Uscire da un social network dopo
tanti anni è operazione dolorosa. Nel 2006, complice la facilità di accedere
alla rete da parte di mio fratello, usavo passare il dopocena in camera sua
davanti al computer. Avevo già avuto qualche approccio con internet nel 1996,
collaborando con un ufficio comunale della mia città. Fu solo dieci anni dopo
che mi avvicinai a questa neonata “piattaforma di socialità virtuale”. La
possibilità di caricare foto, scambiare commenti su fatti o persone,
condividere passioni o desideri, mi illuse sul fatto che avrei potuto parlare
con i miei conoscenti o amici anche solo rimanendo seduto a casa davanti al pc.
Credevo che il mondo intero mi leggesse e qualsiasi cosa avessi detto, avrebbe
influenzato l’opinione pubblica quasi che fossi un oratore sul piedistallo ad
arringare una folla immensa. Iniziai così a regolare la mia vita in base a
ritmi che mi avrebbero consentito di ritagliare del tempo da dedicare alla
rete. Dapprima con discrezione e goffaggine, in seguito con assiduità quasi
maniacale. Con gli anni non stavo cambiando solo io ma anche quelli che come
me, erano dentro il social. Si andava
sviluppando una sorta di luogo nel quali tutti, complice la mancanza di
corporalità dei rapporti, avevano la possibilità di sfogare le proprie
frustrazioni sugli altri: dalle insoddisfazioni sentimentali ai problemi di
lavoro e di salute, alle difficoltà economiche dovute alla crisi che sarebbe
esplosa alla fine del decennio. La mancanza di corporalità e quindi l’impossibilità
di provare dolore fisico, spingeva le persone ad andare oltre il normale dibattito
civile, sicuri di non essere colpiti o feriti. Una sorta di invulnerabilità da
schermo che spingeva a disertare il lettino dello psicologo per risolvere
tensioni e incomprensioni contro la sagome-bersaglio degli altri. Nonostante ne
percepissi il pericolo, per un certo periodo, mi sono fatto coinvolgere in
discussioni sterili nelle quali, per quanto apportassi contributi interessanti
e ne ricevessi altrettanti, nessuno cambiava idea, nessuno era capace di
confessare l’errore o il malinteso, spingendosi verso la pratica della
negazione della verità pur di non essere perdente. Ci fu il periodo dell’autoscatto
che accrebbe il proprio io, spazio atemporale nel quale proiettare la propria
immagine filtrata dallo specchio di Dorian Gray. Piacersi, amarsi, venerare la
propria opinione, cercando di essere migliori della propria intima natura,
terrorizzati dallo scoprire sul tavolo le proprie debolezze, i propri limiti, i
propri no. Così il tempo è passato, rinunciando a qualche passeggiata, un buon
libro, un centimetro in più nell’altezza dei figli, una ruga che veniva scavata
ai lati della bocca. Ci sono stati momenti piacevoli nei quali, ho ritrovato
lontanissimi amici con i quali mi impacchettavo nelle cabine telefoniche per
dare appuntamento agli altri il sabato pomeriggio. Qualcuno mi ha mandato foto
di cose che avevo dimenticato, di persone scomparse, di avventure vissute
veramente. Tutto si è appiattito nell’abitudine allo stupore, nel qualunquismo
del dolore, nell’assuefazione alla vanità scomposta. Ho vinto e ho perso un’elezione
sulla rete. Ho perso l’umanità sulla rete, sono stato sempre sul pezzo nella
rete. Un giorno, dopo aver passato a sguazzare nel grottesco dei commenti, nell’analfabetismo
come caratteristica vincente, nell’allarmismo bigotto, nella deitalianizzazione
dello scritto, ho capito che, quando sarei stato troppo vecchio, non avrei
potuto raccontare agli altri cosa avevo fatto in questi ultimi quattordici anni ma come li avevo passati stando davanti al
computer. Ho detto basta, sono uscito senza salutare, ho lasciato i miei mal di
stomaco nell’account. Ho deciso di ritornare alle mie pagine sul blog dove
ognuno e nessuno è il benvenuto.
sabato 14 dicembre 2019
domenica 24 novembre 2019
Le colpe dei figli ricadano sui padri
Sono le ore diciotto. Siamo
arrivati alla fine di marzo. Ha smesso di piovere da poco e mi trovo in fila,
con il mio furgone, all’ingresso del paesotto che per comodità sigleremo per O.
