leccata ed appiccicata verso sinistra, una pancia che si allungava rotonda, contenuta da una vecchia cinta., colletto bianco che gli procurava un clamoroso triplo mento, quasi fosse un cappone in amore. Ma Don Francesco aveva una caratteristica saliente: era ingordo. Spesso lo si vedeva in gran fretta andare dalla perpetua verso mezzogiorno, pranzare velocemente, impastando frasi poco chiare riguardanti impellenti doveri ( in verità spazzolava sempre tutto) ed uscire prima che fosse l’una, per andare a scroccare un altro pasto completo ed abbondante da un suo parrocchiano, armatore di un piccolo peschereccio, con la scusa di benedirgli qualche cosa. Il parroco della frazione vicina, Don Igino, sibilava malignamente sulla porta della chiesa, quando lo vedeva passare: “ il battello è piccolino, ma che stiva capiente!”. Don Francesco, in ogni caso, aveva già fatto selezione di chi poteva essergli utile e di chi, invece, inquadrata la sua vera natura, avrebbe potuto dargli dei fastidi. Di solito, simili individui, avevano la stessa indole di quel prete. Attaccata alla canonica, c’era la piccola abitazione del Piazzetta: due stanze al piano terra, tenute pulite dalla perpetua ed un piccolo scantinato, dove Don Francesco, teneva i suoi tesori: prosciutti, formaggi, regali di vecchiette devote e soprattutto una riserva di vino da far invidia ad un Ricasoli. Trebbiano, Montepulciano, Pecorino, tutti vini abruzzesi, talmente raffinati e conservati bene al punto che lui li divideva tra la tavola e la funzione religiosa: egli sosteneva infatti che un vino cattivo avrebbe potuto invalidare la Messa. Con questa scusa, nelle varie celebrazioni della giornata, si scroccava un quartino alla volta, riempiendo la coppa dell’Eucarestia fino all’orlo. Ma, coerentemente con la sua figura di prelato, non era tenero con gli uomini dediti agli eccessi e specialmente con uno: Giuvannine Cendechioppe, un raggrinzito e maturo manovale, esperto soprattutto in lavori di “gomito”. Don Francesco era solito scagliarsi proprio contro Giuvannine nei sermoni della domenica, quando parlava di sobrietà e di vizio. Dopo aver preparato proprio uno di questi sermoni, si ritrovò, la sera di Natale, verso le dieci e mezzo, a scendere in cantina per prender il vino necessario alla celebrazione di quella Santa ricorrenza. Il Piazzetta, accesa la luce, ebbe una terribile sorpresa: la cantina era vuota come una zucca secca! Spariti prosciutti, formaggi ma soprattutto il vino! Barcollò come un pugile sotto i pugni dell’avversario…come avrebbe fatto adesso? I sospetti caddero subito su Giuvannine che proprio in quel momento passava per la strada vicina rivestito di tutto punto per la Messa. Don Francesco concluse immediatamente che quel furfante, per pagarsi il vestito buono, aveva barattato i tesori del suo scantinato con qualche pannazzaro del mercato al giovedì. Pensò immediatamente di vendicarsi. Ma il pretino non era uomo dai gesti eclatanti, era subdolo e non era capace di fare scenate, ma poteva essere mellifluo e suadente anche con il peggiore dei nemici. Ci voleva una scusa per attirare Giuvannine nella trappola. Decise di chiamarlo. Gli chiese: “Giovannino caro, vedo che sei vestito di tutto punto per questo Santo giorno, ma hai l’animo pulito?” “Frechete Don France’! ” gli rispose Giuvannine. “Giovannino” disse il parroco “ Io penso di poterti dare una indulgenza speciale per Natale, se compirai una buona azione, cenando con me in sagrestia prima della Messa. Sono molto solo e vorrei condividere con te questa ricorrenza. Dimentichiamo tutto il male che ti ho detto. In fondo sei un buon uomo.” Il povero Giuvannine che era sbevazzone ed anche un po’ fesso, cadde nella trappola. “Scine Don Francè! Lu vine li’ puorte ije!”. Detto questo corse a casa a prendere una bottiglia di Montepulciano, dalla sua, in verità, non molto fornita riserva. Un’oretta prima della messa eccoli, in sacrestia, Don Francesco e Giuvannine, imbandire la tavola su di un panchetto attrezzato all’uopo. Fu quando Giuvannine si mise di spalle per stappare la bottiglia di vino che il Piazzetta gli assestò un colpo sulla testa con un vecchio candelabro. Giuvannine cadde come un sacco di patate. Fatto questo, il parroco, lo spoglio, avendo cura di ripiegare per bene il vestito nuovo della vittima e ficcò con forza il corpo inerte del beone, in mutande, dentro un ripostiglio pieno di statue di gesso e vecchi paramenti. Eccolo Don Francesco, sull’altare durante la celebrazione dell’Eucarestia, nella messa del Santo Natale. La chiesa era piena di fedeli e di parenti ritornati al paese per le festività. Don Francesco celebrava con solennità. Stava lì con il calice in mano pronto per la formula del messale: “ Prendete e bevetene tutti…” Quando, fu interrotto da una voce che sembrava provenire dall’aldilà: “ Che ‘dda fè tu?” . Il parroco barcollò tra il brusìo generale. Poi si ricompose e tentò di continuare: “ Questo è il mio…” Ad un lato dell’altare era comparso Giuvannine, in mutande, con la stola sulle spalle ed una mitra presa dalla mano di chi sa quale statua di Santo. “Quessè iè lu vine mè!” . Nel boato di stupore di indignazione e di risate dei più maliziosi, Don Francesco svenne. La messa andò a monte e molti fecero in tempo ad andare nell’altra parrocchia, da Don Igino, per seguire la celebrazione. Il Piazzetta passò la notte delirando, con un febbrone da cavallo. La settimana dopo, dopo una sonora lavata di capo presso la curia vescovile, venne trasferito in un’altra parrocchia, questa volta vicino il suo paese. Il fattaccio fu argomento di conversazione nel bar per qualche tempo, poi fu dimenticato. Pochi, però, avevano notato quella famosa sera di Natale, all’entrata della chiesa, un uomo, mai visto prima, scuro, sopracciglia foltissime e barba puntuta, che uscì sogghignando, nella notte, lasciando dietro di sé una penetrante scia sulfurea. E’ inutile dire che, a Don Francesco, nessuno del paese aveva rubato nulla.


