sabato 13 febbraio 2010

La messa di Natale


Don Francesco era parroco di S. D., una piccola frazione dell’entroterra ortonese. Originario della Tuscia, aveva portato dal suo paese, una vecchia 126 color cacca di piccione che tentava invano di parcheggiare nelle vie limitrofe alla sua chiesetta, vie tutte intitolate, stranamente, a quanti lo avevano preceduto alla guida della parrocchia. Questa cosa lo preoccupava molto ed al tempo stesso gli procurava un po’ di invidia. Si vociferava, infatti, che si aggirasse di notte, nel suo catorcio, alla ricerca di una strada vergine od uno slargo che avrebbe potuto avere il suo nome, per quando lui non sarebbe stato più. Per questo molti lo avevano soprannominato “il piazzetta”. Statura bassa tarchiata, guance rubizze, scrima leccata ed appiccicata verso sinistra, una pancia che si allungava rotonda, contenuta da una vecchia cinta., colletto bianco che gli procurava un clamoroso triplo mento, quasi fosse un cappone in amore. Ma Don Francesco aveva una caratteristica saliente: era ingordo. Spesso lo si vedeva in gran fretta andare dalla perpetua verso mezzogiorno, pranzare velocemente, impastando frasi poco chiare riguardanti impellenti doveri ( in verità spazzolava sempre tutto) ed uscire prima che fosse l’una, per andare a scroccare un altro pasto completo ed abbondante da un suo parrocchiano, armatore di un piccolo peschereccio, con la scusa di benedirgli qualche cosa. Il parroco della frazione vicina, Don Igino, sibilava malignamente sulla porta della chiesa, quando lo vedeva passare: “ il battello è piccolino, ma che stiva capiente!”. Don Francesco, in ogni caso, aveva già fatto selezione di chi poteva essergli utile e di chi, invece, inquadrata la sua vera natura, avrebbe potuto dargli dei fastidi. Di solito, simili individui, avevano la stessa indole di quel prete. Attaccata alla canonica, c’era la piccola abitazione del Piazzetta: due stanze al piano terra, tenute pulite dalla perpetua ed un piccolo scantinato, dove Don Francesco, teneva i suoi tesori: prosciutti, formaggi, regali di vecchiette devote e soprattutto una riserva di vino da far invidia ad un Ricasoli. Trebbiano, Montepulciano, Pecorino, tutti vini abruzzesi, talmente raffinati e conservati bene al punto che lui li divideva tra la tavola e la funzione religiosa: egli sosteneva infatti che un vino cattivo avrebbe potuto invalidare la Messa. Con questa scusa, nelle varie celebrazioni della giornata, si scroccava un quartino alla volta, riempiendo la coppa dell’Eucarestia fino all’orlo. Ma, coerentemente con la sua figura di prelato, non era tenero con gli uomini dediti agli eccessi e specialmente con uno: Giuvannine Cendechioppe, un raggrinzito e maturo manovale, esperto soprattutto in lavori di “gomito”. Don Francesco era solito scagliarsi proprio contro Giuvannine nei sermoni della domenica, quando parlava di sobrietà e di vizio. Dopo aver preparato proprio uno di questi sermoni, si ritrovò, la sera di Natale, verso le dieci e mezzo, a scendere in cantina per prender il vino necessario alla celebrazione di quella Santa ricorrenza. Il Piazzetta, accesa la luce, ebbe una terribile sorpresa: la cantina era vuota come una zucca secca! Spariti prosciutti, formaggi ma soprattutto il vino! Barcollò come un pugile sotto i pugni dell’avversario…come avrebbe fatto adesso? I sospetti caddero subito su Giuvannine che proprio in quel momento passava per la strada vicina rivestito di tutto punto per la Messa. Don Francesco concluse immediatamente che quel furfante, per pagarsi il vestito buono, aveva barattato i tesori del suo scantinato con qualche pannazzaro del mercato al giovedì. Pensò immediatamente di vendicarsi. Ma il pretino non era uomo dai gesti eclatanti, era subdolo e non era capace di fare scenate, ma poteva essere mellifluo e suadente anche con il peggiore dei nemici. Ci voleva una scusa per attirare Giuvannine nella trappola. Decise di chiamarlo. Gli chiese: “Giovannino caro, vedo che sei vestito di tutto punto per questo Santo giorno, ma hai l’animo pulito?” “Frechete Don France’! ” gli rispose Giuvannine. “Giovannino” disse il parroco “ Io penso di poterti dare una indulgenza speciale per Natale, se compirai una buona azione, cenando con me in sagrestia prima della Messa. Sono molto solo e vorrei condividere con te questa ricorrenza. Dimentichiamo tutto il male che ti ho detto. In fondo sei un buon uomo.” Il povero Giuvannine che era sbevazzone ed anche un po’ fesso, cadde nella trappola. “Scine Don Francè! Lu vine li’ puorte ije!”. Detto questo corse a casa a prendere una bottiglia di Montepulciano, dalla sua, in verità, non molto fornita riserva. Un’oretta prima della messa eccoli, in sacrestia, Don Francesco e Giuvannine, imbandire la tavola su di un panchetto attrezzato all’uopo. Fu quando Giuvannine si mise di spalle per stappare la bottiglia di vino che il Piazzetta gli assestò un colpo sulla testa con un vecchio candelabro. Giuvannine cadde come un sacco di patate. Fatto questo, il parroco, lo spoglio, avendo cura di ripiegare per bene il vestito nuovo della vittima e ficcò con forza il corpo inerte del beone, in mutande, dentro un ripostiglio pieno di statue di gesso e vecchi paramenti. Eccolo Don Francesco, sull’altare durante la celebrazione dell’Eucarestia, nella messa del Santo Natale. La chiesa era piena di fedeli e di parenti ritornati al paese per le festività. Don Francesco celebrava con solennità. Stava lì con il calice in mano pronto per la formula del messale: “ Prendete e bevetene tutti…” Quando, fu interrotto da una voce che sembrava provenire dall’aldilà: “ Che ‘dda fè tu?” . Il parroco barcollò tra il brusìo generale. Poi si ricompose e tentò di continuare: “ Questo è il mio…” Ad un lato dell’altare era comparso Giuvannine, in mutande, con la stola sulle spalle ed una mitra presa dalla mano di chi sa quale statua di Santo. “Quessè iè lu vine mè!” . Nel boato di stupore di indignazione e di risate dei più maliziosi, Don Francesco svenne. La messa andò a monte e molti fecero in tempo ad andare nell’altra parrocchia, da Don Igino, per seguire la celebrazione. Il Piazzetta passò la notte delirando, con un febbrone da cavallo. La settimana dopo, dopo una sonora lavata di capo presso la curia vescovile, venne trasferito in un’altra parrocchia, questa volta vicino il suo paese. Il fattaccio fu argomento di conversazione nel bar per qualche tempo, poi fu dimenticato. Pochi, però, avevano notato quella famosa sera di Natale, all’entrata della chiesa, un uomo, mai visto prima, scuro, sopracciglia foltissime e barba puntuta, che uscì sogghignando, nella notte, lasciando dietro di sé una penetrante scia sulfurea. E’ inutile dire che, a Don Francesco, nessuno del paese aveva rubato nulla.