Il mio stereo quasi a palla produce vibrazioni profonde nella carrozzeria del
mio van, causate dal basso di Jaco Pastorius. Aspetto distrattamente che la
fila di auto proceda. Davanti a me uno scooter, guidato da una ragazza, è
posizionato sulla destra. Allo scoccare del verde, la fila avanza con un
sobbalzo. La ragazza accelera nervosamente ma la strada resa viscida dalla
pioggia , fa sbandare il motorino. La ragazza perde il controllo e finisce a
terra. Io mi trovo immediatamente dietro e assisto a tutta la scena con un misto
di sorpresa e disappunto. La ragazza si rialza ma è visibilmente dispiaciuta.
Istintivamente scendo dal furgone per prestarle soccorso. La giovane non ha
riportato danni ma piange amaramente guardando lo scooter. Noto subito che la
motoretta è nuova fiammante e questo costituisce il motivo del suo pianto. Le
chiedo se ha bisogno di aiuto e tento di rialzare il ciclomotore. “Lasci stare
quella moto”! Dalle mie spalle odo una voce in tono di comando e uno scalpiccio
di tacchi in cuoio. Mi giro. Un ometto, baffi riportino e occhiale di foggia
antica, sta correndo verso la scena dell’incidente mentre le altre auto passano
oltre, curiosando noiosamente. “La stavo solo aiutan…” Non riesco a finire la
frase “ Lei stia zitto!” mi apostrofa il tipo, rivolgendosi alla ragazza “Cosa
è successo, signorina”? Il tizio interroga la giovane ma lei piange e riesce
solo a bofonchiare qualcosa. Rimango senza parole e non mi rendo conto subito
della situazione” Io…”, vengo nuovamente interrotto. “Non l’ho interrogata,
deve essere la ragazza a dirmi cosa è successo veramente!”. Poi si rivolge
nuovamente a lei “ Su, mi dica, sono un assicuratore”. In questo momento
comprendo quale ipotesi, questo ometto, venuto dal nulla, abbia potuto
formulare nella sua testa: Io, individuo fuori dall’aspetto standard di persona
di cui fidarsi, ho causato la caduta della giovane dallo scooter e ora sto
approfittando per inquinare la scena del
sinistro rialzando la suddetta moto e lasciando la giovane al suo destino. Per
fortuna, la ragazza ha il buon senso di rispondere al tizio. Discolpandomi completamente.
Aspetto invano delle scuse ma ricevo solo le sue spalle. Ho troppa fretta per
acchiapparlo per il bavero e insegnarli l’educazione, sono impietrito, non so
cosa dire. La scena in sé stessa ha occupato il tempo di un minuto ma le azioni
e le intenzioni mi hanno raccontato tutta la vita di quell’uomo e come egli si
ponga nei confronti degli altri. Mentre mi rimetto alla guida, allontanandomi,
guardo lo specchietto retrovisore per sincerarmi che la ragazza stia bene. L’uomo
le è ancora vicino. A questo punto mi viene il dubbio che la mia innocenza
possa trasformarsi in una colpa. Quell’uomo, quel piccolo essere dal riporto
leccato, potrebbe spingere oltre il limite la sua attitudine a ricercare la
situazione nella quale sguazzare, me lo immagino dire alla ragazza: “Mettiamoci
d’accordo, io sono assicuratore, posso testimoniare, dichiariamo che quel
furgone , con una mossa azzardata, ti ha fatto sbandare e diamo la colpa a quel
barbuto con gli orecchini. Secondo me è disonesto già dall’aspetto, forse usa
droga e maltratta figli e moglie, forse è un ladro. Vedrai, caveremo soldi
dalla sua assicurazione. Si vede dalla faccia quanto sia colpevole
geneticamente.” No, la mia mania di persecuzione non può spingersi oltre. Forse
sono colpevole veramente, quel tizio ha ragione. Non avrei dovuto fermarmi,
avrei dovuto farmi i cazzi miei, perché c’è sempre un assicuratore fermo ad
accorrere sulla scena dell’incidente per dare la colpa a qualcuno. Adesso torno
indietro e mi invento qualcosa tipo: in effetti l’ho fatta cadere io la ragazza
e l’ho minacciata in modo che lei desse la colpa dell’incidente all’asfalto
bagnato e alla sua imperizia. L’ho fatto perché avevo fretta, non avevo la
patente in regola oppure stavo trasportando della droga ed un contrattempo
avrebbe rovinato i miei piani criminosi.