sabato 16 gennaio 2010

I poemi dell'hashish 1987


Qualche scapigliato nordeuropeo, di quelli ricchi che, non avendo un kazzo da fare, ha dedicato la sua vita gli abusi e alle lettere, ha sublimato il consumo delle droghe attraverso il resoconto di esperienze sotto l`effetto delle stesse. Nonostante l`effetto talvolta, innegabilmente piacevole del consumo di cannabis e suoi derivati e per mia fortuna non conoscendo gli effetti degli oppiacei, della coca e delle droghe di sintesi, devo dire che questi kazzoni, hanno idealizzato ai giovani un mondo, che tutto sommato avrebbe potuto essere sostituito, da banchetti di alta qualita` e da un forte consumo di gnocca. La topa non ha controindicazione ed e` linguaggio universalmente riconosciuto, anche se I pericoli del culo, ultimamente, fuorviano il giovane, intimidito da femmine sempre piu` aggressive. Cosi` per essere normali, anche noi all`epoca, abbiamo dato valenza artistica a pratiche altrimenti da curva sud laziale. La lettura di Baudelaire, Mallarme`, Verlaine e Benjamin, ci spinge a tentare una strada pecoreccia, tipo acid test americani. Ci riuniamo quindi nella mia stanzetta di via XX settembre, per consumare smodatamente dell`hashish, tenendo a secco un nostro amico ,tale Roberto, il quale viene costretto a registrare i nostri discorsi e le nostre sensazioni, sotto l`effetto della cannabis. Io, Gianni, Caco`, Berardo, uno dei fratelli C., Remo ci ammucchiamo per terra, mentre il F. tiene il taccuino. L`esperimento presenta notevoli spunti, tanto che alcune frasi storiche vengono coniate e lasciate ai posteri da questa importante seduta. Nostro nume tutelare e` il compianto Chuck Schuldiner, leader dei Death, autore di una intervista su di una nota fanzine svedese o norvegese. Il motto coniato dallo Schuldiner e` contenuto nella risposta alla domanda che l`intervistatore, l`altro compianto Hyeronimous leader dei Mayhem gli pone. «What about your next projects?» chiede H. e Chuck lapidariamente risponde: « To find a long blond-haired woman who suck my cock and let me shoot my cum into her mouth and all over her face!». Forti di questi principi, affrontiamo la serata pieni di iniziativa, ma la qualità del fumo ed i percorsi linguistici, ci fanno prendere una piega diversa. C., in crisi con la sua ragazza, a causa nostra e delle nostre notti brave, incomincia ad avere manie di gerontofilia, monopolizzando il suo pensiero sulla mia governante ottantaquattrenne che dorme nell`altra ala dell`edificio. Intuiamo subito il pericolo, senza un`azione di forza, già mi vedo cacciato da casa con l`accusa di stupro di anziana. C. di colpo, imbocca la via delle scale per andare verso la camera della vecchia, urlando a gran voce le sue intenzioni sessuali. Lo raggiungiamo a pochi metri dalla stanza e lo solleviamo tappandogli la bocca, trovando l`uscita e la mia salvezza. Giunti in piazza, la sua follia bulbicida non si ferma. Aizzato dagli altri e dalla mia nota insensibilità al dolore, sotto l`effetto di alcol e fumo, inizia a fare apprezzamenti negativi sul modo nel quale mi rado di sovente. Il dissenso monta, si amplifica, si trasforma in disapprovazione. Vengo afferrato da quattro energumeni. Sotto gli occhi di gruppi universitari, in una sera non eccessivamente tarda, al centra della piazza del capoluogo regionale, il C. , mi rade a secco in maniera approssimativa e criminosa, urlando frasi sconnesse circa la missione igienica dei barbieri. Il mio dimenarmi fa sì che la rasatura non sia ne regolare ne precisa. In poche parole, la mattina dopo mi presento all`università, senza la barba da un lato, con un baffetto alla Hitler e con numerose ferite di arma da taglio sul volto, suscitando forte ilarità tra i convenuti presso l`aula di disegno all`ultimo piano. Della serata esiste un testo ed un cartellone scritto che gelosamente conservo.