“Babbo, ma io ero
felice del mio lavoro, Da principio ero incapace, molto efficiente ma poco
efficace. Ora sono un mastro, di quelli buoni per farci le novelle. Mi
inquadrano anche i tiggì, quando fanno i servizi sul genio italiano e le buone
promesse dei candidati che lodano il lavoro patrio. Or son ventiquattro anni
che spennello pareti, applico piastrelle e muri ergo. Coibento ergo sum.” “ Sono ventiquattro anni che hai deciso di
essere coglione – ha sbottato mio padre – lo sai che all’inferno non c’è
neanche uno statale?” “ Ohibò- ho esclamato- ma cosa ne è stato dell’assenteismo,
delle vacanze, delle agevolazioni, delle convenzioni per gli studi e le colonie
a figli , nipoti, pronipoti, amanti, soggiorni agevolati more uxorio, saune e
terme per sciatiche dovute a uso smodato dell’aria condizionata, buoni pasto,
biglietti gratuiti per piste e posti al teatro, al cinema, ai parcheggi, mutui
agevolati inps, inpdap, cgil cisl uil, ispes, inail, ina, cassa previdenza qui,
cassa integrazione lì, liquidazioni,
pensioni, tredicesime, quattordicesime, quindicesime, crociere, bische, case di
appuntamento, file al banco carne e
precedenza ai loculi del cimitero?” “Proprio
per questo – ha risposto papà – non hanno mandato una bestemmia a memoria ma
hanno usato il calendario, a differenza tua, per segnare i giorni che li
separavano dal buen retiro. Hanno benedetto
ogni giorno per il posto nel quale ponevano le terga, guardando beffardi,
barbuti muratori inveire gli dei immortali, mentre masticavano il mezzo toscano
spento in bocca, impastando cemento sotto la furia degli elementi sopra un’impalcatura.
Sembravano spettatori muti in visita all’acquario, guardare attraverso il vetro
bestie rare e feroci, consumarsi nelle botteghe, indurire le mani con i manici
nuovi dei picconi, asfaltarsi i polmoni con le vernici al piombo. Lo spettacolo
li divertiva ma essi benedivano il Creatore per averli sottratti dal morbo del
farsi da sé.” “ Suvvia papà, avranno pur qualche scheletro nell’armadio – ho provato
a controbbattere- una rata del mutuo non pagata, una vacanza fatta con il certificato
medico, una pratica accelerata per il compare, una sbiarciatina sul pornazzo
fatta dal computer dell’ufficio” La fiamma sotto al culo di mio padre si accese
ancor di più “Cosa dici cretino! A chiunque abbia provato ad accusarli, loro
han risposto : maanoiletassecelesottraggonoallafonte. Ciò è sufficiente per
troncare ogni discorso. Tu, invece, che hai accettato i soldi in nero, non ti
sei sottratto al malaffare. Hai provato pure a metterti un cognome albanese,
per attrarre i tuoi clienti, figlio snaturato! Ora paga il tuo fio con l’inferno
oppure pentiti, trovati un lavoro serio! Detto questo, mio padre è svanito dal
sogno, lasciando il posto all’immagine di Conteil quale, tra un colpo di tosse
e l’altro, urlava: “Chiudiamotutto, partiteiva mò so cazzi vostri”. In quel
momento mi sono svegliato di soprassalto. Il telefonato ha squillato, era la
banca : “Mi dovrebbe rientrare di euro cinque”. Ho provato a vedere se c’era
rimasta qualche banconota volante fuori dalla finestra: era lì per strada, a mezz’aria , un vecchio calzolaio la stava
ancora inseguendo.