Potrei vedere così, il volto dell’assicuratore
illuminarsi, per il fatto che aveva ragione a non fidarsi, perché quelli con il
mio aspetto sono tutti dei poco di buono. Avrebbe chiamato i carabinieri per
verbalizzare la mia confessione ed essere sempre più convinto che la sua
condotta fosse quella giusta. Sarebbe stata la glorificazione della sua faccia
schifata quando mi ha apostrofato. Lo vedo, seduto davanti al televisore, vomitare
improperi contro il malcostume di quelli come me, con l’aspetto di sovversivi,
pronti a sfidare l’ordine costituito in virtù del loro aspetto, gente che non
oserebbe mai celare la calvizie come fa lui, sotto un riportino appiccicato
sulle tempie con il gel, uomini pronti ad ostentare un’oscena calvizie, una
scoppatura eversiva.Per fortuna sono oltre l’incrocio e l’impossibilità di
poter fare un’inversione a “u” mi salva dal mio proposito suicida. Immagino l’assicuratore
dagli occhiali alla Rick Moranis, tenere sulle sue ginocchia i suoi figli ed
insegnar loro i rudimenti della diffidenza verso il prossimo, dell’andare in
culo agli altri per avere successo, della sopraffazione, del saper riconoscere
l’abominio da un abito, un pelo fuori posto, una maglia peccaminosa, una scarpa
pornografica. L’assicuratore è un Tognazzi in un episodio di un film di Risi: “Educazione
sentimentale”. All’improvviso, il suo volto mi riconduce alla sua prole! Sì, io
conosco i suoi figli, in particolar modo una, la quale ha intrapreso una
carriera politica con i mezzi più squallidi. Come riavvolgessi un nastro, tutto
diventa più coerente con quello che conosco di questa persona quasi che,
conoscendo la sua progenie, avessi dovuto prevedere il comportamento del padre.
Se avessi avuto più spirito e più memoria, avrei potuto girarmi, dopo l’incidente
e prevedere, dal rumore dei suoi passi e dal suo riporto, quello che mi avrebbe
detto. Lo avrei dovuto anticipare, urlando: “So chi è sua figlia quindi lei ora
mi dirà delle cose di merda!” Sarebbe rimasto basito, muto, in mezzo alla
strada, distrutto da una verità la quale invece si è tramutata in menzogna nei
miei confronti. La colpa di un figlio sarebbe potuta ricadere, per la prima
volta, sul padre.
mercoledì 9 ottobre 2019
La settimana delle uova
Essere dei poveri, di questi
tempi, è un lusso proprio di coloro che vogliono provare il brivido della
caducità. Non si tratta di essere poveri come nei quadri del verismo dove,
madri morenti allattano al seno bimbi smunti, mentre il padre, alla porta della
baracca, si attacca impudicamente ad un fiasco di vino. Oggi la povertà ha un
suo stile, possiede linguaggi, che possono essere utilizzati a proprio favore,
trasformando un povero vero, in un uomo assolutamente anonimo all’interno di un
gruppo, nell’illusione di condividere lo stesso tenore di vita. In questo tempo
sospeso, tra gli altri, un povero come me, si muove, sfruttando al massimo
tutte le risorse che ha perché la sua sciatteria sia considerata un atteggiamento
neodandista, talmente portato all’estremo da risultare invidiato da persone
facoltose ma prive di qualsiasi qualità umana. Ho fatto il classico, questo può
deporre a mio favore quando si tratta di ricordare passaggi di testi classici,
da recitare rigorosamente in greco antico. La cosa non funziona quando vado al
cementificio perché, in genere, il mio interlocutore, un magazziniere con
l’occhio iniettato di sangue per l’abuso di pessimo vino da discount,
preferisce vantarsi del suo novissimo calendario da camionista nel quale, la
pratica della depilazione femminile, è cosa misconosciuta. Per mimetizzare le
povertà, con gli altri, si può ricorrere alla boutique cinese. Basta acquistare
svariati capi, per pochi euro. Si otterrà, dopo qualche tempo, la possibilità
di sfoggiare indumenti sempre diversi ma si riempirà l’armadio di inutile
ciarpame il quale, a causa del pessimo tessuto, anche dopo lavato, continuerà a
puzzare di calzini sudati. Le caratteristiche dei locali, oggi, fanno sì che io
possa rimanere fuori da essi, per ore, senza per questo consumare nulla,
approfittando per chiacchierare con qualche amico. L’importante è che la gente
mi veda. Tuttavia, è in casa, che la povertà non può essere nascosta. Il
frigorifero è la bocca della verità, che si spalanca impietosa, su di me e sui
miei familiari, ogni volta che le finanze languono. Le prime cose che si
notano, nel frigorifero del povero, sono due mele rinsecchite e mezzo limone,
nello scompartimento frutta. Di seguito, sullo sportello, alcuni barattoli
smezzati, dalla maionese ad un recipiente nel quale, l’ultima alice è
pietrificata nell’olio addensato e giallastro. Su tutto, la cosa più
importante: le uova.
Questo alimento può rappresentare la salvezza per una
famiglia di quattro persone, quando viene gestito in larghezza come nel caso di
una frittata. Non importa lo spessore, la cosa essenziale è l’estensione dello
spicchio spettante ad ogni commensale. E’ dimostrato, infatti, che l’occhio
riesce ad inviare la sensazione di sazietà allo stomaco, quando viene
ingannato. Se nel frigo c’è un cespo di lattuga, il piatto è pieno.
domenica 15 settembre 2019
La faccia di Roma
Era da tanto che non visitavo
Roma con questi occhi. Anni fa, quando la città era completamente diversa
eppure immota con la sua immagine di un’isola delle meraviglie, ad ogni angolo,
tra una foglia scolpita da Borromini ed una bottega polverosa, si potevano
ascoltare le voci schiette dei pizzicagnoli. Tutto mi sembrava perfetto per i
miei diciott’anni che poi sono diventati venti, ventiquattro, ventotto. In
quegli anni di gioventù, ogni volta che visitavo la città, cercavo le mie bolle
di felicità, percorrendo i vicoli, fotografando le facciate barocche,
rifugiandomi tra le colonne di San Pietro, passeggiando a sera lungo il Tevere,
commuovendomi come un vecchio nei tramonti di Villa Borghese. Una metropoli di
campagna nella quale perdersi , dove non eri nessuno e per questo potevi
diventare qualcuno. In questi trentacinque anni di continuo prendersi e
lasciarsi, l’ultimo incontro fu pieno di emozioni e sofferenze allo stesso
tempo. Era un Capodanno piovoso: lo trascorremmo tra una mostra di
Caravaggio e i luoghi di una città totalmente trasformata da una
antropizzazione multietnica e alienante. Roma mi appariva proprio come un’opera
di un’artista in cerca di segni e simboli. Dove erano i miei vicoli pieni di
voci dalle botteghe, dai portoni tarlati, dalle vespette attaccate ad un palo
con la catena? Una sola cosa mi rimaneva ancora: i campanili alti che si
stagliavano da una folla eterna di cerulei turisti, di filippini che ti
volevano appioppare ombrellini inutilizzabili e rose, l’odore di cipolla come
in qualsiasi posto del mondo e i sacchi di riso per le famiglie numerose. L’altro ieri ci sono tornato, dopo tanto tempo. Questa volta i monumenti li ho lasciati stare. Incomincio ad essere vecchio per commuovermi davanti a pietre disposte in modo regolare. Ho voluto osservare le persone. Gente che si muove lungo le strade, che scende le scale, uomini e donne che aspettano un mezzo pubblico. Nei segni del tempo sulle guance, nelle rughe della fronte, negli occhi , si possono ascoltare le storie di una città. Ho scoperto un’altra Roma, quella
dei colori diversi, dei linguaggi più
incomprensibili. Mi sono perso nello sguardo degli indiani con le buste della
spesa che tornavano a casa, seduti nella metro, dei senegalesi vestiti come dei
rapper, dei pakistani nelle fritterie, dei filippini che parlavano quattro
lingue mentre servivano in pizzeria. Roma è il centro del mondo perché il mondo
sta dentro Roma. Ho immaginato la stessa scena qualche millennio fa, quando la
città era la capitale dell’Impero e moltitudini di uomini da tutte le terre
conosciute, giravano per le sue strade in una Babele di lingua e costumi. I
veli cobalto che incorniciavano i volti delle donne indiane sono gli stessi che
scendono da un autobus di linea. Nei quartieri ottocenteschi dove le fontane
funzionano ancora, gli atrii dei palazzoni, ospitano accademie, fondazioni,
famiglie borghesi con il terrazzino pieno di rose. Al piano terra i parrucchieri
cinesi accolgono chiassosi ragazzi di colore. Il sole taglia le chiome degli
alti platani mentre i vecchi portano i cani a spasso e le badanti polacche
spingono pesanti portoni. Su tutto rimarrà un’immagine, quella sì commovente:
la piccola donna di servizio messicana, seduta davanti a me sull’88. Da un
cellulare con il vetro rotto, guarda sorridendo le foto del nipotino lasciato
dall’altra parte dell’oceano, il quale avrà un futuro grazie anche a questa
nonna che lavora, instancabile, nella casa di una famiglia romana. Nei suoi
occhi forse ho visto il Dio che non conosco ma è più forte di qualsiasi odio
per lo straniero.