domenica 22 marzo 2020
Mio padre con la pizza in mano
martedì 10 marzo 2020
Di questi tempi
domenica 1 marzo 2020
L'incoscienza di Zeno
L’esimio professor Jubatti,
docente di lettere e storia presso il nostro pregiatissimo Liceo, avvolto nella
sua nube di dopobarba dolciastro, alle
ore undici e trenta del 10 maggio
millenovecentottantasei, ci aveva ufficialmente rotto le balle. Durante l’ennesima presa di coscienza di Zeno
Cosini, del quale condividevamo solo il piacere della sigaretta, ci rendemmo conto che la letteratura
contemporanea serviva solo a far sì che gli angoli dei libri fossero buoni per
farci passare le unghie sporche attraverso. Decidemmo di passare a l’azione. Il
sottoscritto, Rocco “lu Gnè Gne”, Carlo detto anche “Acqua da li cujune” e
Pierpaolo, stendemmo il filo della tenda posta a protezione degli enormi
finestroni, in modo che potesse costituire un limite aereo per le nostre
evoluzioni pallavolistiche. Così, mentre l’illustrissimo docente di cui sopra,
continuava imperterrito a chiedersi se il fumatore triestino e Svevo fossero la stessa
persona, noi quattro ci producevamo in un piccolo torneo di simil beach volley,
con tanto di bestemmie. Jubatti non proferì verbo ma covò una vendetta
silenziosa di cui fummo vittima durante lo scritto degli esami di
maturità. Stavamo sudando su Tacito, in
quel giugno ventilato, brancolando su quattro righe di versione che non
rendevano decifrabile il resto della consegna. I commissari di esame erano
particolarmente distratti. Fu allora che il nostro prode membro interno, parve
venirci in soccorso. Si avvicinò a noi quattro componenti del “quartetto” e
suggerì la traduzione, illudendoci sul fatto che ci fossimo tratti
da l’impaccio. Sotto l’occhiale dal vetro antiproiettili di quel ex allievo
ufficiale di complemento, sposato con tanto di tocco dello spadino, sbarcato
con ignominia da una lanciaerei solo per il fatto di aver festeggiato la sua promozione
in un locale della costa ligure, tirando l’alba con quattro zoccole brasiliane
e una bottiglie di Cristal versione magnum, si nascondeva il principe del male,
il quale aveva architettato per noi “ribelli” la traduzione giusta per
inchiodarci con un bel quattro allo scritto.
Se avessi ascoltato “mammà” a quei
tempi, mi sarei applicato a di più sulle depressioni di Svevo, lasciando
perdere i miei brufoli da un chilo e le tecniche per lasciare fuori le scarpe a
far loro prendere aria senza seccare le piante.
Fu solo davanti alla commissione, durante gli orali, che ci rendemmo
conto del i frutti amari delle vendetta professorale. Neanche una giaculatoria
ciceroniana avrebbe potuto colmare il sottovuoto cosmico della nostra media.
Sbattemmo i denti, annaspammo, supercazzolammo, maledicendo gli dei immortali e
le idi di marzo. Ci promossero solo perché avevamo rotto il cazzo e non ci
volevano tra i piedi, l’anno seguente. Di quella mattina, ricordo il ritardo
con il quale arrivai a scuola e Jubatti alla finestra che mi incitava a far
presto per non aver la sconfitta due a zero a tavolino. Mi presentai con una
paio di Clark rosse e blu, jeans scoloriti e la t-shirt di un gruppo rock
tedesco, il look giusto per far raggrinzire il contorno labbra della professoressa
di storia, una vecchia zitella teramana la quale, mi raccontava chi mi aveva
preceduto, gradisse fare colazione con salamelle a base d’aglio. Dell’esame ricordo poco ma quello che mi
rimase impresso per il resto dei miei giorni fu quando, una volta terminata la
prova e uscito da l’edificio, mi voltai per salutare la mia vecchia scuola con
il gesto dell’ombrello: alla finestra c’era Jubatti il quale, ormai libero da
ogni apparente impegno morale verso i suoi studenti, anticipo il mio saluto con
un ghigno rivolto alla mia persona mentre con la mano, stringeva i suoi
attributi, sventolandoli in mia direzione, quasi volesse esortare il
sottoscritto ad usarli come appiglio.
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