martedì 21 maggio 2019
Born to be coglione
sabato 6 aprile 2019
Il cavaliere rosso
La prima memoria che ho di un
oggetto a ruote è di un ciuchino di plastica rosso con le orecchie che si
giravano. Il giochino che dovevo spingere con i piedi, mi consentiva grandi
avventure lungo il corridoio dell’appartamento in via Ronchi a Milano. Non era
facile, a quell’epoca avevo due o tre anni. Il problema era dato dal fatto che
fosse consuetudine per le brave padrone di casa, passare la cera sul lugubre
pavimento di marmo e questo impediva il giusto grip che mi consentisse di darmi
una spinta sufficiente. Mia zia e mia madre, un giorno, si divertirono a vestirmi
con una ridicola cuffietta che mi faceva sembrare uno di quei cicciobelli da
collezione. Avevo dei lacrimoni incredibili. Fu quella l’occasione per
fotografarmi in quella tenuta che mi avrebbe lasciato un trauma per il resto
della mia vita insieme a un desiderio represso di fare la drag queen. Le
orecchie di quel cavallo fungevano da calmante per il dolore causato dai miei
denti che crescevano in modo disordinato. Le masticai fino a scolorirle. Tuttavia
l’asinello fu un buon inizio. La sorpresa maggiore si presentò quando ci
trasferimmo in un appartamento al piano terra, sempre nella stessa via. L’appartamento
aveva un giardino, nel quale era piantata una bellissima magnolia. Il piccolo
pezzo di terra, relativamente spoglio si affacciava direttamente sul
marciapiede e sulla strada. Andavo ancora all’asilo e, in quel periodo, mio
padre aveva acquistato un maggiolino rosso. Una sera i miei genitori si presentarono
a casa con uno scatolone enorme. Figuratevi il mio stupore quando, aperto il
contenitore, vidi quella bellissima replica della macchina di papà, dotata di
un paio di pedali di ferro. Quello che diede da pensare ai miei familiari fu
che, passati i primi attimi di gioia, riversai la mia attenzione verso lo
scatolone, lasciando perdere per una decina di giorni il contenuto. Della
macchinina non me ne fregava niente. Volevo inventarmi le avventure più incredibili
in quello scatolone. Mi sono sempre chiesto cosa mi passasse per la testa:
preferire in contenitore al contenuto. La scelta, cosa che ho realizzato dopo
tanto tempo, non fu dettata dalla superficialità tipica di un atteggiamento
infantile ma dallo scoprire le potenzialità creative dello scatolone: con quel
coso a forma di cubo inventai le migliore avventure che un bimbo solo, nella sua
cameretta, di pomeriggio, avrebbe potuto inventare. Una nave, un castello, un
rifugio, un fortino. Un oggetto che nella sua essenzialità era potenzialmente
trasformabile in tante cose. Scesi nuovamente sul piano terra quando mio nonno acquistò
per me la prima bicicletta: era una Graziella blu con un paio di rotelline
grigie. Rimasi sconcertato che fosse piegata in due, in seguito scoprì che si
poteva congiungere tramite una cerniera al centro del telaio. Scorazzavo intorno
alla palazzina del Torrione a L’Aquila, insieme ai miei amici dell’estate:
Patrizio, Stefano, Cesare e Mauro. Fino a quella sera quando, levate le
rotelline laterali, dopo vari tentativi, riuscì a pedalare tenendomi in
equilibrio. Capì che era iniziato qualcosa d'importante per me nel momento in
cui, per l’emozione, un piccolo rivolo caldo mi scese lungo una gamba..
giovedì 14 marzo 2019
La nuotata del bradipo
Ho sempre avuto una sorta di
trasporto per due animali in particolare: l’elefante e l’asino. L’elefante è
l’animale che più di tutti rappresenta per me, il tempo. L’asino invece ha un
valore affettivo. Sull’asino rivedo i miei bisnonni e l’origine della mia
famiglia. Quando vedo un ciuco provo una sorta di raptus. Se sono in macchina o
in bici, devo fermarmi. Nel caso di questi due animali, il mio corpo si
comporta stranamente: mi estraneo dal contesto, sono tutto concentrato sull’animale.
Nulla è più importante del cercare un contatto. Per l’asino è facile:
ultimamente molte case di campagna hanno iniziato ad averne uno. Incontrare un
elefante è più complicato, l’ultimo l’ho visto allo zoo di Napoli e non era per
nulla contento della sua condizione. In ogni caso, ho provato a cercare delle
ragioni per le quali io sarei così attratto da queste bestie. Non ho nulla che
mi accomuna nell’atteggiamento e nel carattere. Solo di recente ho trovato un
quadrupede che ha cambiato il mio modo di pensare nel profondo: il bradipo.
Mentre facevo dello zapping, ho trovato un documentario che parlava delle
grandi città del sud America, così vicine alle foreste e di come, talvolta, la
fauna selvatica, potesse occupare alcuni territori fortemente antropizzati,
subendone le conseguenze. Si parlava appunto del bradipo e di una associazione
che li salva, quando attraversano, a rischio della vita, delle strade
fortemente trafficate.
Chi ha visto un bradipo conosce la sua proverbiale
lentezza e l’impossibilità di reagire velocemente ai pericoli imminenti. Il
bradipo è una sorta di drugo, che vive la sua dimensione di animale lento e
assolutamente vulnerabile. Qualsiasi altro essere vivente , nei millenni,
avrebbe potuto trasformare le sue debolezze, per istinto di sopravvivenza. Il
bradipo no. Quello che mi ha colpito di più, nel documentario, è stata una
ripresa fatta dal fondo di un fiume impetuoso, di un bradipo che nuotava da una
sponda all’altra. Sono rimasto estasiato dall’eleganza distaccata delle sue
bracciate lentissime, con queste zampe dotate di unghie enormi. Il bradipo era
totalmente impermeabile all’urgenza del cercare una salvezza. Nuotava quasi al
rallentatore con una regolarità ed una calma, dovuta alla sua natura di animale
quasi rassegnato ad una probabile sconfitta da parte degli elementi naturali.
Non c’era alcuna urgenza: l’animale era cosciente della sua essenza di essere
indifeso e ostinatamente praticava la lentezza come inevitabile, un piacere nel
lasciarsi andare a qualsiasi destino gli si sarebbe prospettato con quella
condotta al limite dell’inerzia. La nuotata di quel bradipo somigli alla mia
vita: ho deciso che gli sforzi, gli affanni non siano utili se la nostra natura
non è destinata a sopportare determinati ritmi. Così nuoto nel fiume in piena,
sperando di cogliere il meglio nella lentezza, nella pausa che mi permette di
osservare piccoli cambiamenti del cielo o il sapore di un vino fresco da bere.
Se suona il telefono e ho appena acceso un sigaro, preferisco gustare la prima
boccata piuttosto che rispondere. Voglio sentire l’umido della sera, quando
vado a correre magari rallentando il mio passo, lasciando che la corsa sia solo
il contorno di un momento da ricordare. Lavoro passando il pennello una volta
in più, quando la vernice fa rumore sul muro e colore riempie la parete. Come
il bradipo sull’albero, resto aggrappato a questa vita, intuendo che non sarà
ancora per molto. Tuttavia voglio tagliare i miei giorni a fondo come si fa con
un cocomero ghiacciato pregustandone il sapore, nel momento in cui le labbra si
stringono sulla polpa.
lunedì 4 marzo 2019
L'accendino rosa
Ho un
vizio, tra gli innumerevoli, che mi porto dietro da oltre vent’anni. E’ un
vizio ad intermittenza, nel senso che ne rimango vittima per alcuni mesi salvo
poi starne lontano per altrettanto tempo: mi piace fumare i toscani. All’inizio
lo consideravo più un vezzo, dato che il modo di fumare un sigaro richiede una
certa dimestichezza, essendo totalmente diverso dalla sigaretta. Durante i
primi anni, quelli della passione pura, aderii persino ad un sedicente club del
Toscano, andando in giro per l’Abruzzo a sfumacchiare insieme ad altri,
accompagnando il tutto con distillati e cioccolati. Arrivavano gli esperti
dalle concerie lucchesi, a spiegarci lavorazioni delle foglie di tabacco, le
stagionature e gli abbinamenti con gli alcolici. Per farla breve: una setta di
crapuloni nella quale mi confondevo bellamente, nonostante non avessi una lira
già da quei tempi lontani. L’illusione di essere un manager rampante con tanto
di barca ormeggiata al porto di Pescara e il maseratino per andare a sciare a Chamonix.
Facevo i salti mortali per nascondere la mia Ford station wagon di seconda
mano, nei parcheggi dei locali adibiti a cotali riunioni del vizio. Spesso mi
colpiva un aspetto, che avevo notato in altri consessi quali le fiere dei
materiali edili: la donna utilizzata come hostess di bella presenza, la quale
andava in giro per i tavoli a dispensare i sigari scelti all’uopo per procedere
alla degustazione. I più smaliziati nell’accettare quei sigari, già formulavano
improbabili congiunzioni carnali con le suddette ragazze, in un clima nel quale
l’odore del testosterone superava quello pur deciso del Toscano. Ero colpito
dal capitolo riguardante il mezzo per accendere il sigaro: mai utilizzare gli
accendini a benzina che avrebbero impregnato il sigaro irrimediabilmente,
preferibili erano i fiammiferi, ma bisognava aspettare che la fiamma arrivasse
al legno del bastoncino per evitare che la prima fumata sapesse di zolfo. Un
buon compromesso era dato dagli accendini a gas, visti senza infamia ne’ lode
dai puristi. Il sigaro ha la forma del pene: nel vizio del fumo si concentra un
insieme di visioni, desideri, aspettative e soprattutto attese che
caratterizzano una combustione la quale ha inizio e , irrimediabilmente, un
termine, proprio come nell’atto sessuale. Non ci ho mai pensato veramente in
questi ventidue anni. Ho vissuto alcuni momenti belli della mia vita
soprattutto perché sapevo che dopo avrei acceso un bel Toscano a completamento
della splendida giornata. Dopo il periodo della passione è arrivato quello
della consapevolezza e dell’abitudine, tempo nel quale dovevo decidere orari e
qualità della mia fumata: un Toscano Garibaldi o extravecchio poteva andare se
avevi iniziato la giornata con focaccia e prosciutto, un Antico era più gradito
dopo un pasto. Avevo aperto una parentesi con i cubani ma i sigari sudamericani
hanno bisogno di lentezza e ozio, come
se tenere in bocca un Macanudo ti facesse uscire da un romanzo di Amado. I
toscani li preferivo, perché potevo lavorare in mezzo alla polvere con il
mozzicone spento tra le labbra, una sorta di antidoto alla sporcizia, al puzzo
delle vernici, agli schizzi di cemento, alla segatura. Guardavo con una sorta
di venerazione, le fotografie contenuti nei libri sul Toscano che avevo
collezionato durante gli anni, mi colpivano i volti ruvidi dei contadini, dei
pescatori salernitani con i loro ammezzati in bocca, mentre tiravano su le
reti, dopo aver fatto colazione con le alici sul pane ed un bicchiere di vino.
Il tutto in un clima maschiale, peloso e volitivo. Con il tempo, feci una
cernita dei tabaccai migliori nei quali acquistare i sigari ( guai a comprarli
nei bar!), rivendite nelle quali avrei potuto trovare il mobiletto
deumidificatore. Riuscivo a capire da subito la qualità del tabacco, premendo
leggermente la pancia del sigaro, se troppo stagionato o troppo fresco.
Abbandonai le scatole di fiammiferi, per questioni di praticità e comodità,
preferendo l’utilizzo del semplice accendino a gas. Adesso, nonostante tanti
anni di fumate e tante storie ad esse legate, la cosa che più mi è rimasta
impressa è il momento dell’acquisto dell’accendino. Può sembrare strano ma,
ogni volta che chiedo un accendino al tabaccaio, egli direttamente evita di
darmi quello colorato di rosa e dirige la sua scelta verso altre tonalità. Perché?
Cosa c’è di strano in un accendino rosa? Vi posso assicurare che questa cosa mi
accade sistematicamente ad ogni acquisto di accendini. All’inizio la cosa non
mi turbava, ora rappresenta un gesto insopportabile tanto è vero che io rifiuto
la scelta arbitraria fatta dal tabaccaio e chiedo espressamente il rosa, sotto
lo sguardo attonito del commerciante, spiazzato da un muratore sporco di
cemento con mezzo toscano in bocca. Ciò accade anche se chi è addetto alla
vendita è una donna. Perché il rosa alle femmine e l’azzurro ai maschi? Nella
vendita di un oggetto si nasconde la forma mentis della persona e non è
necessario indagare oltre per capire che le categorie si precostituiscono già
dalla più tenera età, con la colpevole responsabilità dei genitori e degli
educatori. Il maschio è l’azzurro, come il principe, come il blaue reiter, come
il fiocco sul grembiule delle elementari. Il rosa è femmina, come la carne, come la
rosa rosa, come il Monte Rosa. “ Questa cosa mi sembra un po’ da femmine,
questa invece un po’ da maschi”. Che significa? Nello sguardo stranito del
tabaccaio che rimette a posto l’accendino, scelto al posto mio e prende quello
rosa, noto tutta l’impossibilità di costruire i rapporti umani basati
esclusivamente sul rispetto delle dignità altrui. L’ultima volta, una
ragazzina, forse figlia del titolare della tabaccheria, con la gioia di chi ha
appena iniziato a lavorare, alla mia richiesta di un accendino, ha allungato la
mano sul contenitore nel quale tre accendini rosa erano lì da soli, distanti
dagli altri diversamente colorati, prendendo quello nero che era in ultima
fila. Ho gelato le sue sicurezze dicendole: “ Non fa niente, mi dia quello
rosa, non diventerò frocio solo per questo
sabato 23 febbraio 2019
Il puzzo della vittoria
Sto gonfiando il karma. Mi sto
preparando psicologicamente. Tutto accadrà quanto prima. Ho già allenato la
mente con una serie di sogni di felicità distribuiti, in ordine sparso, durante
le mie notti disturbate. Sono progetti di cose concrete che realizzerò non
appena quello che ho previsto,
succederà, stravolgendo la mia vita e quella dei miei cari: vincerò all’Enalotto
o trovando il Gratta e Vinci fortunato. Non sono quando ma sarà così. Non una
cifra esorbitante ma la giusta quantità di denaro, sufficiente a coprire i miei
debiti e realizzare le cose che mi permetteranno di vivere in serenità l’ultima
parte della mia vita. C’è solo un ostacolo da superare: non gioco. Il fatto è
che costa troppo e ogni volta che entro in un bar o una tabaccheria e potrei
acquistare un biglietto vincente, evito di farlo, preferendo tenere in tasca i
miei soldi. Per ottenere risultati ci vogliono disciplina, impegno e
caparbietà, tutte doti che a me mancano. Dovrei minimizzare i costi, facendo
leva sull’ispirazione che mi condurrà senza grande esborso economico, ad
entrare in una rivendita e acquistare, al primo colpo, il tagliando che mi
cambierà la vita.
Mi vedo varcare la soglia di questo bar dove, muratori e
camionisti sono intenti a guardare lo schermo sul quale, i n continuazione,
vengono estratti numeri che non si allineeranno sulle loro schedine. Li vedrò
accartocciare le loro matrici con una smorfia di disappunto. Sarà in quel preciso
momento, il quale precede la formulazione di una nuova sequenza numerica da
parte loro e la fila presso la ricevitoria, che si creerà un vuoto nel flusso
dei desideri e delle speranze altrui. In questo nulla, sgombro dai sogni degli
altri, io avrò i numeri giusti. La sequenza scorrerà inesorabile sullo schermo,
mentre guarderò attonito l’allineamento astrale sulla mia schedina. Sarò
percorso da un rush caldo e tuttavia dovrò camuffare una certa indifferenza
nonostante la felicità inizi a pervadere la mia anima. In quel momento avrò gli
occhi puntati addosso e dovrò stare attento perché i miei contendenti potranno
circondarmi e, in combutta tra loro, strapparmi dalle mani la cedola vincente,
per appropriarsi dei miei denari e sotterrarmi nel retro del bar, dopo aver
fatto a pezzi il mio cadavere. Dovrò uscire dal locale con calma, entrare nel
furgone, mettere la sicura e allontanarmi senza andare troppo di fretta,
assicurandomi che i suddetti muratori e camionisti, accortisi in ritardo della
vittoria, mi possano inseguire e buttare la mia macchina sotto un fosso.
Arrivato a casa, potrò sfogare la mia gioia, urlando a squarciagola, nello sgabuzzino.
In seguito, arriverà il mome
nto delle decisioni su come e se condividere la
vittoria con la mia famiglia. Potrei comprare una buona bottiglia e annunciare
l’accaduto a cena o realizzare tutto quello che ho progettato, di nascosto,
simulando ancora per qualche periodo lo stato di indigenza, per poi fare una
sorpresa agli altri. Ultima possibilità: potrei fare armi e bagagli, lasciare
la maggior parte della cifra a mia moglie e alle mie figlie e fuggire nello Sri
Lanka per realizzare il mio sogno di lavare elefanti per il resto della mia
vita. Lontano da casa però, abbandonerei la mia famiglia nelle mani dei soliti
muratori e camionisti i quali, dopo essere venuti a conoscenza del fatto che,
nel bar da loro frequentato, c’è stata una grossa vincita, potrebbero risalire
a me e oserebbero tenere in ostaggio i miei cari, costringendomi a tornare
dallo Sri Lanka, lasciando i miei elefanti insaponati. Una volta tornato, sarei
costretto, a cedere i denari vinti a questa banda di manovali, abbrutiti da
anni di sconfitte alle slot machine, incattiviti da Gratta e Vinci grattati
male, da numeri arrivati in sogno da zie e padri tornati dall’aldilà.
Camionisti convinti che numeri ritardatari, prima o poi debbano uscire, in
barba alle leggi del calcolo delle probabilità, come se i numeri avessero un’anima
o fossero benevolenti verso chi li invoca continuamente. I numeri non sono
riconoscenti, i numeri sono impietosi come quelli che contano gli anni passati
a sognare dei sogni che ti permettono di sopravvivere, sperando in un domani
migliore, domani che è appunto uno , il quale sommato ad un altro domani fa
due. A forza di contare si arriva al giorno in cui, non avendo mai giocato, per
paura di perdere, si è perso tempo e l’ultimo desiderio è quello che un bravo
artigiano faccia un buon lavoro, quando verrai tumulato nel loculo. Lo sapevo:
alla fine bisogna sempre fare i conti con un muratore.
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